Stabiana (Iosephi Centonze Paginae)  ~  Homepage  Testimonianze letterarie e storiche

 

MATTEO MARIA RISPOLI

Generosa

ossia Stabia al secolo nono

(1859)

 

 

 

 

 

 

XIV. Chiesa di S. Francesco

 

Di fianco al Seminario Diocesano rimpetto la Cattedrale miransi gli avvanzi d’una grande chiesa opera di Carlo II. d’Angiò; il seminario medesimo n’era il monastero, prima tenuto da’ Basiliani, poscia da’ Teresiani e quindi da’ Riformati; e nel 1819 passati questi nel convento soppresso de’ Cappuccini lungo la strada Quisisana fu dato a Monsignor D. Bernardo della Torre per inventirlo in Seminario, ciò che poi eseguì il suo successore Colangelo, e infine portato a compimento da Monsignor Petagna con grandioso progetto!

Questa Chiesa, col suo maestoso campanile quasi simile in altezza e forma a quello di Pozzano, fu diroccata nel 1842 perché cadente; e quantunque distrutta nella parte principale pure se ne conserva una grandiosa cappella laterale riconosciuta sotto il nome di Oratorio, conservata mercé lo zelo e le cure indefesse de’ due fratelli Giovan Giuseppe e Catello Raffaele Longobardi, l’uno ora Vescovo di Andria, l’altro Arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di Castellamare amendue modelli di zelo sacerdotale ben noti per la loro scienza e prudenza.

Oltre a questa, molte chiese di questa città più non esistono mentre nel 1740 se ne contavano 38, con vari conventi di Domenicani, Cappuccini, Riformati, di S. Giovanni di Dio, Gesuiti, Paolotti, Agostiniani ed uno ospizio de’ Certosini, ora però appena n’esiste una minima parte.

 

 

XVIII. Il  monte Gauro

 

è un incanto veramente che rapisce colui, che dopo circa cinque ore di salita giunge alla sommità più elevata di Faito, detto, monte Aureo o Gauro. Il più bel Panorama che possa offrire il nostro regno, se gli presenta allo sguardo. Da un lato il cratere del golfo di Napoli, circondato dalle isole di Capri, Ischia, Procida, e Nisite; dal capo Posillipo nel continente che va a finire nella punta della Campanella, Napoli e sue adiacenze, Portici, le Torri, Castellamare, Vico, Meta, il Piano, Sorrento e Massa che la costeggiano sul lido. Tutta la provincia di Napoli si offre alla vista con parte di Terra di Lavoro. In mezzo di tutte queste città il Vesuvio colla cima fumigante qual despota delle terre circonvicine domina le distrutte Ercolano e Pompei. Dalla parte opposta, il golfo di Salerno, dalla Licosa a Massa con tutte le città di quella vasta provincia e gli avanzi di Pesto in lontano. Fra un golfo e l’altro, la catena de’ monti Sorrentini si osserva, come direbbero i moderni geografi a volo di uccello.

Questo monte poi è un vivo masso, che si eleva circa tre quarti di miglia sul livello del mare, e termina in un cocuzzolo a tre punte. In quella di mezzo, si mira oggi una chiesetta di fabbrica, fondata fin dal nono secolo; ma più volte riedificata, perché distrutta nel corso di dieci secoli, dal gelo, da’ venti, dalle intemperie, e dall’edacità del tempo. Questa che ora mirasi di fabbrica fu per la prima volta innalzata di legno. Tant’era la premura di chi la costruiva, portarla a compimento, ed ubbidire la voce dell’arcangelo S. Michele, che la chiedeva. Sul maggiore altare avvi una nicchia, ove mirasi una statua del S. Arcangelo in marmo. La vecchia tradizione e costante ne assicura che questa statua nella vigilia della festività del detto Arcangelo nell’ufficiare i Canonici e propriamente all’intuonarsi del magnificat, d’un tratto si vedeva il volto del Santo cambiar colore, e tutta la statua trasudare da capo a piedi. Di questo portentoso avvenimento oltre alla tradizione, vi ha ancora qualche documento autentico che lo compruova; come allorquando nel 14 giugno 1558, un’orda numerosa di turchi saccheggiavano Sorrento; pochi abitanti della desolata città si rifuggiarono nella cappella del Gauro, ed ivi pregando S. Michele furono racconsolati colla vista di quel segno di protezione, ed il di vegnente Sorrento fu miracolosamente salvata da’ turchi e restituiti gli schiavi.

Di tuttociò io lascio il mio lettore a consultare chi ne scrisse di proposito, mentre la mia meta è di raggiungere i fatti di Generosa senza entrare in disputa alcuna. Oltre di che a me non va a genio quella parte della letteratura, nella quale, dopo lungo competere fra due opinioni, ciascuno resta sempre piú confermato nella sua, ed hanno amendue torto, e ragione.

 

 

XIX. Portaceli

 

Tra l’enorme macigno del Gauro alla cui sommità è situato il piccol tempio, e la bassa collinetta della Conocchia, vi è praticato un passaggio che dalla forma d’una porta e dalla sua altezza in cui è collocato, fu sin dagli antichi tempi chiamato Portacèli. Ecco un altro bello spettacolo che si presenta a colui, il quale dopo lunga sofferenza di erta montagna, giunge a qursto punto! Mira sotto ai suoi piedi da una parte il pendio delle montagne di Lattaro, diramazione degli Appennini, dall’altra parte quelle di Positano coverte di antichissimi faggi, le cui cime son tutte tronche dai fulmini. Qui lascia il passaggiero alle spalle il golfo e la provincia di Napoli, e gli si offre quella col golfo di Salerno, delle quali questo punto n’è il confine.

Alla destra di chi entra v’è, come diceva, la collina della Conocchia, la quale si distende da levante a ponente, e domina tutte le altre circonvicine, menoché la rupe di S. Michele.

Nel giorno 30 luglio in ogni anno essa è coperta da una immensità di capanne formata da rami e foglie di alberi, da tende di bastimenti ivi portate, da coverte e finanche da lenzuoli. Tutta la collina brulica di piú migliaia di persone.

Dopo l’ora di Vespero, i Canonici ed il Clero seguito da immenso popolo, discendono processionalmente portando le statue di S. Catello e S. Antonino, dall’alto del monte, e si fermano in mezzo di queste capanne, ove uno dei canonici fa il discorso di apparecchio alla festa del giorno 31 in onore di S. Michele. Allora sbucano da tutte le capanne, e si concentrano d’intorno all’oratore tutti quei divoti, ed ascoltano le sue parole con sommo raccoglimento, commozione e profitto. Dipoi tutti accompagnano le statue dei santi sul monte, e ricevuta la Benedizione col SS. i preti si ritirano in un tetto coverto di legno dalla parte meridionale della chiesa; le donne in una grande barracca dalla parte settentrionale chiudendone l’ingresso a chiave, la quale è ritenuta da una di loro piú proba ed anziana. Gli uomini ritornano sulla conocchia nelle loro boscherecce abitazioni.

Sul far della sera si mirano sulla collina fuochi in tutti i punti per riscaldarsi e difendersi dal forte freddo, che quantunque nel tempo canicolare pure là si soffre a cagione dell’elevatezza del clima. Ogni capanna è ornata con lanternini anche al di fuori, in mezzo dei quali sventolano delle bandiere. Fuochi di artifizio di bengala, granate e razzi serpeggiano per l’aria, e mille voci di allegrezza ne accompagnano gli scoppi. Poscia siegue un silenzio, e le diverse piccole compagnie recitano le loro preghiere, chi a voce piú alta e chi piú sommessa.

Nel giorno 31 di buon'ora tutti ascendono al sacro tempio con altri sopraggiunti nella stessa notte. Ivi assistono alla Messa a’ divini uffici, alle preci, a’ diversi discorsi e sentimenti che si danno dai sacerdoti dal sacro pergamo, per implorare sulle famiglie la protezione dell’Arcangelo, ed alla fine della funzione a tutti si dispensa un poco di bambagia che si fa toccare la statua di S. Michele. Molta fede e divozione si ha per quella bambagia benedetta dal contatto dalla statua, per la quale si ha gran fede.

Nel giorno primo agosto si canta la Messa solenne della Dedicazione della chiesa, e poi si porta il SS. precessionalmente fuori per il piccolo atrio, dal quale alle undici del mattino si fa benedizione da tre lati della chiesa cioè da settentrione da mezzodí e da occidente. Si canta l’inno Ambrosiano e si compie la sacra liturgia.

Questa santa pratica e questo divoto pellegrinaggio che si fa in ogni anno, quantunque in qualche tempo interrotto, dura da piú di dieci secoli, continuazione di ciò che ivi praticava, quantunque in altre forme il vescovo stabiano Catello. Se mancassero altri titoli e monumenti per comprovare la santità del suo operare sul monte Gauro, basterebbe solo questo argomento parlante da mille anni!.

  

 

 

 

(Da: M. M. RISPOLI, Generosa, ossia Stabia al secolo nono, Castellammare 1859, pp. 206-207, 266-268, 282-284. Per notizie sull'autore e l'opera cfr., tra gli Studi della sez. Letteratura e Territorio, G. CENTONZE, Premessa a Generosa ossia Stabia al secolo nono di Matteo M. Rispoli)

(Fine)

 

 Ex Tabulis Iosephi Centonze

 

 

 

 

per Stab...Ianus

Altre Testimonianze

Buon Viaggio con

© Copyright 1998-2007 Giuseppe Centonze. Ultimo aggiornamento: 16 novembre 2007 .