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GIUSEPPE CENTONZE

Dal Sarno all'Arno

L'idronimo Sarnus da Virgilio al Sannazaro

*

Parte Prima

Da Virgilio al Geografo Ravennate

(1989)

 

 

L'uso piú antico, nella letteratura in latino, dell'idronimo "Sarnus", ossia del termine corrispondente all'odierno "Sarno" e significante il fiume della Campania che nasce dalle pendici dei monti prossimi alla omonima città di Sarno, da quelli intorno alla città di Nocera e da altri piú interni e sbocca nel Golfo di Napoli a Nord di Castellammare di Stabia, risale a Virgilio, al piú famoso poeta latino, che sulle sponde di quel golfo visse, dal 42 al 39 a. C., un'esperienza fondamentale per la sua formazione culturale e poetica.

Nel libro VII dell'Eneide, composta dal 29 al 19 a. C., Virgilio infatti narra dell'arrivo di Enea nella 'terra promessa'. Vi descrive la risalita del Tevere, l'accoglienza benevola da parte del re Latino, che all'eroe troiano offre in moglie la figlia Lavinia, e il successivo rovinarsi dei rapporti per l'odio di Giunone. Divenuta inevitabile la guerra, tutta l'Italia è in armi; e il poeta, presso il quale "giunge appena un lieve soffio della fama"(1), chiede alle Muse, che 'ricordano' e pertanto possono 'tramandare'(2), di dire i re, i popoli, gli eroi, le armi d'Italia coinvolti nello scontro(3). Nel lungo elenco compare Ebalo, figlio di Telone re dei Teleboi di Capri, il quale ha esteso il suo dominio ai Sarrasti ("popoli della Campania cosí chiamati dal fiume Sarno" come si legge nel commento di Servio(4)) ed alle "terre che il Sarno irriga", oltre che ad altre genti e terre della Campania:

Nec tu carminibus nostris indictus abibis,

Oebale, quem generasse Telon Sebethide nympha

fertur, Teleboum Capreas cum regna teneret,

iam senior; patriis sed non et filius arvis

contentus late iam tum ditione premebat

Sarrastis populos et quae rigat aequora Sarnus

quique Rufras Batulumque tenent atque arva Celemnae

et quos maliferae despectant moenia Abellae,

Teutonico ritu soliti torquere cateias;

tegmina quis capitum raptus de subere cortex,

aerataeque micant peltae, micat aereus ensis.

Né tu nei nostri versi sarai ignorato, Ebalo, che Telone generò dalla ninfa Sebetide, si dice, quando dominava Capri regno dei Teleboi, ormai vecchio; ma il figlio, non contento dei campi paterni, già allora in suo dominio teneva, estesamente, i popoli sarrasti e le terre che il Sarno irriga, e chi abita Rufra, Batulo e i campi di Celemna, e quelli sui quali stendono la vista le mura di Abella produttrice di mele, avvezzi come i Teutoni a lanciare cateie; ad essi copre il capo la corteccia strappata dal sughero, scintillano gli scudi rivestiti di bronzo, scintilla la spada di bronzo.(5)

La citazione virgiliana ci riporta indirettamente a tempi antichissimi, nei quali i fatti e le figure degli uomini si perdono nelle leggende, o nel mito, o nel sogno con cui si confondono la memoria, la tradizione. Eppure, poiché "il lieve soffio della fama" pare abbia talvolta rivelato al poeta e per il suo tramite trasmesso a noi verità inimmaginabili o, forse, solo impensate - è il caso di 'leggende' virgiliane poi avvalorate dall'archeologia -, non è da escludere che anche questo passo, che pone il rapporto Sarrasti-Sarno, possa costituire, ancor piú di quanto non lo sia già, una fonte importantissima, non solo riguardo all'etimologia del nome Sarrastes e alla sua relazione con Sarnus (alla luce anche del relativo commento di Servio che piú avanti riporteremo integralmente, nonché dei documenti epigrafici che si rivelassero utili(6)), ma anche riguardo all'origine, alla veridicità e al periodo della presunta dominazione dei Teleboi, forse predoni dell'Acarnania colonizzati a Capri, sul territorio intorno al Sarno. Ma è problema non semplice, che qui si vuole solo evidenziare.

L'idronimo Sarnus non lo rinveniamo nelle opere dei contemporanei di Virgilio, neppure nelle parti rimasteci della ponderosa opera di Livio, dove invece appare il simile Arnus (l'Arno), col quale, come si vedrà, esso sarà confuso.

Tuttavia è testimoniato l'uso di Σάρνος  (Sárnos), il corrispondente greco di Sarnus, nella Geografia di Strabone, il geografo e storico greco che elaborò questa sua fondamentale opera in 17 libri, al tempo di Augusto, servendosi della sua esperienza di viaggiatore e di studioso.

Strabone, che nell'opera si fa straordinariamente apprezzare per l'interesse umano, per l'attenzione ai costumi, per l'uso attento delle buone fonti, per le riflessioni dettate dal suo animo 'filosofico', parla del Sarno a proposito della Campania, nell'àmbito del piú ampio discorso sull'Italia, che egli conosceva direttamente in gran parte. Ne parla dopo le considerazioni sul 'modo di vivere greco' a Napoli e prima della descrizione del Vesuvio e della discussione sulla fertilità delle terre ad esso vicine:

Ἐχόμενον δὲ φρούριόν ἐστιν Ἑράκλειον, ἐκκειμήνην εἰς τὴν θάλατταν ἄκραν ἔχον, καταπνεομένην Λιβὶ θαυμαστῶς, ὥσθ̕ ὑγιεινὴν ποιεῖν τὴν κατοικίαν. Ὄσκοι δὲ εἶχον καὶ Πελασγοί, μετὰ ταῦτα δὲ Σαυνῖται· καὶ οὗτοι δ̕  ἐξέπεσον ἐκ τῶν τόπων. Νώλης δὲ καὶ Νουκερίας καὶ Ἀχερρῶν, ὁμωνύμου κατοικίας τῆς περὶ Κρέμωνα, ἐπίνειόν ἐστιν ἡ Πομπηία, παρὰ τῷ Σάρνῳ ποταμῷ καὶ δεχομένῳ τὰ φορτία καὶ ἐκπέμποντι. ὑπέρκειται δὲ τῶν τόπων τούτων ὄρος τὸ Οὐέσουιον.

Subito dopo [Napoli] c'è il castello Eracleo con un promontorio che si protende nel mare, su cui spira meravigliosamente il libeccio, tanto da rendere salutare il centro abitato. Sia questo sia Pompei che vien dopo, presso la quale scorre il fiume Sarno, li possedettero gli Osci, poi gli Etruschi e i Pelasgi, quindi i Sanniti, che pure furono cacciati da quei luoghi. Pompei, presso il fiume Sarno che accetta e spedisce merci, è il porto di Nola, di Nocera e di Acerra, centro omonimo di quello presso Cremona. Sovrasta tutti questi luoghi il monte Vesuvio.(7)

Un passo, questo di Strabone, di cui val la pena sottolineare l'importanza in relazione al suo contenuto. Risultano rilevanti, ad esempio, per quel che qui ci riguarda, le notizie sulla navigabilità e sulla funzione commerciale del fiume, che costituiva uno sbocco economicamente notevole per gli interni centri di Nocera, Nola ed Acerra, oltre che per la stessa Pompei, il cui porto finiva cosí per assumere un ruolo di primaria importanza, soprattutto dopo che Silla distrusse Stabia nell'89 a. C.

Trascorsa l'età augustea, l'uso di Sarnus lo troviamo documentato, sotto Nerone, nei versi di M. Anneo Lucano, il poeta di origine spagnola nipote di Seneca, trasferito di otto mesi con la famiglia dalla nativa Cordova a Roma, dove visse i suoi intensi ventisei anni di poeta di successo, finché, nel 65 d. C., non ricevette da Nerone l'ordine di uccidersi.

Lucano parla del Sarno nella Farsaglia, il suo incompiuto poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo. Nel II libro di quest'opera, giunto al punto dell'occupazione di Capua da parte di Pompeo, che ha scelto la città campana come sede di guerra da cui dislocare distaccamenti contro il nemico operante sui monti dell'Appennino, egli passa a descrivere velocemente la lunga catena montuosa, che, posta al centro dell'Italia e ricca di sorgenti, manda giú nei due mari, dai suoi due versanti, abbondanti corsi d'acqua. Tra i fiumi formati sul versante destro, descritti con qualche breve immagine o con qualche bel colore, ma anche, in verità, elencati senza alcun ordine preciso, non appare il pur importante Arno, appare invece la ben piú breve Magra, al confine della Toscana con la Liguria, ed appare il campàno Sarno, che il poeta caratterizza con l'immagine della notturna nebbia che da esso esala:

Dexteriora petens montis declivia Thybrim

unda facit Rutubamque cavum; delabitur inde

Vulturnusque celer nocturnaeque editor aurae

Sarnus et umbrosae Liris per regna Maricae

Vestinis inpulsus aquis radensque Salerni

tesca Siler nullasque vado qui Macra moratus

alnos vicinae procurrit in aequora Lunae.

L'acqua, riversandosi per i pendii di destra dei monti, forma il Tevere e il profondo Rutuba; di là scorrono e il rapido Volturno e il Sarno che esala nebbia notturna e il Liri, attraverso i regni di Marica ombrosa spinto dalle acque dei Vestini, e il Sele, che lambisce le lande di Salerno, e la Magra, che fermando per i bassi fondali ogni imbarcazione si lancia nel mare della vicina Luni.(8)

Nell'età flaviana l'idronimo appare in Plinio il Vecchio e nei poeti Stazio e Silio Italico.

Plinio il Vecchio, lo straordinario erudito di Como vissuto dal 23 al 79 d. C. (nell'agosto del 79, durante l'eruzione del Vesuvio, la morte lo colse proprio nel territorio alla foce del Sarno, a Stabia, come si sa) parla del fiume campàno naturalmente nella Naturalis historia, la monumentale opera scientifica in trentasette libri pubblicata nel 77. Nel III libro, il primo dei quattro (III-VI) di argomento geografico ed etnografico, parla dell'Europa occidentale e meridionale e concede molto spazio e molte lodi all'Italia, che percorre regione per regione; quando, non senza l'elogio delle sue celebrità, descrive "la famosa Campania Felice"(9), in particolare la sua costa da Napoli a Sorrento, cita tra Pompei e il territorio nocerino anche il Sarno (Sarno amne):

Litore autem Neapolis, Chalcidensium et ipsa, Parthenope a tumulo Sirenis appellata, Herculaneum, Pompei haud procul spectato monte Vesuvio, adluente vero Sarno amne, ager Nucerinus et VIIII p. a mari ipsa Nuceria, Surrentum cum promunturio Minervae, Sirenum quondam sede.

Di nuovo sulla costa, Napoli, anch'essa di fondazione calcidese, chiamata Partenope dalla tomba di una delle Sirene; Ercolano, Pompei, da cui si vede non lontano il Vesuvio, bagnata dal fiume Sarno; il territorio nocerino e Nocera stessa, distante 9 miglia dal mare; Sorrento col promontorio di Minerva, un tempo sede delle Sirene.(10)

Anche in questo caso la citazione dell'idronimo rientra nella descrizione geografica, ma in un contesto decisamente sistematico e certamente ordinato date le caratteristiche dell'opera, arricchita di ampie cognizioni ed ispirata, come si sa, ai criteri dell'informazione e della praticità. Semmai, questa volta, l'ordine fin troppo chiaro potrebbe forse rendere incerti se attribuire l'adluente vero Sarno amne a Pompei, come appare nel testo proposto e piú chiaramente nella traduzione, e come induce a credere il dovuto confronto col passo poco fa citato di Strabone, oppure all'ager Nucerinus forse allora comprendente anche il territorio stabiano come voleva il Beloch(11), come sarebbe maggiormente evidente ponendo nel testo una virgola dopo Pompei. Ma si tratta, in fondo, di problema non rilevante e l'incertezza interpretativa corrisponde alla posizione del fiume, in mezzo ai due territori.

Da notare come piú avanti nello stesso libro, parlando della sesta regione, comprendente l'Umbria e il territorio dei Galli al di qua di Rimini, e facendo l'elenco degli abitanti delle sue città, tra i quali appaiono anche i Nocerini Favoniensi e i Nocerini Camellani(12), omonimi dei Nocerini della Campania, Plinio citi tra quelli scomparsi i Sarranati insieme con le loro città di Acerra Vafria e Turocelo Vettiolo:

In hoc situ interiere Feliginates et qui Clusiolum tenuere supra Interamnam et Sarranates cum oppidis Acerris quae Vafriae cognominabantur, Turocaelo quod Vettiolum, item Solinates, Curiates, Falinates, Sapinates.

In questa regione sono scomparsi i Felginati, gli abitanti di Clusiolo sopra Interamna e i Sarranati con le città di Acerra Vafria e Turocelo Vettiolo; e ancora i Solinati, i Curiati, i Falinati, i Sapinati.(13)

Si tratta di una delle imprecisioni dello studioso latino, visto che i Sarranates sembrerebbero essere gli stessi Sarrastis populos di Virgilio (Aen. VII 738) e di Silio Italico (Pun. VIII 536) e che nell'intero passo di Silio Italico in questione (Pun. VIII 532-546), piú avanti riportato, appare accostata ai Sarrasti la città campana di Acerra, come prima erano apparsi dei Nocerini?

Con Stazio ci immergiamo nella cólta poesia d'occasione, artificiosa, è vero, soprattutto per i continui riferimenti mitologici, ma non raramente rivelante chiari sentimenti e commossa partecipazione.

Il poeta napoletano, vissuto nella seconda metà del I secolo d. C., cita il Sarno nel I libro, pubblicato nel 92-93, della sua opera 'lirica', le Selve, e precisamente nel secondo carme, un epitalamio di 277 versi composto non oltre l'89 per le nozze del poeta padovano Lucio Arrunzio Stella (cui il primo libro è dedicato) con la napoletana Violentilla. Qui egli, nel mentre fa una importantissima dichiarazione di poetica all'amico Stella, con cui ha molto in comune ("insieme attingiamo alle correnti della poesia dotta"), non sa tacere l'orgoglio che la bella Violentilla costituisce per Napoli, per tutta la terra euboica e per il fiume Sebeto, perché le Naiadi del lago Lucrino non potrebbero vantarsi di piú per gli "antri sulfurei", né di piú potrebbero vantarsi gli "ozi della pompeiana zona del Sarno":

Me certe non unus amor simplexque canendi

causa trahit: tecum similes iunctaeque Camenae,

Stella, mihi, multumque pares bacchamur ad aras

et sociam doctis haurimus ab amnibus undam.

At te nascentem gremio mea prima recepit

Parthenope, dulcisque solo tu gloria nostro

reptasti. Nitidum consurgat ad aethera tellus

Eubois et pulchra tumeat Sebethos alumna;

nec sibi sulpureis Lucrinae Naides antris

nec Pompeiani placeant magis otia Sarni.

Me certo sospinge al canto non un unico e semplice motivo di poesia. Le mie Camene, o Stella, sono simili e strettamente unite alle tue, e molto ci abbandoniamo all'invasamento poetico dinanzi ad are simili e insieme attingiamo alle correnti della poesia dotta. Ma te la mia cara Partenope prima accolse in grembo in sul tuo nascere e tu là movesti i tuoi primi passi, gloria gioiosa del nostro suolo. Fino al cielo splendente si levi piena di orgoglio la terra euboica e che il Sebeto vada superbo per la bellezza di colei che esso nutrí. Né maggior vanto menino le Naiadi lucrine per i loro antri sulfurei, né maggior vanto gli ozi della pompeiana zona del Sarno.(14)

Dal quale passo si ricava, e va certo sottolineato, come, poco tempo dopo l'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., la zona pompeiana del Sarno, tradizionalmente nota per la tranquillità che offriva, potesse ancóra costituire un vanto ed essere considerata tra le celebrità della regione per i suoi "ozi".

Nomina il Sarno, poi, il poeta epico Silio Italico, vissuto molto probabilmente dal 26 al 101 d. C., l'ammiratore devoto di Virgilio, che egli venerò addirittura, negli ultimi anni della sua vita trascorsi a Napoli, e che seguí molto da vicino nel suo poema in diciassette libri sulla seconda guerra punica composto dall'88 in poi, i Punica appunto.

Nel libro VIII ci è mostrato uno Scipione attivissimo, che raccoglie, arma, addestra e conduce alla guerra i guerrieri campani, dando egli stesso, divino a vedersi(15), spettacolo di abilità e coraggio. Nel nutrito elenco delle genti campane che lo seguono compaiono prima quelle della parte settentrionale della regione, da Sinuessa a Cuma, poi le altre, compresi "i popoli sarrasti" e "le armi del mite Sarno":

Illic Nuceria et Gaurus, navalibus acta

prole Dicarchea; multo cum milite Graia

illic Parthenope ac Poeno non pervia Nola,

Allifae et Clanio contemptae semper Acerrae.

Sarrastis etiam populos totasque videres

Sarni mitis opes; illic, quos sulphure pingues

Phlegraei legere sinus. Misenus et ardens

ore giganteo sedes Ithacesia Bai;

non Prochyte, non ardentem sortita Typhoea

inarime, non antiqui saxosa Telonis

insula, nec parvis aberat Calatia muris;

Surrentum et pauper sulci cerealis Abella;

in primis Capua, heu rebus servare serenis

inconsulta modum et pravo peritura tumore!

Laetos rectoris formabat Scipio bello.

E poi ancora i figli del Gauro e di Nocera e la prole Dicearchea, portata dalle sue navi, il numeroso popolo della greca Partenope, di Nola chiusa al sidonio, i soldati di Alife, di Acerra sempre tormentata dal Clanio. E si mostrarono i popoli sarrasti, le armi del mite Sarno, e dei seni flegrei, ricchi di zolfo, di Miseno e dell'isola dell'itaco Baio, dove le fauci del gigante fiammeggiano. Quelli di Procida e di Ischia che Giove scelse a tomba dell'ardente Tifeo. E di Capri, montuosa isola dell'antico Telone e non mancava Caiazzo dalle piccole mura, né Sorrento, né Avella, povera di messi. Innanzi a tutte Capua, sconsigliata nella sfortuna e condannata a rovina per il suo folle orgoglio. Scipione conduceva alla guerra queste genti liete di averlo per capo.(16)

Come si può constatare, anche in questo passo si intravede piú o meno chiaramente il debito di Silio nei confronti di Virgilio, che egli pare riecheggiare sia nel richiamo del mitico nome di Telone, sia nell'accostamento dei Sarrasti al Sarno. In piú, però, Silio aggiunge e propone immagini nuove o interpreta, talvolta ricorrendo alla sua tipica aggettivazione; e pertanto il Sarno diventa "mitis", la malifera ("produttrice di mele" o "di frutti" o forse, anche meglio, "di nuces") Abella di Virgilio diventa, con l'inserimento di una immagine ovidiana(17), la pauper sulci cerealis ("povera di messi", "povera di campi coltivati") Abella. Ma l'elenco non sembra corrispondere ad una precisa e ordinata descrizione: si parte da Nocera accostata al monte Gaurus, e nemmeno sorge il dubbio che si tratti del monte Faito (nel territorio dell'antica Stabia forse aggregata a Nocera, come voleva, si è detto, il Beloch) al quale anche, talvolta, potrebbe essere riferito il nome del 'cumano' Gaurus, che súbito dopo si parla di Pozzuoli, e poi si prosegue con Napoli e si procede verso l'interno toccando Nola, Alife ed Acerra per trovare qui il riferimento ai Sarrasti ed al Sarno e quindi ai Phlegraei sinus ed a Miseno; sicché diventa impossibile ogni tentativo di assegnare ai Sarrasti, almeno interpretando il pensiero di Silio, questa o quella zona, interna o sulla costa, intorno al Sarno o anche oltre le sue origini.

Silio cita di nuovo i Sarrasti nella concitata descrizione della tremenda battaglia di Canne, quando, dopo la "bella" ed onorevole morte del console Paolo(18), con la guida si perse ogni speranza, e ci fu il disastro per l'esercito romano: anche i popoli sarrasti lasciarono sul campo le insegne e la vita:

Postquam spes Italum mentesque in consule lapsae,

ceu truncus capitis, saevis exercitus armis

sternitur, et victrix toto fremit Africa campo.

Hic Picentum acies, hic Umber Martius, illic

Sicana procumbit pubes, hic Hernica turma.

Passim signa iacent, quae Samnis belliger, et quae

Sarrastes populi Marsaeque tulere cohortes;

transfixi clipei galeaeque et inutile ferrum

fractaque conflictu parmarum tegmina et ore

cornipedum derepta fero spumantia frena.

Sanguineus tumidas in campos Aufidus undas

eiectat redditque furens sua corpora ripis.

Sic Lagea ratis, vasto velut insula ponto

conspecta, illisit scopulis ubi nubifer Eurus

naufragium spargens operit freta. Iamque per undas

et transtra et mali laceroque aplustria velo

ac miseri fluitant revomentes aequora nautae.

Con il console cadeva l'ultima speranza dei soldati latini. L'esercito è orribilmente atterrito, come un uomo cui si tronchi il capo e per tutto il campo infuria l'Africa vincitrice. Le schiere dei Piceni e gli Umbri bellicosi giacciono al suolo, ed i cavalli ernici con i giovani Sicanii. Sparse da ogni parte le insegne dei guerrieri Sanniti, dei Serasti, delle coorti marse, elmi, scudi forati, armi infrante, armature spezzate all'urto incessante degli scudi, e morsi ancora bianchi di spuma strappati di bocca agli ardenti cavalli. L'Ofanto inonda con i suoi flutti sanguinosi la campagna e gonfio rigetta i cadaveri travolti alle sponde. Cosí la nave lagea, che appare nell'immenso mare come un'isola galleggiante se Euro, adunatore di nuvole, le batte agli scogli, copre il mare con i naufraghi rottami. E galleggiano insieme con i miseri marinai che vanno sputando l'acqua ingoiata, banchi, vele squarciate, alberi ed i capitelli della nave.(19)

Con Gaio Suetonio Tranquillo, vissuto, pare, tra gli anni 70-75 e 140-150, entriamo nel periodo traianeo.

L'erudito biografo cita il Sarno nella parte rimastaci del De viris illustribus, l'opera pubblicata, come alcuni vorrebbero, súbito dopo il 106 o il 109 e per secoli consultata e seguíta dagli studiosi. Lo cita nella sezione De grammaticis et rhetoribus, che costituisce l'assoluta novità dell'opera, e piú precisamente nel capitolo IV della incompleta parte De claris rhetoribus. Riportiamo intero il capitolo, il quale nella sua brevità caratterizza anche il tipo di biografia suetoniana, che privilegia l'aneddoto, la curiosità, non senza quel livore che potrebbe far pensare - ed ha fatto pensare - che l'autore parlasse di gente del suo mondo e fosse stato, pertanto, anch'egli grammatico o retore. Vi si tratta di un certo Epidio, un retore del tempo di Augusto, di buon nome tra i contemporanei se aveva avuto come discepoli Marco Antonio e lo stesso Augusto, ma anche disprezzato a quanto pare, e tuttavia con una sua storia particolarissima o unica, certamente invidiabile e, pertanto, tutta da partecipare:

Ad id tempus Epidius calumnia notatus ludum docendi aperuit; docuitque inter caeteros Marcum Antonium et Augustum. Quibus quondam Caius Canidius obicientibus sibi quod in Republica administranda potissimum consularis Isaurici sectam sequeretur, malle respondit Isaurici esse discipulum, quam Epidii calumniatoris. Hic Epidius ortum se ab Epidio Nucerino praedicabat: quem ferunt olim praecipitatum in fontem fluminis Sarni, paulo post cum cornibus extitisse, ac statim non comparuisse, in numeroque deorum habitum.

Fino a quel tempo Epidio, segnato per calunnia, aprí una scuola e insegnò, tra gli altri, a Marcò Antonio e ad Augusto. A questi, che una volta gli rinfacciavano che nell'amministrare lo stato seguisse soprattutto i princípi politici del consolare Isaurico, Gaio Canuzio rispose di voler essere discepolo di Isaurico piuttosto che del calunniatore Epidio. Questo Epidio andava ripetendo di essere nato da Epidio Nocerino, che dicono una volta fosse precipitato nella fonte del fiume Sarno, poco dopo fosse comparso con le corna, e súbito fosse diventato invisibile e annoverato tra gli dèi.

Suetonio è cosí indirettamente testimone dell'esistenza di antiche leggende intorno al Sarno. Questa leggenda in particolare pare essere anche il segno, nella zona nocerino-sarnese, di una religiosità tipicamente agreste ed insieme strettamente legata al luogo, come farebbe pensare la comparsa delle corna dopo l'emersione da un fiume caratterizzato certamente dalla capacità di pietrificare, o, meglio, di incrostare corpi solidi con le sue acque.

Le opere latine contenenti l'idronimo Sarnus fin qui citate ebbero diversa fortuna nel corso dei secoli. Sia i Punica di Silio Italico, sia le Selve di Stazio rimasero ignote per gran parte del medioevo (anche a Dante, a Petrarca ed a Boccaccio) finché non furono riscoperte insieme, nel medesimo codice, nel 1416-17 da Poggio Bracciolini. Identica sorte ebbe il De grammaticis et rhetoribus, contenuto in uno dei codici di Hersfeld segnalati nel 1425 a Roma a Poggio Bracciolini dal frate tedesco Enrico di Gravenstein e portato in Italia trent'anni dopo. Certamente note furono, invece, le opere di Plinio il Vecchio e di Lucano, anche se l'opera di Plinio, data la vasta proporzione e la caratteristica di opera erudita, non poteva avere ampia diffusione. Ma la piú diffusa, la piú nota e la piú studiata per tutto il medioevo ed anche prima, nella cosiddetta età del Basso Impero, fu la piú antica di esse, l'Eneide: tanta era l'auctoritas di Virgilio. Non meraviglia, quindi, che sia molto legato, piú o meno direttamente, al nome di Virgilio l'uso successivo di Sarnus.

 

* * *

 

Nell'età del Basso Impero si hanno non tanto esempi letterari dell'uso dell'idronimo, quanto citazioni in itinerari o in testi di erudizione.

Intanto la Tabula Peutingeriana, la famosa carta itineraria giunta a noi attraverso una tarda copia del XIII secolo appartenuta a Konrad Peutinger, il cui originale risalirebbe al III o al IV secolo d. C., non registra il nome del Sarno. Eppure ne traccia il percorso (ma stranamente compare come un suo ramo, e con l'indicazione del nome, il Silaro o Sele che sfocia nel golfo di Salerno): il fiume, proveniente dall'interno, dopo la diramazione tocca il territorio nocerino, quindi sfiora Pompei interrompendo la via di dodici miglia che la congiunge a Nocera e, in parallelo con una piú settentrionale via di tre miglia che da Pompei porta a Nord di Stabia ed a Sud di Oplonti, va a sfociare sopra il non nominato seno stabiano. Ma il cartografo si preoccupa soprattutto della indicazione delle strade dell'impero e delle stazioni con le relative distanze in miglia, da comprendere tutte in una pratica striscia lunga ben 6,83 m. e larga appena 34 cm. che si portava arrotolata; per cui il disegno è fin troppo deformato.

 

 

Sarnus è invece nominato come fiume e come monte in un'opera scientifica del IV secolo composta per definire, in ordine alfabetico, i nomi geografici che si incontrano leggendo i poeti: il De fluminibus, fontibus, lacubus, nemoribus, paludibus, montibus, gentibus per litteras di Vibio Sequestre.

Tra i Flumina, è da notare, non compare Arnus; compare invece il Sarno con questa definizione:

Sarnus, Nuceriae, ex Sarone fluvio + hadriae +, per Campaniam decurrens.

Sarno, di Nocera, dal fiume Saron dell'Adriatico, che scorre attraverso la Campania.(20)

Chiaramente si vede l'errore nel testo che molti hanno cercato variamente o di correggere o di interpretare. Giova, però, considerare la citazione di Conone nel commento di Servio al v. VII 738 dell'Eneide (che fra poco sarà riportata), secondo la quale dei Pelasgi ed altri provenienti dal Peloponneso si sarebbero fermati presso il fiume chiamandolo col nome del fiume della loro patria, "Sarro"; per cui, in tal caso, ed a meno che l'errore non derivi da meccanica ripetizione della voce 142 (Saron, Hadriae) come congettura il Gelsomino(21), hadriae andrebbe corretto in Achaiae o in Argolidos o in altro.

Vibio Sequestre cita, come si diceva, anche tra i Montes un Sarnus:

Sarnus, Nuceriae.

Sarno, di Nocera.(22)

Sarnus come monte era termine sconosciuto, in quanto mai apparso prima. Di qui il sospetto di una errata ripetizione della voce corrispondente al fiume, o della confusione del fiume col monte(23).

Tra il IV ed il V secolo Sarnus compare nel commentario virgiliano di Servio, ovviamente in relazione ad Aen. VII 738.

Preferiamo riportare anche le notizie serviane riguardanti Ebalo e i Teleboi che sono direttamente legate nel brano virgiliano alla storia del Sarno. Cominciamo dal commento a proposito di Oebale di Aen. 734:

Oebalus filius est Telonis et nymphae Sebethidis. Haec autem est iuxta Neapolim sita. Filius vero eius, patriis non contentus imperiis, transiit ad Campaniam et multis populis subiugatis suum dilatavit imperium.

Ebalo è figlio di Telone e della ninfa Sebetide. Ma questa è sepolta vicino Napoli. Suo figlio tuttavia, non contento dei domíni paterni, passò in Campania e, soggiogati molti popoli, estese il suo dominio.

Segue il commento ad Aen. 735 Teleboum Capreas cum regna teneret:

Cum teneret Capreas, regna Teleboum: nam Teleboae Caprearum sunt populi, quos Telo suo regebat imperio. Quidam dicunt Capreas a Capreo, qui in illis regionibus potens fuit, nominatas.

Quando dominava Capri, regno dei Teleboi: infatti i Teleboi sono popoli di Capri, che Telone teneva sotto il suo dominio. Alcuni dicono che Capri fosse chiamata cosí da Capreo, che fu un signore di quelle regioni.(24)

Infine, la parte che piú direttamente ci interessa, quella relativa ad Aen. VII 738 Sarrastis populos, che pone il rapporto Sarrastis-Sarnus e contiene la citazione da Conone, cui si è già accennato:

Populi Campaniae sunt a Sarno fluvio. Conon in eo libro, quem de Italia scripsit, quosdam Pelasgos aliosque ex Peloponneso convenas ad eum locum Italiae venisse dicit, cui nullum antea nomen fuerit, et flumini quem incolerent, Sarro nomen inposuisse ex appellatione patrii fluminis, et se Sarrastros appellasse. Hi inter multa oppida Nuceriam condiderunt.

Sono popoli della Campania cosí detti dal fiume Sarno. Conone nel noto libro che scrisse sull'Italia dice che alcuni Pelasgi ed altri usciti dal Peloponneso giunsero in quel luogo d'Italia, che non aveva alcun nome prima, e diedero il nome di Sarro al fiume presso il quale abitarono, dalla denominazione del fiume della loro patria, e chiamarono se stessi Sarrastri. Questi fondarono molte città tra cui Nocera.(25)

Con il commento di Servio siamo rientrati in uno di quei casi direttamente legati a Virgilio. Il poeta mantovano però, nonostante la sua fama di mago, non avrebbe mai immaginato che Sarnus di Aen. VII 738 avrebbe significato, nel futuro, anche "Arno".

Eppure, proprio rifacendosi a questo passo virgiliano e citandolo non opportunamente, agli inizi del V secolo lo storico cristiano Paolo Orosio, nei suoi divulgati e certamente considerevoli Historiarum adversum paganos libri VII, identifica con il Sarnus dell'Eneide l'Arno che con le sue inondazioni rese difficile il percorso toscano di Annibale:

Igitur Hannibal sciens Flaminium consulem solum in castris esse, quo celerius imparatum obrueret primo vere progressus arripuit propiorem sed palustrem viam et cum forte Sarnus late redundans pendulos et dissolutos campos reliquerat, de quibus dictum est:

et quae rigat aequora Sarnus.

In quos cum exercitu progressus Hannibal nebulis maxime, quae de palude exhalabantur, prospectum auferentibus magnam partem sociorum iumentorumque perdidit. Ipse autem uni elephanto, qui solus superfuerat, supersedens, vix difficultatem itineris evasit; sed oculum, quo iamdudum aeger erat, violentia frigoris vigiliarum ac laboris amisit.

Dunque Annibale, sapendo che il console Flaminio era solo nell'accampamento, per sopraffarlo al piú presto mentre non se l'aspettava, avanzando all'inizio della primavera, prese una via piú breve ma palustre e quando per caso il Sarno [sc. l'Arno], abbondantemente straripato, aveva lasciato melmosi e dissestati i campi, dei quali fu detto:

le pianure che il Sarno irriga.

Penetratovi con l'esercito, Annibale, soprattutto perché le nebbie esalanti dalla palude impedivano la vista, perse gran parte degli alleati e delle bestie da tiro. Egli stesso, poi, sedendo sopra l'unico elefante superstite, a stento scampò alle difficoltà del tragitto; ma perse un occhio, di cui già da tempo era sofferente, per l'asprezza del freddo, delle veglie e della fatica.(26)

La fonte di Orosio, relativamente a questa parte dell'opera, è Tito Livio, il quale nel "narrare la guerra di gran lunga piú degna di essere ricordata tra tutte quelle che furono combattute, cioè la guerra che i Cartaginesi, al comando di Annibale, fecero al popolo romano"(27), parla, appunto, delle paludi formate dalla piena dell'Arno, attraverso le quali Annibale decise di far passare l'esercito per sorprendere Flaminio ad Arezzo:

Dum consul placandis Romae dis habendoque dilectu dat operam, Hannibal profectus ex hibernis, quia iam Flaminium consulem Arretium pervenisse fama erat, cum aliud longius, ceterum commodius ostenderetur iter, propiorem viam per paludes petit, qua fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat.

Mentre a Roma il console attendeva a propiziare gli Dei e a far la leva, Annibale uscito dai quartieri d'inverno perché si diceva che il console Flaminio era già arrivato ad Arezzo, prese la via piú breve, benché gli se ne offrisse un'altra piú lunga ma piú comoda, attraverso paludi in cui l'Arno in quei giorni era piú del solito dilagato.(28)

E Livio poi continua descrivendo con precisione le impreviste difficoltà del percorso, che per piú giorni causarono gravissime perdite in tutta la colonna, costituita davanti da Ispani e Africani affondanti nella melma coi loro bagagli, al centro dai Galli, fiacchi per indole e non avvezzi a simili fatiche, ora ostacolati nella marcia e per di piú pressati dai cavalieri alle spalle e serrati dai Numidi di Magone; e narra delle pur gravi perdite delle bestie da soma o da tiro, e come lo stesso Annibale fosse salvo grazie all'unico elefante rimastogli e tuttavia, essendo già prima ammalato agli occhi, ne perdesse uno per l'infiammazione determinata dall'aria umida e dalla palude malsana e non curata in quella eccezionale circostanza:

Ipse Hannibal, aeger oculis ex verna primum intemperie variante calores frigoraque, elephanto, qui unus superfuerat, quo altius ab aqua exstaret, vectus, vigiliis tamen et nocturno umore palustrique caelo gravante caput, et quia medendi nec locus nec tempus erat, altero oculo capitur.

Lo stesso Annibale, già prima infermo degli occhi per il primaverile variare di caldi e di freddi, benché avanzasse su l'unico elefante superstite per tenersi piú alto su l'acqua, perdette un occhio ché l'umidore della notte e l'aria palustre gli aveva infiammata la testa, né v'era luogo né tempo per cure mediche.(29)

Livio a sua volta attinge, in questo caso, certamente a Polibio, lo storico greco del II secolo a. C., vissuto a Roma dal 167 presso gli Scipioni e studioso di storia romana, che, però, nei capitoli 78 e 79 del III libro, parla chiaramente delle paludi e non fa riferimento al fiume Arno (la strana lacuna è dovuta ad una sfortunata tradizione manoscritta?).

Come Orosio abbia potuto leggere Sarnus l'Arnus di Liv. XXII 2,2 e abbia potuto poi riferire ai luoghi della Toscana il Sarnus di Verg. Aen. VII 738, cadendo cosí in un secondo errore, è davvero arduo stabilirlo.

 

La tradizione orosiana potrebbe essere derivata tutta da un solo codice dove un interpolatore, citando Virgilio, abbia creato la confusione poi accolta e trasmessa. Ma questa è possibilità molto improbabile e non v'è, a quanto pare, nessuna traccia che la conforti. Pertanto è, presumibilmente, Orosio stesso l'autore del 'pasticcio'. Forse, almeno in parte, indirettamente: o in quanto ha fatto propria l'errata lettura Sarnus contenuta in una non troppo precisa epitome di Livio non pervenutaci e vi ha lasciato o aggiunto a sproposito la citazione virgiliana; o in quanto ha accettato la identificazione Sarnus = Arnus proposta in una glossa al testo liviano e vi ha aggiunto la citazione virgiliana; o in quanto ha accettato la medesima identificazione proposta in una glossa al testo virgiliano e, di conseguenza, ha riportato come Sarnus l'Arnus liviano ed ha poi citato il luogo virgiliano. Oppure direttamente: o in quanto ha letto Arnus come Sarnus sulla sola base del suo personale ed equivoco ricordo del verso virgiliano da lui poi anche citato; o in quanto - come piú verosimilmente propose K. Zangemeister, che delle sue Storie curò l'edizione critica(30) - ha letto non correttamente il testo liviano, che probabilmente presentava un fluviusarnus come un fluviussarnus, ha riproposto ingenuamente come Sarnus il fiume che impediva la marcia di Annibale in Toscana e, per di piú, ancóra errando, ha citato il Sarnus virgiliano che certamente non irriga i luoghi allora attraversati da Annibale.

 

L'esatta identificazione Sarnus = Sarno, ai tempi di Orosio, potrebbe anche essere stata ostacolata dall'uso di un diverso toponimo del fiume campàno.

Infatti, se pure centocinquant'anni dopo, è attestato l'idronimo Δράκων (Drákôn = lat. Dracon o Draco, "Dragone", "Dracone", "Drago", "Serpente") alla fine del De Bello Gothico di Procopio di Cesarea, laddove lo storico bizantino del VI secolo (noto, peraltro, per aver mostrato nella Storia Segreta la corruzione della coppia imperiale Giustiniano-Teodora), narrando gli avvenimenti che posero fine alla guerra dei bizantini comandati da Narsete contro i Goti, parla della decisiva battaglia in cui fu ucciso lo stesso re dei Goti Teia, tenutasi nel 553 presso il fiume Sarno (chiamato, appunto, "Dragone"), ai piedi del monte Lattaro. Dall'ultimo capitolo dell'opera riportiamo innanzitutto il passo contenente la descrizione del Sarno e la posizione dei due eserciti, che sulle sue opposte rive si accamparono:

Κατὰ τούτου δὴ τοῦ Βεβίου τὸν πρόποδα ὕδατος πηγαὶ ποτίμου εἰσί. καὶ ποταμὸς ἁπʼ αὐτῶν πρόεισι Δράκων ὄνομα, ὃς δὴ ἄγχιστά πη τῆς Νουκερίας πόλεως φέρεται. τούτου τοῦ ποταμοῦ ἑκατέρωθεν ἐστρατοπεδεύσαντο ἀμφότεροι τότε. ἔστι δὲ ὁ Δράκων τὸ μὲν ῥεῦμα βραχὺς, οὐ μέντοι ἐσβατὸς οὔτε ἱππεῦσιν οὔτε πεζοῖς, ἐπεὶ ἐν στενῷ ξυνάγων τὸν ῥοῦν τήν τε γῆν ἀποτεμνόμενος ὡς βαθύτατα ἑκατέρωθεν ὥσπερ ἀποκρεμαμένας ποιεῖται τὰς ὄχθας. πότερα δὲ τῆς γῆς ἢ τοῦ ὓδατος φέρεται τὴν αἰτίαν ἡ φύσις οὐκ ἔχω εἰδέναι. καταλαβόντες δὲ τοῦ ποταμοῦ τήν γέφυραν Γότθοι, ἐπεὶ αὐτῆς ἐστρατοπεδεύσαντο ἄγχιστα, πύργους τε ξυλίνους ταύτῃ ἐμθέμενοι μηχανάς τε ἄλλας καὶ τὰς βαλλίστας καλουμένας ἐνταῦθα πεποίηνται, ὃπως ἐνθένδε κατὰ κορυφὴν τῶν πολεμίων ἐνοχλοῦντες δύνωνται βάλλειν. ἐκ χειρὸς μὲν οὖν γίνεσθαί τινα ξυμβολὴν ἀμήχανα ἦν, τοῦ ποταμοῦ, ᾗπέρ μοι εἴρηται, μεταξὺ, ὄντος· ἀμφότεροι δὲ ὡς ἀγχοτὰτω τῆς κατʼ αὐτὸν ὄχθης γενόμενοι τοξεύμασι τὰ πολλὰ ἐς ἀλλήλους ἐχρῶντο. ἐγένοντο δὲ καὶ μονομαχίαι τινές, Γότθου ἀνδρὸς, ἂν οὕτω τύχοι, εκ προκλήσεως τὴν γέφυραν διαβαίνοντος. χρόνος τε μηνῶν δυοῖν τοῖν στρατοπέδοιν ἐς τοῦτο ἐτρίβη.

Alle falde del Vesuvio trovansi sorgenti di acqua potabile dalle quali formasi un fiume di nome Dracone (Sarno), il quale scorre nei pressi della città di Nocera. Sulle due rive di questo fiume posero accampamento allora ambedue gli eserciti. Il Dracone ha un piccolo alveo; pur nondimeno non è transitabile né a cavallo, né a piedi, poiché l'alveo angusto scava esso molto profondamente, facendo da ambo le parti emergere come pensili in alto le rive. Come questo avvenga, se per la natura del suolo, se per quella dell'acqua, non saprei dire. I Goti, occupato il ponte sul fiume, dopo essersi presso a quello accampati poservi torri di legno, con varie macchine, fra le quali le cosí dette "baliste", per poter molestare di là e colpire dall'alto i nemici. Venire alle mani corpo a corpo era impossibile, trovandosi di mezzo, come dissi, il fiume; quindi gli uni e gli altri appressatisi quanto piú poteano alla propria riva, combattevano per lo piú a colpi di freccia. Qualche singolar certame però avvenne pure nel caso che qualche Goto per isfida passasse il ponte. Cosí i due eserciti passarono due mesi.

Di séguito vediamo i Goti, costretti dagli eventi, rifugiarsi sul Monte Lattaro, quindi tentare l'improvviso, disperato attacco, che darà inizio alla definitiva battaglia:

καὶ τέως μὲν ἐθαλασοκράτουν ἐνταῦθα οἱ Γότθοι, ἐσκομιζόμενοι τὰ ἐπιτήδεια ναυσὶν ἀντεῖχον, ἐπεὶ τῆς θαλάσσης ἐστρατοπεδεύοντο οὐ πολλῷ ἄποθεν. ὕστερον δὲ ῾Ρωμαῖοι τά τε πλοῖα τῶν πολεμίων Γότθου ἀνδρὸς εἷλον, ὃς δὴ ταῖς ναυσὶν ἐφειστήκει πάσαις, καὶ αὐτοῖς νῆες ἀνάριθμοι ἔκ τε Σικελίας καὶ τῆς ἄλλης ἀρχῆς. ἅμα δὲ καὶ ὁ Ναρσῆς πύργους ξυλίνους ἐπὶ τοῦ ποταμοῦ τῇ ὄχθῃ καταστησάμενος δουλῶσαι τῶν ἐναντίων τὸ φρόνημα παντελῶς ἴσχυσεν. οἷς δὴ οἱ Γότθοι περίφοβοι γεγενημένοι καὶ πιεζόμενοι τῶν ἀναγκαίων τῇ ἀπορίᾳ ἐς ὄρος ἄγχιστα ὂν καταφεύγουσιν, ὅπερ ῾Ρωμαῖοι Γάλακτος Ὄρος τῇ Λατίνων καλοῦσι φωνῇ· οὗ δὴ αὐτοῖς ῾Ρωμαῖοι ἐπισπέσθαι οὐδαμῆ εἶχον, τῆς δυσχωρίας ἀντιστατούσης. ἀλλὰ τοῖς βαρβάροις αὐτίκα ἐνταῦθα ἀναβεβηκόσι μετέμελεν ἐπεὶ τῶν ἐπιτηδείων πολλῷ ἔτι μᾶλλον ἐσπάνιζον, σφίσι τε αὐτοῖς καὶ τοῖς ἵπποις ἐκπορίζεσθαι αὐτὰ οὐδεμιᾷ μηχανῇ ἔχοντες. διὸ δὴ τὴν ἐν ξυμβολῇ τοῦ βίου καταστροφὴν αἱρετωτέραν τῆς πρὸς τοῦ λιμοῦ εἶναι οἰόμενοι ὁμόσε τοῖς πολεμίοις παρὰ δόξαν ἐχώρουν, ἀπροσδόκητοι τε αὐτοῖς ἐξαπιναίως ἐπέπεσον.

Finché i Goti ebber colà in mano il mare, poterono resistere introducendo per nave le vettovaglie, dacché trovavansi accampati poco lungi dal mare. Poscia però i Romani impadronironsi di tutte le navi dei nemici per tradimento di un Goto che stava al comando di quelle, ed inoltre ad essi giunsero innumerevoli navi dalla Sicilia e dalle altre parti dell'impero. In egual tempo, Narsete poste sulla riva del fiume torri di legno produsse grande scoraggiamento fra gli avversari. Atterriti per questo i Goti e travagliati dalla penuria del vitto rifugiaronsi su di un monte vicino, chiamato dai Romani in lingua latina Monte del Latte ("M. Lactarius"), ove i Romani non poterono inseguirli, impediti dalle difficoltà del luogo. Ma ben presto i barbari si pentirono di esser saliti colà, dacché tanto piú mancava loro il vitto, non avendo alcun modo di procacciarsene per sé e pei cavalli. Quindi sembrando loro preferibile morire in battaglia anziché di fame, inaspettatamente mossero in massa contro i nemici e d'improvviso piombarono loro addosso.(31)

L'identificazione Dracone = Sarno fu accolta dal dotto gesuita del Seicento Claudio Maltreto, curatore dell'importante editio altera di Procopio (con versione latina, in due volumi, Parigi 1661-1663), il quale sotto Δράκων (Drákôn) aggiunse "ἴσ. Σάρνος" (ís. Sárnos). Era stato Camillo Pellegrino, nel suo Apparato alle antichità di Capua o vero discorsi della Campania Felice (Napoli 1651) ad insistere sull'identificazione del Dracon col Sarno, che si sarebbe chiamato nel medioevo anche "Dragonteo" o "Dragoncello".

Del resto anche piú recentemente sono documentati diversi toponimi per il Sarno. Nel Cinquecento ce ne riporta uno Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta l'Italia: "Ora è nominato questo fiume in alcuni luoghi Scafaro da gli habitatori del paese, per le scafe, che sono tenute in esso per passare quei che vogliono andare a Nocera"(32). Poi, in uno strumento di quietanza del 1648, contenente una dichiarazione del Conte di Celano a proposito della parata del fiume che provocava inondazioni e quindi era da eliminare, il Sarno è chiamato di nuovo col procopiano nome "Dragone": "flumine Dragone"(33).

Ma nemmeno è da escludere che il nome Dracon in Procopio fosse da riferirsi ad un antico ramo del Sarno, che nei secoli avrebbe modificato il suo percorso soprattutto in relazione alla presenza del vicino vulcano nominato appunto da Procopio come monte dalle cui pendici nasceva il fiume(34).

Inoltre, non si era perso il ricordo del nome Sarnus (ricorrente in Lucano e in Plinio), cosí come di Arnus (in Livio ed ancóra in Plinio).

Nel VII secolo (se è giusta l'attribuzione del secolo), infatti, entrambi i termini, sia pure come Sarnum ed Arnum, appaiono distintamente in un'opera ampiamente diffusa nel Medioevo, un catalogo onomastico in cinque libri corredato forse da una carta, che è conosciuto come la Cosmografia del Geografo Ravennate; non però a proposito dei fiumi italiani, poiché manca la parte del IV libro dove avrebbero potuto essere i due fiumi, ma indirettamente, inseriti nelle città(35).

In ogni caso, pur ammettendo la diffusione di diversi toponimi per il Sarno, la scarsa diffusione delle opere di Plinio e qualsiasi altra causa che impedisse una facile identificazione del Sarnus, è sorprendente che si sia verificato l'equivoco, data la rilevante personalità dello storico spagnolo.

Certo, c'è chi, in qualche misura esagerando, non si meraviglia della identificazione Sarno-Arno, che, "assai grossolana" anche per la "impropria" citazione, "forse non travalica il livello culturale di Orosio"(36). Non pochi studiosi, poi, hanno piú generalmente espresso i loro dubbi sul valore storico della scelta e sulla veridicità storica dei fatti da lui riportati sulla base delle sue fonti.

Ma il pur colto Orosio era un po' al di sopra delle 'piccole' questioni che non rientravano nei suoi interessi. Giudicato "vigil ingenio, promptus eloquio, fragrans studio" da S. Agostino(37), che lo spinse a narrare i fatti dell'umanità quasi per integrare, come documentazione storica, la teologia della storia da lui trattata nel cap. XI del De civitate Dei, Orosio compose le Storie, a cominciare dalla creazione del mondo e fino al 417 d. C., dimostrando che non erano da attribuire al cristianesimo calamità e guerre, le quali sempre hanno accompagnato la vita dell'uomo, anche prima della sua diffusione, ed offrí una visione degli eventi universalistica, provvidenziale e finalizzata, nella ottimistica prospettiva dell'impero universale e dei tempi della pace, senza preoccuparsi troppo, per questo, di verificare i fatti, ma accontentandosi di riportarli secondo le sue fonti, tra le quali è presente certamente Tito Livio.

Per questo motivo la sua visione della storia ebbe tanta fortuna e tanti imitatori per tutto il medioevo, e oltre.

E si diffuse con essa anche l'equivoco Sarnus = Arnus.

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

1) Aen. VII 646 Ad nos vix tenuis famae perlabitur aura.

2) Aen. VII 645 Et meministis enim, divae, et memorare potestis.

3) Aen. VII 641-644 Pandite nunc Helicona, deae, cantusque movete, / qui bello exciti reges, quae quemque secutae / complerint campos acies, quibus Itala iam tum / floruerit terra alma viris, quibus arserit armis.

4) Ad Aen. VII 738 Populi Campaniae sunt a Sarno fluvio.

5) Aen. VII 733-743.

6) Si pensi, ad es., all'iscrizione Sarasneis, in probabile relazione con Sarrastes, su monete osche da Nocera (cfr. Th. Mommsen, Die Unteritalischen Dialekte, Lipsia 1850, p. 293).

7) Geogr. V 246-247.

8) Phars. II 421-427.

9) Nat. Hist. III 9,60 felix illa Campania.

10) Nat. Hist. III 9,62. Traduzione di Giuliano Ranucci, in Plinio, Storia naturale, I, Torino 1982, p. 415.

11) Il Beloch avanzò l'ipotesi che Stabia fosse aggregata a Nocera. Cfr., tra l'altro, Sulla confederazione nocerina, in "Arch. Stor. Nap.", II, 1877, pp. 285-298; Campanien, II ed., Breslavia 1890. Le fonti spingevano, del resto, in questa direzione: Strabone, nel passo prima riportato (Geogr. V 247) non fa il nome di Stabia e Plinio il Vecchio, nel passo di cui si sta parlando, fa altrettanto; lo stesso Plinio, inoltre, poco dopo (Nat. Hist. III 9,70) cita Stabia come città scomparsa e ridotta in villam per essere stata distrutta da Silla, come si è detto, durante la guerra sociale, il 30 aprile dell'89 a. C.

12) Nat. Hist. III 19,114 Nucerini cognomine Favonienses et Camellani.

13) Nat. Hist. III 19,114. Traduz. cit., p. 445.

14) Silv. I 2, 256-265. Traduzione di A. Traglia, in Stazio, Opere, Torino 1980, p. 741. Il te del v. 260 indica naturalmente Violentilla.

15) Pun. VIII 559-561 Martia frons facilesque comae nec pone retroque / Caesaries brevior; flagrabat lumina miti / adspectu, gratusque inerat visentibus horror ("La sua marziale fronte era ombreggiata da ondeggianti ricci che ricadevano indietro lunghi, ed i suoi occhi dolci e tremendi nello stesso tempo ardevano di soave fulgore"). La traduzione è di Antonio Petrucci, in C. Silio Italico, Le Puniche, Milano 1928, vol. I, p. 373.

16) Pun. VIII 532-546. Traduz. cit., p. 371.

17) Trist. III 12,11.

18) Pun. X 307-308 Mors additur urbi / pulchra decus misitque viri inter sidera nomen.

19) Pun. X 309-325. Traduz. cit., vol. II, p. 77.

20) De flum. 138. Il testo è quello stabilito da R. Gelsomino, Lipsiae 1967.

21) Op. cit., in apparato, ad art. 138.

22) De flum. 305.

23) Cfr. la voce Sarnus mons del Philipp in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II A,1 col. 31.

24) Quidam... nominatas apparve nell'edizione del Daniel, Parigi 1600.

25) Anche in questo caso tutta la parte Conon... condiderunt fu edita per la prima volta dal Daniel; e tuttavia questi leggeva Sarno invece del Sarro, che con maggiore evidenza si mostra legato al nome Sarrastes o Sarrastri.

26) Hist. IV 15,2-3.

27) Proemio del l. XXI.

28) XXII 2,1-2. Traduzione di G. Vitali, Bologna 1952.

29) Ibid. Traduz. cit.

30) Vienna 1882 (Olms 1967).

31) De Bellis VIII [De Bello Gothico IV] 35. Traduzione di Domenico Comparetti, in Procopio, La guerra gotica, vol. III, Roma 1898, pp. 259-262.

32) Citiamo dall'edizione veneziana del 1567, f. 193.

33) Cfr. Vincenzo degli Uberti, Sul fiume Sarno. Discorso storico-idraulico, Napoli 1844, p. 43.

34) Cfr. V. degli Uberti, Op. cit., pp. 21-24.

35) Cfr. Itineraria Romana (ediz. J. Schnetz), II, Lipsiae 1940, p. 69, l. 35 e p. 85, l. 32 (Sarnum), p. 74, l. 39 (Arnum).

36) Cosí si esprime Giorgio Brugnoli in Enciclopedia Dantesca, V, 19842, s. v. "Sarno".

37) De origine animae hominis liber ad Hieronymum (Epist. 166). Anche questo giudizio, però, non è sempre interpretato come segno di completa ammirazione, quanto di generico, umano riconoscimento.

(Continua)

(Da "Cultura e Territorio", V-1988 [1989], pp. 191-212)

(Fine della Parte Prima)
 

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 
 

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