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GIUSEPPE CENTONZE

Dal Sarno all'Arno

L'idronimo Sarnus da Virgilio al Sannazaro

*

Parte Seconda

Dalle Cronache pisane al Boccaccio

(1989)

 

 

Orosio fu certamente noto, tra l'altro, nella Pisa dei secoli XI e XII, come vuole G. Scalia(38), che riporta esempi di Sarnus = Arnus, nella convinzione che sia l'errore orosiano all'origine dello scambio.

Gli esempi sono molteplici. Alcuni sono tratti dal Liber Maiorichinus, un poema del 1115-1120 sulla vittoriosa spedizione degli anni 1113-15 contro le musulmane isole Baleari, e probabilmente costituiscono "le piú antiche attestazioni medievali dell'idronimo, con riferimento all'Arno, in fonte letteraria"(39): l'Arno è chiamato Sarnus al v. 138 ed al v. 1165, i Pisani sono chiamati Sarnigeni al v. 472 e Sarnicole al v. 1468. Un altro esempio è tratto dai coevi Gesta triumphalia, una cronica pisana relativa agli anni 1098-1119, dove l'Arno è nominato una sola volta come Sarnus: "Quapropter Pisanus exercitus in trecentis navibus ad Christianos liberandos in die S. Sixti de Sarni faucibus exivit..."(40). Altri esempi sono tratti da vari documenti, tra cui un atto del 27 gennaio 1093, una cartula donationis di un terreno confinante "in fluvium Sarni", "la piú antica testimonianza a me nota dell'idronimo nell'aberrante accezione"(41).

Lo stesso Scalia riporta anche esempi relativi all'area della Firenze della metà del Duecento, tratti da due importanti testi di storiografia, l'anonima Chronica de origine civitatis (in due redazioni latine) e i Gesta Florentinorum del giudice Sanzanome, che in qualche misura hanno lasciato traccia anche nell'opera di Dante, al quale quindi erano noti. Nella Chronica si legge: 1) "usque in colles Sarni seu Arni"; 2) "ex alia parte Sarni"; 3) "existentem juxta Sarnum"; 4) "aqua fluminis Sarni". Nei Gesta inoltre si legge: 1) "in villa Camarcia prope flumen Sarni"; 2) "Lucenses vero venientes iuxta flumen Sarni castra locaverunt"; 3) "ecce Pisani venerunt Sarno flumine in medio fluente". Nelle due opere l'Arno è chiamato sempre Sarnus, tranne che nel primo esempio dove è riportato anche Arnus(42). Ancóra altri esempi, databili dal 1312 al 1318, appaiono in un diario latino del notaio di San Miniato ser Giovanni di Lemno da Camugnori e dimostrano l'uso errato dell'idronimo, accanto a quello corretto, nel tempo in cui Sarnus appare nelle opere di Dante(43).

Particolarmente gli esempi fiorentini dovettero avere la loro importanza nel determinare l'identico uso errato del termine nelle opere dantesche. Ma piú probabilmente fu Orosio il punto di riferimento culturale anche per Dante.

Orosio, infatti, fu noto ed anzi piacque tanto al poeta fiorentino, che una interpretazione della storia non dissimile dalla sua prospettava e invocava.

 

A Dante piaceva anche il latino dello scrittore cristiano, tant'è che nel II libro del De Vulgari Eloquentia, a proposito dei modelli latini da imitare, cita Virgilio, l'Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano tra i poeti, e Livio, Plinio, Frontino e lo stesso Paolo Orosio tra quelli "che usarono altissime prose"(44).

Inoltre il poeta fiorentino mostra di avere accolto la concezione geografica di Orosio e, soprattutto, di essersi basato molto spesso proprio sulle Storie nel riportare episodi, date e personaggi storici; ciò non solo quando viene espressamente citato lo storico cristiano, ma in qualche caso anche quando è richiamata direttamente l'indiscussa autorità di Livio, lo storico "che non erra", come leggiamo ai vv. 10-12 del c. XXVIII dell'Inferno: "[...] per la lunga guerra, / che dell'anella fe' si alte spoglie, / come Livio scrive, che non erra". Anzi è da notare che questo stesso passo, soprattutto se alla luce dei "tre moggia d'anella" di Convivio IV 5,19(45), appare in contraddizione con il richiamato passo liviano (XXIII 12,1), dove si parla, è vero, di tre moggi di anelli, ma poi si nega valore alla notizia e la si corregge con l'indicazione di un solo moggio; Dante è invece in armonia con Orosio, che nel quarto libro delle Historiae parla appunto di tre moggi di anelli(46). Allo stesso modo, in Monarchia II 4,9, Dante, nel riportare l'episodio del temporale che impedí il pericolo di Annibale alle porte di Roma, richiama l'autorità di Livio (XXXVI 11), mentre in realtà appare molto piú vicino ad Orosio (Hist. IV 17,5). I due esempi, che si richiamano a due luoghi orosiani peraltro non lontani da quello che contiene l'identificazione Sarnus = Arnus, tornano utili per mostrare l'evidente influenza che su Dante esercitò Orosio(47). "Fu l'Ormista, in realtà, il suo storico"(48).

 

È molto probabile, quindi, che principalmente ad Orosio, come prima si diceva, sia dovuta la identificazione Sarnus = Arnus ricorrente, come ora vedremo, nelle opere latine di Dante, e solo in queste, a cominciare dal suo fondamentale trattato, composto, pare, tra il 1304 ed il 1307, che aprí prepotentemente la questione sul volgare italiano.

In De Vulgari Eloquentia I 6, infatti, il poeta fiorentino, "poiché l'umana attività con moltissimi e differentissimi idiomi si esercita", intendendo "mettersi sulle tracce di quell'idioma, di cui si crede si sia servito l'uomo che fu senza madre, che fu senza latte, che non vide l'età di pupillo né maturarsi l'adolescenza [sc. Adamo]" e sapendo che "chiunque ha un cosí ripugnante modo di ragionare da credere il luogo del suo nascimento il piú delizioso sotto il sole, costui apprezza pure sopra tutti il proprio volgare, cioè la sua lingua materna, e per conseguenza crede che proprio essa sia stata la lingua ch'ebbe Adamo", si propone di essere obiettivo, nonostante il suo amore per Firenze e nonostante abbia bevuto all'Arno quando non ancóra aveva i denti (quanquam Sarnum biberimus ante dentes):

Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus.

Ma io, che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all'Arno prima di mettere i denti, e tanto ami Firenze da soffrire, per averla amata, ingiustamente l'esilio, appoggio le spalle del mio giudizio piú alla ragione che al senso.(49)

Successivamente Dante usa il toponimo Sarnus nelle Epistole.

Con l'Epistola IV, scritta forse intorno all'anno 1308, dopo il soggiorno in Lunigiana del 1306, Dante presenta - a mo' delle parti in prosa che introducono le rime nella Vita Nuova - la canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia (Rime CXVI), probabilmente a Moroello Malaspina, marchese di quella regione; vi descrive l'incontro, avvenuto mentre "incauto" si trova presso le correnti dell'Arno (iuxta Sarni fluenta), con una donna di cui Amore lo rende schiavo uccidendo in lui quel "lodevole proposito per cui mi astenevo dalle donne e dai loro canti" nonché le "assidue meditazioni, con cui indagavo tanto le cose celesti quanto le terrestri":

Igitur michi a limine suspirate postea curie separato, in qua, velut sepe sub admiratione vidistis, fas fuit sequi libertatis officia, cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem, subito heu! mulier, ceu fulgur descendens, apparuit, nescio quomodo, meis auspitiis undique moribus et forma conformis. O quam in eius apparitione obstupui!

A me dunque allontanatomi dal limitare della corte poi sospirata, nella quale, come spesso vedeste con meraviglia, fu lecito adempiere uffici d'uomo libero, appena calcai i piedi noncurante e incauto presso le correnti del Sarno, di repente ahimè!, non so come, apparve, quale fulmine che discende, una donna, in tutto conforme ai miei voti per costumi e aspetto. O come rimasi stupefatto alla sua apparizione!(50)

L'appassionata Epistola VI è dall'"esule senza colpa" inviata "agli scellerati Fiorentini rimasti in città", i quali non hanno ubbidito all'assente imperatore Arrigo ed hanno trasgredito "le leggi umane e divine" non rendendosi conto che l'osservanza di esse "non solo non implica servitú, anzi, a guardar bene, appare essa stessa la piú alta forma di libertà", per cui dovranno aspettarsi la "giusta punizione". Essa è scritta il 31 marzo 1311 "alle sorgenti dell'Arno" (sub fontem Sarni):

Scriptum pridie Kalendas Apriles in finibus Tuscie sub fontem Sarni, faustissimi cursus Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo.

Scritto il 31 marzo [1311] in Toscana alle sorgenti dell'Arno, nel primo anno della faustissima venuta in Italia dell'imperatore Enrico.(51)

L'ancor piú accesa Epistola VII è indirizzata dal devotissimo e sempre "esule senza colpa" all'imperatore Arrigo dimentico della Toscana, ove, pertanto, il male prospera: "ad estirpar le piante non serve tagliarne i rami ché anzi rimetton virulenti rami piú folti finché le radici sono in grado di fornir loro alimento", bisogna invece tagliare "alla base la causa stessa di questa suppurazione morbosa" e questa "peste maledetta" non è una città che beve le acque del Po o del Tevere, ma Firenze, il cui "grugno insozza [...] le correnti rapide dell'Arno" (Sarni fluenta torrentis):

Quippe nec Pado precipiti, nec Tiberi tuo criminosa potatur, verum Sarni fluenta torrentis adhuc rictus eius inficiunt, et Florentia, forte nescis?, dira hec pernicies nuncupatur.

Certo, la scellerata non s'abbevera all'acque precipiti del Po né del Tevere tuo, il suo grugno insozza invece ancora le correnti rapide dell'Arno: si chiama Firenze (forse non lo sai?) questa peste maledetta!(52)

La stessa Epistola VII è scritta anch'essa nel 1311 (il 17 aprile), "alle sorgenti dell'Arno" (sub fonte Sarni):

Scriptum in Tuscia sub fonte Sarni XV Kalendas Maias, divi Henrici faustissimi cursus ad Ytaliam anno primo.

Scritto in Toscana alle sorgenti dell'Arno, il 17 aprile [1311] l'anno primo della faustissima venuta in Italia del divo Enrico.(53)

Sarnus riappare nelle Egloghe, ossia nella corrispondenza in esametri latini tra Dante e il grammatico bolognese Giovanni del Virgilio.

Quest'ultimo nell'Egloga I, inviata nel 1319, lo ha esortato a scrivere un poema in latino su temi di storia contemporanea per ricevere, in tal modo, anche l'apprezzamento dei dotti.

Il Poeta, da Ravenna, distraendosi dalla composizione del Paradiso, risponde con l'Egloga II (la prima di Dante), un carme bucolico di 68 versi nel quale afferma, nella parte del pastore Titiro che risponde a Melibeo (Dino Perini) sulla richiesta di Mopso (Giovanni del Virgilio), che preferirà cingere la corona di alloro sulle rive del nativo Sarno-Arno (patrio... Sarno) quando sarà terminata la terza cantica della Commedia:

Quantos balatus colles et prata sonabunt,

si viridante coma fidibus peana ciebo!

Sed timeam saltus et rura ignara deorum.

Nonne triuphales melius pexare capillos

et patrio, redeam si quando, abscondere canos

fronde sub inserta solitum flavescere Sarno?

Di quali plausi risuoneranno i colli e i prati, se con la chioma verdeggiante trarrò dalla cetra il peana! Ma temerei le selve e i campi ignari degli dèi. Non è forse meglio pettinare per il trionfo i capelli e in riva al Sarno nativo, se mai vi ritorni, nasconderli canuti, io solito ad averli lí floridi, sotto il serto di foglie?(54)

La risposta di Giovanni del Virgilio è 'per le rime'. Nell'Egloga III, propostosi di usare anch'egli la poesia bucolica(55), incoraggia Titiro, "meritamente indignato" per i pascoli del Sarno-Arno (pascua Sarni) strappati ai suoi greggi, con l'augurio di ritornare presso il suo "fonte" e con l'invito a voler raggiungere Mopso a Bologna (Mopso, se disprezzato, potrebbe rivolgersi ad Albertino Mussato, dissetandosi nel Musone, il fiume di Padova(56)):

Eheu pulvereo quod stes in tegmine scabro

et merito indignans singultes pascua Sarni

rapta tuis gregibus, ingrate dedecus urbi,

humectare genas lacrimarum flumine Mopso

parce tuo, nec te crucia crudelis et illum,

cuius amor tantum, tantum complectitur, inquam,

iam te, blande senex, quanto circunligat ulmum

proceram vitis per centum vincula nexu.

O si quando sacros iterum flavescere canos

fonte tuo videas et ab ipsa Phillide pexos,

quam visando tuas tegetes miraberis uvas!

Ahi per il fatto che tu vivi in aspro e squallido ricetto, e meritamente indignato piangi i pascoli d'Arno rapiti ai tuoi greggi - vergogna per l'ingrata città -, non voler bagnare d'un fiume di lacrime le gote al tuo Mopso, né affliggere crudele te con lui: il cui amore tanto, tanto, dico, ti cinge ormai, o dolce vecchio, con quanta stretta la vite per cento vincoli si avvolge all'alto olmo. Oh se un giorno tu veda i tuoi sacri canuti capelli rifiorire presso il tuo fonte, dalla stessa Fillide composti, guardando le tue pergole quanto ammirerai le uve!(57)

Come si può vedere, anche Giovanni del Virgilio, studioso di autori latini e soprattutto, a quanto pare, di quel Virgilio da cui avrebbe preso il soprannome e che aveva riportato nella sua Eneide il toponimo Sarnus, ha accolto l'equivoco dantesco Sarnus = "Arno", tant'è che al v. 229 della sua Egloga del 1325 diretta al Mussato, l'ormai deceduto Dante, con cui egli ha avuto la nota corrispondenza poetica, è definito Sarnius ("il Sarnio", "il Sarnese").

 

Va qui ricordato, certo, che c'è chi ritiene falsa la corrispondenza poetica fra Dante e Giovanni del Virgilio, cosí come l'Egloga da quest'ultimo diretta al Mussato, e ne ritiene autore-falsario lo stesso estensore di uno dei manoscritti che l'hanno trasmessa (il codice Laurenziano XXIX.8, il cosiddetto Zibaldone Laurenziano), vale a dire lo stesso Boccaccio: con questo espediente il certaldese, dopo il 1350, si sarebbe inserito nella vecchia questione di un Dante bravo come poeta in volgare, ma non altrettanto apprezzabile dai dotti come il Mussato per il mancato esercizio della poesia latina, e ne avrebbe dimostrato l'inconsistenza, forse in polemica anche con lo stesso Petrarca che pareva essere dell'avviso di quei dotti. Questa ipotesi, sostenuta non senza argomentazioni e documenti da A. Rossi(58) ed apparsa per un certo tempo convincente o almeno suggestiva, è stata poi decisamente confutata particolarmente da G. Padoan, per il quale è dovuto alla "fantasia" l'avere attribuito la corrispondenza eglogistica al Boccaccio, "ancorché la paternità dantesca di quegli scritti sia lampante, ed elementi oggettivi (errori di trascrizione, diversità di forme grafiche, ecc.) assicurino che il copista non può essere egli l'autore di quei versi"(59).

Va da sé che, se pure fosse vera l'ipotesi del Rossi e fossero, quindi, privi di valore gli esempi di Sarnus contenuti nella corrispondenza stessa (cioè quelli tratti dalle Egloghe di Dante e di Giovanni del Virgilio), rimarrebbero comunque incontestabili quelli tratti dal De Vulgari Eloquentia e dalle Epistole.

 

Rimangono, quindi, il forte interrogativo e, con esso, il problema perché o come Dante possa essere caduto nell'errore.

 

Nel dizionario dantesco di Paget Toynbee(60) sotto la voce Sarnus si legge: "It appears, however, that medieval writers not uncommonly used the name Sarnus to represent the Arno in Latin" (sc. "Pare, tuttavia, che gli scrittori medievali usassero non raramente il nome Sarnus per significare l'Arno in latino"). Il Toynbee cerca quindi di far rientrare gli episodi danteschi in una piú comune abitudine, ed infatti fa súbito dopo riferimento anche ad un passo del Villani che piú avanti riporteremo, nel quale si ripete l'errore orosiano.

Giorgio Brugnoli, che sull'argomento, sotto la voce "Sarno" dell'Enciclopedia Dantesca(61), ha steso un articolo documentato, apprezzabile per la concisione e la stringatezza, dopo aver constatato l'errore dantesco, non accetta quanto asserisce il Toynbee, "seguito pedissequamente da tutti", perché "assolutamente falso: Dante è il primo a condurre questa operazione". Il Brugnoli non sa evidentemente degli esempi anteriori a Dante e, d'altra parte, ritiene "assai improbabile che [Dante] non possedesse una nozione cosí elementare"(62).

Secondo lo studioso "le ragioni dell'errore di Dante sono piú profonde e raffinate"(63): "E' infatti credibile che Dante abbia voluto operare una scelta precisa e qualificante, accettando come dato culturale la rara e forse inaudita versione di Orosio sull'identificazione Sarno-Arno: lo dimostra, diremmo, la costanza dell'identificazione che non può essere quindi addebitata a esibizione erudita, ma deve avere un significato di messaggio ideologico"(64).

Osservando, quindi, che "Dante cita il Sarno-Arno collegandolo in prevalenza all'età mitica della sua pura infanzia"(65) e che "il patrius fluvius del suo paesaggio perduto non è piú l'Arno ma il Sarno-Arno sul cui antico fons Dante data le sue lettere politiche"(66), egli offre la seguente spiegazione: "Sul piano ideologico l'Arno diventa il Sarno come elemento topografico del sogno dell'esule e non importa certo che non sia un elemento autentico e reale, quando tutto il sogno di Dante di un suo ritorno a una nuova Firenze, lui ancor giovane e Firenze pudica, è privo di qualsiasi collegamento con la realtà sociale e politica. Sul piano culturale basta filologicamente a Dante per giustificare la sua innovazione l'accenno profetico di Virgilio e l'erudizione santa di Orosio, interprete che non erra di Virgilio: nel contesto sacro di reminiscenze e di utopie il vero nome latino dell'Arno (anche se Dante lo conobbe) non ha posto. Arno è il nome del fiero fiume della misera valle popolata da genti ferine, quale Dante vede la Firenze dei suoi tempi; e il fiume è condannato con la valle e i suoi abitanti. Dante infligge all'Arno una damnatio nominis. E non soltanto con l'estrosa e preziosa scoperta dell'equivalenza Sarno-Arno: in Pg XIV dichiara esplicitamente quella damnatio, rifiutandosi di pronunciare il vocabol di quella riviera, / pur com'om fa de l'orribili cose, perché degno / ben è che 'l nome di tal valle pèra (vv. 26-30)"(67).

La "discutibile tesi interpretativa [del Brugnoli], fondata su presupposti parzialmente inesatti [...] impone una sollecita attenta rimeditazione sul tema, per le opportune precisazioni e rettifiche", da parte di Giuseppe Scalia nell'articolo "Arnus" - "Sarnus", Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano(68). Ed infatti lo Scalia riporta esempi di Sarnus = Arnus precedenti a Dante, come già sappiamo, precisa il ruolo occupato da Orosio col suo abbaglio, allarga il suo già denso discorso alle posizioni del Boccaccio sull'equivoco (alla luce di recenti ipotesi di datazione di parte della produzione del certaldese), ritenendo e intendendo mostrare "ogni ricorso a motivazioni semantico-psicologiche, come quello tentato dal Brugnoli, [...] del tutto fuori luogo"(69).

 

Del resto, a voler rimanere sul piano della ipotesi del Brugnoli (a prima vista suggestiva, forse anche apprezzabile per il tentativo di giustificare o di nobilitare l'errore dantesco, ma non certamente verisimile), Dante non è poeta che preferisca chiudere gli occhi o gli orecchi di fronte alla realtà, per quanto brutta o vergognosa essa possa essere; è, invece, il poeta che preferisce le "chiare parole" e il "preciso latin"(70). Si tratta quindi di un errore, e le motivazioni vanno ricercate nell'autorità di Orosio, che aveva travisato il testo virgiliano, nella confusione del testo di Lucano, che elencava senza ordine vari fiumi tralasciando l'Arno e inserendo persino la Magra (perché allora non pensare che il "patrio" Arno si fosse chiamato un tempo Sarno?), nella non diretta conoscenza di Livio, nella difficoltà di approccio alla vasta opera di Plinio, nella scarse conoscenze geografiche del tempo, nella scarsa conoscenza dell'Italia meridionale in genere, forse anche nel voler trovare citato a tutti i costi presso gli auctores il nome dei luoghi cari benché "orribili".

La prova che non fosse difficile cadere nell'errore ci è fornita non solo dagli esempi precedenti a Dante, ma anche dal fatto che altri, e non solo Giovanni del Virgilio, vi incorrano contemporaneamente o in séguito, per diversi motivi e con diverse modalità.

Infatti anche Giovanni Villani, il cronista fiorentino e probabile amico di Dante nato forse nel 1280 e morto di peste nel 1348, nella sua Nuova Cronica (l'opera, lasciata interrotta nello stesso 1348, abbraccia la storia del mondo dalla torre di Babele fino agli avvenimenti piú recenti, con l'inserimento particolare di quella di Firenze), senza manifestare alcun dubbio crede che il Sarnus virgiliano sia l'Arno, anche se nel suo volgare non chiama col nome del fiume campàno il "fiume d'Arno".

Nel descrivere il percorso di questo fiume nell'àmbito del piú generale 'racconto' del "sito della provincia di Toscana", nel capitolo XLIII del I libro (scritto forse nei primissimi anni del XIV secolo e quindi, se è vera questa datazione, prima che lo stesso Dante cadesse nell'equivoco), egli accetta l'identificazione e riporta il passo virgiliano e la testimonianza di Orosio:

E del detto fiume d'Arno le antiche storie fanno menzione: Virgilio nel libro VII dell'Eneide parlando della gente che fu in aiuto al re Turno incontra Enea di Troia con questi versi:

Sarrastes populos, et quae rigat aequora Sarnus:

e Paolo Orosio raccontando in sue storie del fiume d'Arno, disse, che quando Annibale di Cartagine tornando di Spagna in Italia passò le montagne d'Appennino, vegnendo sopra i Romani, ove si combatteo in sul lago di Perugia col valente consolo Flaminio da cui fu sconfitto, in quel luogo dice, che passando Annibale l'Alpi Appennine, per la grande freddura che v'ebbe, discendendo poi in su i paduli del fiume d'Arno sí perdé tutti gli suoi leofanti, che non ne gli rimase se non uno solo, e la maggiore parte de' suoi cavalli e bestie vi morirono; ed egli medesimo per la detta cagione vi perdé uno de' suoi occhi del capo. [...] Bene racconta Tito Livio quasi per simili parole, dicendo, che 'l passo, e dove s'accampò Annibale, fu tra le città di Fiesole e quella d'Arezzo.(71)

In questo caso, sembra evidente che il Villani abbia accolto l'identificazione ed è pertanto difficile ritenere, col Brugnoli(72), che il cronista "si limita [...] alla citazione del passo di Orosio (che completa opportunamente con la fonte liviana) senza prendere posizione". Va ancóra evidenziato il confronto fatto con Livio: c'era allora un Livio con Sarnus invece di Arnus?

Per di piú il Villani identifica con l'Arno non solo il Sarnus di Virgilio, ma anche quello di Lucano. Assume per questo particolare rilevanza, nello stesso libro I, il precedente capitolo XLI ("Come la città di Firenze fu camera de' Romani e dello imperio"), in cui si constata come il verso II 424 di Lucano fosse certamente conosciuto, se mai fosse rimasto qualche dubbio, e come in esso Sarnus fosse interpretato, appunto, come Arno:

La città di Firenze in quello tempo era camera d'imperio, e come figliuola e fattura di Roma in tutte le cose, e da' Romani abitata, e però de' propri fatti di Firenze a quelli tempi non troviamo cronica né altre storie che ne facciano grande memoria. E di ciò non è da meravigliare, perocch'e' Fiorentini erano sudditi e una co' Romani, e per Romani si trattavano per lo universo mondo, e come i Romani andavano ne' loro eserciti e nelle battaglie. E troviamo nelle storie di Giulio Cesare, nel secondo libro di Lucano, quando Cesare assediò Pompeo nella città di Brandizio in Puglia, uno de' baroni e signori della città di Firenze ch'avea nome Lucere, era in compagnia di Cesare, e fue alla battaglia delle navi alla bocca del porto di Brandizio, valente uomo d'arme e virtudioso; e molti altri Fiorentini furono in quell'esercito e battaglie con Cesare e di sua parte; perocché quando fue discordia da Giulio Cesare a Pompeo e del senato di Roma, quelli della città di Firenze e d'intorno al fiume d'Arno tennero la parte di Cesare. E di ciò fa menzione Lucano nel detto libro ove dice in versi:

Vulturnusque celer, nocturnaeque editor aurae

Sarnus, et umbrosae Lyris per regna Maricae.

E cosí dimorarono i Fiorentini mentre ch'e' Romani ebbeno stato e signoria.

In quel "dei propri fatti di Firenze a quelli tempi non troviamo cronica né altre storie che ne facciano grande memoria [...] perocch'e' Fiorentini erano sudditi e una co' Romani, e per Romani si trattavano per lo universo mondo" possiamo leggere anche la spiegazione psicologica dell'abbaglio. La successiva citazione lucanea, addotta come prova non certamente opportuna (tanto quanto quella virgiliana, e tale da far anche pensare alla citazione di seconda mano), è quasi prova invece del desiderio di voler forzare il silenzio su Firenze e sull'Arno, che pure dovevano avere avuto una loro storia come luoghi legati ad importanti avvenimenti: quel Sarnus nominato dal grande Virgilio e da Lucano, che tanti luoghi citavano nelle loro opere, non poteva essere se non il caro e importante Arno. E poi, come si sa, c'era stata la nota testimonianza di Orosio!

E tuttavia, ripetiamo, Villani identifica con l'Arno il Sarnus di Virgilio e di Lucano, ma non chiama "Sarno" il suo "fiume d'Arno".

C'è chi invece, per averla usata ripetutamente, senza equivoci, ma con stile, sembra far ritenere che l'identità Sarno-Arno, almeno per qualche tempo, diventi quasi spontanea a certi livelli e sia accolta comunemente in segno di eleganza. E del resto se ne ha una prova nella Cronica pisana in volgare del cod. 54 dell'Archivio di Stato di Lucca, f. 45v, databile nella prima metà inoltrata del secolo XIV, dove si legge: "l'uno de lati in del fiume di Sarno volgalme[n]te ditto Arno"(73).

È appunto il caso del Boccaccio, che, fra il 1341 e il 1342, al suo ritorno a Firenze da Napoli (quindi da luoghi dove il Sarno vero non doveva essere ignoto), scrive l'Ameto o Commedia delle ninfe fiorentine, un'opera idillica e fantastica ed insieme allegorica, una 'rosa' che "ha il profumo piú raro ed essenziale di una suprema stagione gotica"(74), resa straordinariamente interessante sia dall'uso di una tecnica narrativa, che in qualche misura anticipa certi caratteristici risultati del Decameron (per l'inserimento di sette racconti in una cornice, in verità molto vasta, in versi e in prosa), sia dall'uso di un volgare ricercato e prezioso nonché singolare (per la presenza di qualche termine familiare(75), o fin troppo realistico(76), o di qualche immagine ispirata al mondo contadino(77), accanto a frequentissimi e raffinatissimi latinismi(78)), nella quale si avverte moltissimo l'autorità di autori latini quali Ovidio e Virgilio o cristiani quale lo stesso Paolo Orosio(79) o volgari quale, soprattutto, Dante(80).

In quest'opera il certaldese, volendo significare l'incivilimento dell'umanità educata alle sette virtú grazie all'amore, narra la vicenda del rozzo pastore Ameto (l'umanità, appunto), il quale, avendo incontrato, in una selva dell'Etruria situata alle pendici del monte Corice presso le rive dell'Arno, delle ninfe di Venere mentre si bagnano, s'innamora di una di esse, Lia (la fede), ed in séguito la cerca finché non la ritrova durante le feste dedicate alla dea Venere (la "luce del cielo unica e trina, / principio e fine di ciascuna cosa"(81)) presso un solenne tempio di quei luoghi: qui ascolta appassionatamente, nell'ordine da lui stesso stabilito, le ninfe (le virtú) parlare, secondo la proposta di Lia, dei loro amori, e finalmente, dopo il racconto di Lia, con un lavacro è purificato.

La storia di Ameto ha inizio in una piacevole ed ombrosa selva alle pendici del Corito, come si è detto, laddove il Mugnone si immette nel corso del Sarno-Arno (l'equivoco entra cosí nel volgare):

Nelle piagge del quale [sc. del monte Corito] fra gli strabocchevoli balzi surgeva d'alberi, di querce, di cerri e d'abeti uno folto bosco e disteso infino alla sommità del monte. Dalla sua destra un chiaro fiumicello [sc. il Mugnone], mosso dalla ubertà de' monti vicini, fra le petrose valli discendeva gridando inverso il piano; dove giunto, le sue acque con Sarno mescolando, il poco avuto nome perdeva. Era di piacevoli seni e d'ombre graziose la selva piena, di animali veloci, fierissimi e paurosi; e in piú parti di sé abbondanti fontane rigavano le fresche erbette.(82)

La seconda parte della storia si svolge, in occasione delle feste di Venere, presso un tempio posto a metà fra il Sarno-Arno e il Mugnone, dove tutti accorrono, quindi anche Ameto "di ornato vestitosi"(83), quindi anche Lia "similmente ornatissima"(84):

Ma tra gli altri [sc. templi] eminentissimo, sopra marmoree colonne sostenenti candida lamia, se ne lieva uno tra le correnti onde di Sarno e di Mugnone, quasi igualmente distante a ciascheduno, intorniato, quanto di lui si stende del vicino piano, di graziose ombre d'eccelsi pini, di diritti abeti, d'altissimi faggi e di robuste querce.(85)

Il racconto di Lia propone "prima l'origine e' casi della nostra città [sc. di Firenze] che i fuochi di Venere"(86) e percorre la storia del tebano Achimenide: dopo i tristi casi di Tebe è accolto da Ulisse e da questo condotto nella guerra di Troia e quindi nelle sue note peregrinazioni per poi essere abbandonato, nella fretta della fuga, nell'isola dei Ciclopi alle furie dell'accecato Polifemo; grazie al favore del dio Marte, che gli preannuncia che dovrà fondare in Etruria una nuova Tebe, è salvato da Enea, con cui giunge e combatte onorevolmente in Italia e da cui ottiene la licenza di fondare la città; giunge quindi in quei luoghi della profezia durante i solenni festeggiamenti al dio e, finita la festa e ritiratisi gli abitanti, è accolto e sposato da Sarnia, una ninfa che "ispaziose case con non grande popolo abitava" nei vicini luoghi del Sarno detti "villa sarnina":

Ma, a questi luoghi vicina, sopra l'onde del piacevole Sarno, una ninfa discesa di Corito, nobile di sangue e di costumi, Sarnia chiamata, in ispaziose case con non grande popolo abitava; e il suo nome avea imposto a' luoghi e villa sarnina la chiamavano tutti. La quale, l'avvento sentito del nobile uomo, con altre accompagnata, il visitò alle feste; e lui co' suoi compagni lieta ricevette nelle sue case; nelle quali Achimenide, con agurio di dimoranza eterna ne' presi luoghi, lei, ancora vergine, con matrimoniale legge si giunse, contenta di tale marito.(87)

Achimenide fonda quindi la nuova Tebe, ne costruisce le mura, il tempio di Marte, quindi le strade, le ròcche e le case da destinare agli abitanti di villa sarnina o a chi altro volesse:

E quindi alle rughe e all'alte ròcche e alle case popolesche diè forma, raccogliendo in essa [sc. nella nuova città] gli abitanti di villa sarnina e qualunque altro, sopr'essi tenendo piacevole dominio e grato a' sottoposti.(88)

Alla morte di Achimenide la città prospera anche col successore Iolao, ma poi la buona sorte muta, anche per la sopravvenuta invidia dei Coritani, e, nella presunzione che il motivo sia lo sfortunato nome di Tebe, forse ancóra inviso agli dèi, si decide di cambiarlo; ma i pareri son divisi tra Mavorzia, Sarnia, Achimenida e Dardania:

Ma essi, li popoli vari raunati, diversi desideri ebber tra loro. Altri voleano che quella si chiamasse Mavorzia dal principale iddio riverito da loro; alcuni, estimando questo battaglievole nome e piú atto ad accendere danni che a spegnere, piú utile Sarnia estimavano, questa dal nome della prima donna volendo nomare; e tali erano che Achimenida la voleano chiamare; e' piú antichi Dardania.(89)

Anche le sei divinità prescelte per stabilire il nuovo nome della città non riescono ad accordarsi: è allora Giove a stabilire che sia Marte a imporlo, e Marte non dà il suo nome, ma quello di Fiorenza, per contentare la dispiaciuta Venere. La città rifiorisce, finché non cade nell'ira di Lucio Silla, che la distrugge nell'81 a. C.: un'occasione di vendetta, questa, anche per Sarno, il dio del fiume, offeso per non essere chiamato per assegnarle il nome:

Ma Sarno, lei vedendo ne' danni estremi venuta e non potendo resistere alle sue onde, però che chiamato non fu alla sua nominazione con gli altri iddii, verso quella crucciato, vedendo il tempo atto alle sue vendette, l'ire lungamente tenute nascoste, uscendo de' termini suoi, fece palesi; e, gonfiato e d'acque abbondevole, allagò questo piano; e le lievi ceneri, cadute delle triste reliquie, con torbida fronte ne portò in Oceano, poi lieto tornando ne' suoi confini.(90)

Il racconto di Lia continua con cenni sulla successiva storia di Firenze e con il finale riferimento al suo amore per Ameto.

Dagli esempi dell'Ameto chiaramente emerge come il Boccaccio sia stato coinvolto nell'errore e nell'equivoco Sarno = Arno. Ma, successivamente, egli si accorge dell'errore. Nella glossa al già riportato v. 44 della Egloga II di Dante, che si è ritenuto appartenga agli anni 1345-1348 corrispondenti al suo soggiorno romagnolo, l'errore (che, si ricorda, era stato anche il suo errore) è annotato e indicato, sia pure con il tentativo di giustificazione (e però la ratio metri varrebbe solo per il luogo cui il glossatore si riferisce, non avrebbe alcun significato per tutti gli altri esempi danteschi), e non è lasciato spazio ad ogni possibile, ulteriore confusione:

Hic Sarnum pro Arno fluvio Tusciae inteligit, seu quod ratione metri auctoritate poetica addiderit in principio illam s, seu quod ita condam illum vocatum crediderit, eo quod Virgilius dicit: "et quae rigat aequora Sarnus", quasi de isto Arno loquatur, quod quidem falsum est: loquitur enim Virgilius de Sarno fluvio Campaniae prope Neapolim ut satis loca ibidem a Virgilio nominata demonstrant.

Per Sarno intende l'Arno, il fiume della Toscana, o perché per ragione di metro con l'autorità del poeta ha aggiunto all'inizio quella s, o perché ha creduto che cosí un tempo quello fosse chiamato in quanto Virgilio dice "e i campi che il Sarno irriga" quasi parli di questo Arno, il che certamente è errato: infatti Virgilio parla del Sarno, il fiume della Campania presso Napoli, come a sufficienza dimostrano i luoghi nello stesso passo nominati da Virgilio.

Dopo questa glossa cosí chiara, il Boccaccio può esprimersi con maggiore sinteticità a proposito del Sarni al citato v. 37 della Egloga III di Giovanni del Virgilio:

Idest Florentiae, ratione cuiusdam fluvii florentini sic nominati.

Cioè di Firenze, a motivo del fiume fiorentino cosí nominato.

Ed ancóra, con riferimento al Sarnius del v. 229 dell'Egloga di Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato:

Scilicet Dantes, a Sarno fluvio.

Cioè Dante, dal fiume 'Sarno'.

Tanto l'errore è ormai chiarito.

È pur vero, va detto, che è stata avanzata non senza motivazioni l'ipotesi di una retrodatazione della data di trascrizione da parte del Boccaccio delle Eglogae dantesche e delvirgiliane al 1339 circa, quindi a prima della composizione dell'Ameto; nel contempo, le glosse non sarebbero tutte della stessa mano e queste stesse ora riportate non apparterrebbero al certaldese, bensí ad altro postillatore conoscitore dei classici latini(91). Certamente, se fosse esatta la nuova datazione, le glosse che evidenziano l'errore dantesco non potrebbero essere di quello stesso Boccaccio che poi nell'Ameto richiamerà "Sarno" l'Arno e poi ancóra, come si vedrà, correggerà l'errore. D'altra parte non so fino a che punto si possa prospettare la tesi di un chiosatore non fiorentino e conoscitore dei toponimi campani(92), quando si sa che il Boccaccio è vissuto a Napoli; o ancóra quella piú forzata dello Scalia(93), per il quale si potrebbe "cogliere nella prima [postilla a Sarno di Egl. II 44] il riflesso, a livello scolastico, di una non improbabile contesa erudita locale volta a rivendicare l'ascendenza virgiliana alla Campania (da notare il puntuale riferimento all'area napoletana), in opposizione alla tradizione fiorentina", quando si sa che lo stesso Boccaccio nel Comento alla Commedia farà riferimento, come si vedrà, proprio al Sarno a mo' di esempio e senza che ce ne fosse necessità.

Ma, se pure le glosse non fossero di mano del Boccaccio, oppure non coincidessero con il suo pensiero e con il suo stile, non v'è alcun dubbio che nella sua maturità (particolarmente nell'intensissimo periodo di studio e di attività letteraria a Certaldo, dal 1362 alla morte avvenuta nel 1375) l'identità Sarnus = Arnus è indicata come errore.

Infatti, nel De montibus, silvis, fontibus, etc., l'importante repertorio di erudizione geografica composto in latino per i lettori di testi poetici ed elaborato con frequenti rimaneggiamenti dal 1355 al 1374, specificamente nella parte dedicata ai fiumi (De fluminibus), egli innanzittutto inserisce due voci distinte, Arnus e Sarnus, cui dedica relativamente ampio spazio in confronto ad altre importanti voci.

Sotto la prima di esse, dopo una interessante descrizione del fiume toscano, riporta anche il noto episodio di Annibale (finalmente senza il riferimento a Virgilio):

Arnus Tusciae fluvius est ex Appennino effluens mergitur in Tyrrhenum, [...] qui etsi navigabilis non sit, nec piscium foecunditate famosus, si quis recitare velit plurimum clarissimorum facinorum facile efficiet insignis. Ex quibus ut aliis praestet locum unum recitasse satis est. Is quippe certantibus de orbis imperio Romanis atque Carthaginensibus pro Romanis partibus vires posuit suas. Nam cum iam Alpes ex Hispania veniens Hannibal Poenus superasset, et Apennino transcenso ex Gallia venisset in Thusciam, a Fesulis iturus Aretium quasi ex composito totus effluens in tantum ripas excessit, ut Poenum maxima exercitus parte privaret, eumque ducem cogeret mediis in undis elephanto superstiti insidere, quem adeo nocturnis ac palustribus auris affecit, ut oculo caperetur uno, et ob hoc arbitror a veteri fama in hodiernum usque servatum, ut ob semicaecatum hostem Florentini, quorum forsan in agro contigit, cognominati sunt caeci, et si tantumdem fluvius egisset alter, aut caecus pugnasset Poenus, aut quietam Italiam omisisset.

Arno è fiume di Toscana dall'Apennino correndo si sommerge nel mar Toscano, [...] il quale quantunque navigabile non sia, ne famoso di fertilità di pesci, se fia chi voglia recitare facilmente sarà fatto nobile d'operazioni chiarissime: delle quali (acciò sia dato luogo à gli altri) bastici averne detta una sola. Questa di vero, essendo li Romani, e i Cartaginesi dell'imperio del mondo guerreggianti, in pro de' Romani pose le sue forze: perciocchè Annibal Cartaginese, venuto già di Spagna, e avendo superate l'alpi: e trapassato l'Apennino, essendo dalla Francia in Toscana venuto, per dovere andar da Fiesole ad Arezzo, quasi per ordine dato, intanto, correndo tutto, soperchiò le ripe, che al Cartaginese tolse gran parte dell'esercito, astrignendo il Capitano a seder sopra un Elefante in mezzo al fiume, ed in luoghi paludosi di notte, diede si pestilente aere ad esso Duca, che d'un occhio si restò privo: e per ciò dall'antica fama, infino all'odierno di è osservato, che per esser il nemico mezzo cieco, i Fiorentini, nel cui contado forse tal cosa intervenne, sieno ciechi sovrannomati: e se un'altro fiume avesse fatto altrettanto, Annibale cieco avrebbe combattuto, ovvero avrebbe lasciata l'Italia quieta.(94)

Sotto la voce Sarnus, oltre a descrivere il fiume campàno, il Boccaccio fa una importante attestazione asserendo che "alcuni" (ma chi? certamente Orosio e Dante, certamente Giovanni del Virgilio e Giovanni Villani che riporta l'episodio di Annibale, certamente egli stesso, ma anche altri?) "non ponendovi mente pensarono questo Sarno essere l'Arno fiume di Firenze":

Sarnus flumen est Campaniae ex Apaenino in Capream insulam tendente pluribus in locis vasto saxei montis murmure fundit adeo abunde ut non ante exierit quam amplissimas paludes fecerit incolis nebulis, quibus semper abundat, infestas nimium, ex quibus tandem in alveum coactus. Pompeianum sub Vesubio monte irrigat agrum, et pauco contentus cursu, nec alicuius alterius comitatus undis, satis tamen aquarum copiosus, haud longe a Stabia Tyrrhenum ingredit mare, hic apud Sarnum oppidum, quod fontibus eius imminet, ligneos fustes paleas frondes, et quodcumque in eum cadat lapideo paucis in diebus cortice tegit, et assidue agens materiam praebet incolis ex qua domos conficiant. Ex hoc Neronis Caesaris iussu paulo altius a radice montis inchoatus pilis fornicibusque latere cocto factis superaedificatus aquae ductus est et ad Misenum usquam protractus est habens ut arbitror .XIV.M. pas. longitudinis. Ibi vero quod Baianus sinus ob sulphur potabilium aquarum penuria patiat in piscinam vastissimae magnitudinis fundebat, et defectum totius orae illius sua copia maximo incolarum commodo staurabat. Hunc Sarnum aliqui minus advertentes Arnum Florentiae fluvium putavere.

Sarno è fiume di Puglia in terra di lavoro dall'Apennino nell'isola di Caprea tendente, e spargesi in molti luoghi con gran mormorio del monte sassoso, in tanto abbondevole, che non esce prima, che non abbia fatte paludi grandissime. Molesta molto con le nebbie gli abitanti, delle quali sempre abbonda. Ultimamente dalle paludi, nel suo letto ridottosi: sotto il monte Veluvio [da leggere "Vesuvio"] bagna il contado Pompeiano: e contentatosi di picciolo corso, e non accompagnato dall'onde altrui assai nondimeno d'acque copioso, non lungi da Stabbia, entra nel mar Toscano. Questi appresso il castello Sarno, il quale sta di sopra alle sue fontane, se fia, che in questo, o legna, o paglia, o frondi, o qualunque altra cosa caschino, in pochi giorni le ricuopre d'intorno di scorza di pietra: e menando seco assiduamente materia, di questa da cagione a gli abitanti di fabbricare case: e di questo per comandamento di Cesare Nerone, fu disopra dificato uno acquidotto, poco piú alto dalla radice del monte cominciato con pali, e altri sostenimenti di pietra cotta fatti, e esso acquidotto stesso insino Miseno, avente (come giudico) XIV. mille passi di lunghezza. Quivi era fondato l'acquidotto in piscina di smisurata grandezza, perocche il golfo di Baia, per cagione del solfo dell'acque di bagno potabili, gran penuria patisce, e con l'abbondanza di quello ristorava il mancamento di tutta la riviera, con grandissima comodità degli abitanti. Alcuni non ponendovi mente pensarono, questo Sarno essere l'Arno fiume di Firenze.(95)

Il Boccaccio nomina il Sarno e la sua caratteristica di pietrificare anche nelle Esposizioni sopra la Comedía, ossia in quelle sue lezioni di commento letterale e allegorico alla Commedia dantesca tenute in Firenze dal 23 ottobre del 1373 al gennaio successivo, lasciate interrotte per la sua malattia e poi elaborate provvisoriamente come opera scritta fino ai primi versi del canto XVII dell'Inferno e fino alla sua morte che lo colse a Certaldo il 21 dicembre del 1375.

Dante, ai versi 76-84 del canto XIV dell'Inferno, parla del "picciol fiumicello", una diramazione del Flegetonte, come è spesso inteso, che esce con un raccapricciante colore rosso dalla selva dei suicidi per attraversare il sabbione infuocato (dove sono puniti i violenti contro Dio, la natura e l'arte) e permettere l'attraversamento sui suoi duri margini anche ai due poeti: "Tacendo divenimmo là 've spiccia / fuor de la selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia. // Quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giú sen giva quello. // Lo fondo suo e ambo le pendici / fatt'era 'n pietra, e' margini da lato; / per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici"(96). Il Boccaccio, nella lezione LIV, relativa alla interpretazione letterale del canto XIV, cosí legge e commenta i vv. 83-84:

Fatte eran pietra, e i margini d'allato, come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, siccome qui fra noi l'Elsa, e presso di Napoli Sarno; Perch'io m'accorsi che 'l passo era lici, dove le pendici erano cosí divenute di pietra.

Egli offre cosí una lettura ed una interpretazione ben precisa, qual è quella della pietrificazione dei margini del fiume a causa delle incrostazioni depositate (lettura e interpretazione vicine, nel tempo, a Dante, ma che il Barbi(97) e i piú che lo seguirono non accetteranno, in considerazione anche di Inf. XV 12 "qual che si fosse, lo maestro félli", dove si parla di un "maestro", di un costruttore inteso come Dio, nonostante l'indeterminato "qual che si fosse"). E dimostra tale sua interpretazione ricorrendo proprio all'esempio dell'Elsa e del campàno Sarno che egli ben conosce.

Nel periodo di studio, revisione, rielaborazione, copia di manoscritti, segno anche dei tempi nuovi che approderanno alla nuova fede, alla nuova coerenza negli studi, nonché alla ricerca filologica che caratterizzeranno l'umanesimo, il Boccaccio, accorgendosi finalmente del secolare equivoco, ridà cosí al Sarno e all'Arno le loro acque, e le loro caratteristiche.

Già Benvenuto da Imola, ascoltatore delle lezioni del Boccaccio, nel suo Comentum alla Commedia di Dante, risalente nella sua forma definitiva agli anni 1379-1380, si fa portavoce delle definite certezze sui due fiumi. A proposito, infatti, della particolarità dell'"acqua d'Elsa" di Purg. XXXIII 67, sulle orme del Boccaccio, di cui tiene presenti anche le voci del De montibus..., egli riporta l'esempio del Sarno ed approfitta per sfatare ancóra una volta l'errore con la chiara indicazione, inoltre, del nome di Orosio:

[...] in Italia in multis locis sunt aquae quae vertuntur in lapides sicut aqua fluminis Sarni [...] Est autem hic fluvius in Apulia, et non est Arnus Tusciae, sicut quidam false scripserunt, sicut Horosius.

[...] in Italia in molti luoghi vi sono acque che si trasformano in pietre, come l'acqua del fiume Sarno [...] Questo fiume, invece, si trova in Puglia e non è l'Arno di Toscana, come alcuni falsamente scrissero, come Orosio.(98)

Gli umanisti potranno poi, proseguendo nella direzione della scientificità applicata anche allo studio diacronico del latino, confermare l'errore. Anche se qualche traccia di esso si rinverrà agli inizi del Quattrocento. Cosí infatti si legge in una interpolazione alla Storia fiorentina di Ricordano Malispini:

[I Romani] vennono nel piano dove è oggi Firenze in sulla ripa d'Arno che in quello tempo si chiamava Sarno, poi si dirivò il nome e fu chiamato Arno, e quivi in sulla riva fondarono cierte casette e capanne intorno, dove oggi si chiama Ponte Vecchio e dove oggi si chiama Vachereccia e Santo Michele in Orto, e quella borgata si chiamava Villa Sarnina, poi divolgata per ch'era in sul Arno, che poi si chiamò Villa Arnina.(99)

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

38) "Arnus" - "Sarnus", Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano, in "Studi Medievali", 3ª Serie, XX, 1979, Estratto, pp. 11-12.

39) Op. cit., p. 11. Per le citazioni dal Liber Maiorichinus il riferimento è all'edizione curata da C. Calisse, Roma 1904.

40) Op. cit., p. 13. L'edizione di riferimento è quella di M. Lupo Gentile in R.I.S.2, VI, 2, p. 96, l. 21 sg.

41) Op. cit., p. 13. Il documento citato è riportato in Carte dell'Archivio Capitolare di Pisa, 3: 1076-1100, a cura di Matilde Tirelli Carli, Roma 1977.

42) Op. cit., pp. 3-5. L'edizione di riferimento è O. Hartwig, Quellen und Forschungen zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, II, Halle 1880.

43) Op. cit., pp. 5-6.

44) De V. E. II 6,7 Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios, quos amica sollicitudo nos visitare invitat ("E forse sarebbe utilissimo, ad acquistarne l'abito, aver veduto i poeti regolati, vale a dire Virgilio, l'Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano; ed inoltre altri che usarono altissime prose, come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e molti altri che premura amichevole m'invita a visitare"). Traduzione di A. Marigo, in D. Alighieri, Tutte le opere, Firenze 1965, p. 235.

45) In Conv. IV 5,19 si legge: "E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza?".

46) Hist. IV 16,5 in testimonium victoriae suae tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit.

47) Per questi due esempi cfr. A. Martina, in Enciclopedia dantesca, Roma 19842, rispettivamente s. v. "Livio" (III, p. 674) e s. v. "Orosio" (IV, p. 206), dove è riportata anche la relativa bibliografia.

48) Cfr. A. Martina, in Op. cit., s. v. "Orosio" (IV, p. 207). Ormista è il titolo con cui furono note le Storie di Orosio, probabilmente per indicare l'"Or[osii] m[undi] ist[ori]a".

49) De V. E. I 6,3. Le traduzioni del De Vulgari Eloquentia riportate sono di A. Marigo, in D. Alighieri, Tutte le opere, Firenze 1965, pp. 207-208.

50) Ep. IV 2. Traduzione di A. Del Monte (che rende Sarni con "Sarno"), in Dante Alighieri, Tutte le opere, op. cit., p. 323.

51) Ep. VI 6,27. Le traduzioni sono di G. Vinay, in D. Alighieri, Tutte le opere, op. cit., pp. 326-330.

52) Ep. VII 7,23. Le traduzioni sono di G. Vinay, in Op. cit., pp. 330-333.

53) Ep. VII 8,31. Trad. cit., p. 334.

54) Egl. II 39-44. La traduzione è di A. Del Monte, in Op. cit., p. 357. Cfr. questi con i vv. 1-9 del c. XXV del Paradiso: "Se mai continga che 'l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sí che m'ha fatto per piú anni macro, // vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov'io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; // con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello".

55) Egl. III 26-30 Et mecum: "Si cantat oves et Tityrus hircos / aut armenta trahit, quianam civile canebas / urbe sedens carmen [.../...?] / Audiat in silvis et te cantare bubulcum" ("E dissi fra me: 'Se Titiro canta le pecore e i caproni o attira gli armenti, perché mai tu cantavi un carme cittadino stando tra le mura [...]? Titiro ascolti te pure nelle selve cantare in modo agreste'". Traduzione di L. Blasucci, in Op. cit., p. 361.

56) Egl. III 88 Me contempne: sitim frigio Musone levabo.

57) Egl. III 36-46. Le traduzioni sono di L. Blasucci, in Op. cit., pp. 361 e 363.

58) Cfr., di A. Rossi, Dante, Boccaccio e la laurea poetica, in "Paragone", n. s., XIII (1962), pp. 3-41; Il carme di Giovanni del Virgilio a Dante, in "Studi danteschi", XL (1963), pp.133-178; Boccaccio autore della corrispondenza Dante-Giovanni del Virgilio, in "Miscell. Stor. della Valdelsa", LXIX (1963), pp. 130-172; Dossier di un'attribuzione, in "Paragone", n. s., XIX (1968), pp. 61-125.

59) Voce Boccaccio in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 19842, p. 646. Del Padoan cfr. le due recensioni ai primi due studi del Rossi precedentemente citati (in "Studi sul Boccaccio", I, 1963, pp.528-544; II, 1964, pp. 475-507), e soprattutto Il pio Enea, l'empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977 e Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Firenze 1978, pp. 151-198.

60) Il noto dantista inglese dedicò a Dante numerosi articoli (qui si cita in particolare Dante's Obligations to Orosio, in "Romania", XXIV-1895, pp. 385-398) poi raccolti in Dante Studies and Researches (Londra 1902; rist. Port Washington 1971; trad. it., Ricerche e note dantesche, 2 voll., Bologna 1899-1904) e in Dante Studies (1921). A Dictionary of proper names and notables matters in the works of Dante apparve ad Oxford nel 1898 (noi citiamo dalla edizione rivista da Charles S. Singleton, Oxford 1968).

61) Roma 19842, V, pp. 37-38.

62) Op. cit., p. 37. La "nozione cosí elementare" è, naturalmente, che Virgilio in Aen. VII 738 parla del Sarno e delle terre della Campania, non certo dell'Arno.

63) Op. cit., p. 37.

64) Op. cit., p. 37.

65) Op. cit., p. 37.

66) Op. cit., pp. 37-38.

67) Op. cit., p. 38.

68) Op. cit.. Il passo riportato è a p. 1, all'inizio del saggio.

69) Op. cit., p. 20.

70) Par. XVII 34-35.

71) Cron. I 43.

72) Op. cit., p. 37.

73) Cfr. P. Silva, Questioni e ricerche di cronistica pisana, in "Archivio Muratoriano", 13(1913), p. 53. L'esempio è anche in G. Scalia, Op. cit., p. 16.

74) Cosí la definisce Carlo Muscetta nell'articolo Giovanni Boccaccio e i novellieri, in [Aa. Vv.], Storia della letteratura italiana, vol. II: Il Trecento, Milano 1965, p. 347.

75) Ad es. "cianciosa" ('vezzosa'), a p. 932 della edizione ricciardiana, dalla quale citiamo (G. Boccaccio, Decameron-Filocolo-Ameto-Fiammetta, Milano-Napoli 1952), dove, però, i curatori Carlo Salinari e Natalino Sapegno lo registrano in nota come "napoletanismo". Ma vedi N. Machiavelli, Opere, Firenze 1929, p. 775 ("Perchè di' tu 'ciancie' come i Fiorentini e non 'zanze' come i Lombardi?").

76) Ad es., "scombavata" ('sbavata', 'imbavata') si legge, a p. 1000, nel racconto colorito di Agapes ("egli ha piú volte, con la fetida bocca, non baciata ma scombavata la mia").

77) Ad es. "bomere" ('vomere'), a p. 1000, che è usato in senso osceno nel medesimo racconto di Agapes ("gli orti di Venere invano si fatica di cultivare; e, cercante con vecchio bomere fendere la terra di quelli, disideranti li graziosi semi, lavora indarno").

78) Ad es., "capelle" ('caprette'), p. 922; "ovvia" ('incontro'), p. 926; "patulo" ('troppo grande'), p. 934; "mi doce" ('mi educa'), p. 946. Si potrebbe includere anche "Sarno" ('Arno'), di cui si sta parlando, con i suoi derivati, fatta salva la mediazione di Dante.

79) Ad es. il "solea Semiramis entrare nelle camere del figliuolo di Belo" cioè di Nino, alle pp. 942-943, richiama certamente Orosio (Hist. I 4), oltre che Dante (Inf. V 58-59 "Ell'è Semiramis, di cui si legge / che succedette a Nino e fu sua sposa"). Ma lo stesso Dante qui dipende da Orosio.

80) Dante è seguíto, tra l'altro, nell'uso di termini particolari ("superinfusa" di p. 908, che richiama Par. XV 28), di rime preziose ("carribo-tribo" di p. 1045, che richiama Purg. XXXI 130-32), di similitudini (come quella di p. 972 "di tanti colori è dipinto il luogo che appena ne tengono tanti le tele di Minerva o i turchi drappi", che richiama Inf. XVII 16-18 "Con piú color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi tartari né turchi, / né fuor tai tele per Aragne imposte"). Lo stesso uso di "Sarno" (='Arno') riecheggia l'uso del termine riscontrato nelle opere latine di Dante.

81) P. 1046.

82) P. 909.

83) P. 925.

84) P. 925.

85) P. 925.

86) P. 1027.

87) P. 1035. Per la leggenda su "come di primo fu edificata la città di Firenze", cfr. il cap. XXXVIII della Cronica di Giovanni Villani, cosí intitolato, dove si parla di "due ville dette Camarti e [naturalmente] villa Arnina".

88) P. 1035.

89) P. 1036. Per la leggenda sul nome antico della città, cfr. ancóra G. Villani, Cron. I 38, dove si parla di una "Cesaria", del nome provvisorio "la piccola Roma", di "Floria" ("siccome fosse in fiori edificata, cioè con molte delizie"), poi divenuta "Fiorenza" (Ma poi per lungo uso del volgare fu nominata Fiorenza: ciò s'interpreta spada fiorita").

90) Pp. 1040-41.

91) Cfr. G. Padoan, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Firenze 1978, pp. 151-198.

92) Cfr. G. Padoan, Il Boccaccio..., op. cit., p. 189.

93) Op. cit., pp. 24-25.

94) De Mont., s. v. "Arnus". La traduzione, di annata e abbondante di refusi, è del letterato veneziano del Cinquecento Niccolò Liburnio, in Opera di M. Giovanni Boccaccio... de' Monti, Selve..., Firenze 1598, pp. 123-124.

95) De Mont., s. v. "Sarnus". Traduz. cit., pp. 216-217.

96) Il testo è quello stabilito dal Petrocchi (Milano 1966-1967).

97) In "Studi danteschi", XVIII, pp. 32-33.

98) Comentum..., Firenze 1887, IV, p. 278. L'esempio, che si rinviene in G. Padoan, Studi sul Boccaccio, II, 1964, p. 403, è richiamato dallo Scalia, in Op. cit., p. 30 e nota 169, il quale aggiunge anche quanto si legge, a proposito dello stesso luogo dantesco, in una delle recollectae del commento letto a Bologna da Benvenuto intorno al 1375, precisamente nel manoscritto contenente il commento di Stefano Talice da Ricaldone: "[...] Aqua Vallis Else, a principio ubi oritur, convertitur in petram; et ita Sarnus in Apulia".

99) Il luogo è citato dallo Scalia, Op. cit., p. 31, il quale ripropone la trascrizione del Davis (The Malispini Question, in A Giuseppe Ermini, II, Spoleto 1970, p. 227-sg.

(Continua)

(Da "Cultura e Territorio", VI-1989, pp. 121-145)

(Fine della Parte Seconda)
 

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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