Stabiana (Iosephi Centonze Paginae)  ~  Homepage  Testimonianze letterarie e storiche

 

FRANCESCO ALVINO

Viaggio da Napoli a Castellammare

con 42 vedute incise all'acqua forte

(Napoli, Stamperia dell'Iride, 1845)

 

 

*

  [...]

 

XVIII.

ANCORA LA TORRE DELL'ANNUNZIATA E REVIGLIANO.  

 

[...]

 

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Ma la macchina è già presso a partire. Entriamo in uno di questi vagoni, e percorriamo così questo tratto di strada fino a Castellammare. Benché io non sia molto amico della strada ferrata, pure questa volta mi è necessità profittarne per ristorarmi dalle scosse e dagli sbalzi dell'asino e del calesse. E perché mai non ti dà nell'umore la strada ferrata? mi direte voi — Perché la monotonia di quel moto mi annoia, e ditemi un po se c'è incomodo peggior della noia: perché sfuggendovi come un lampo gli oggetti dinanzi agli occhi non v'ha distrazione alcuna che vi rallegri, o vi sposti almeno dai vostri pensieri. E ne va il pregio di volar in tal modo senza un bisogno di sorta? Io mi ricordo di aver letto in un poeta comico inglese un verso assai grazioso, col quale un innamorato persuadeva alla sua bella di andare adagino, e le diceva così: Cuor mio, ci avanza ancora tanto tempo nella vita; perché dobbiamo noi correre la posta? — E queste sono altro che poste! ... Ma ecco l'isoletta, o per meglio dire lo scoglio di Revigliano, non molto lungi dal lido, con le acute sue punte ed il bruno sasso. Petra Herculis fu da Plinio chiamato per un tempio ch'era qui di Ercole, comeché altri pensino che il Petra Herculis di Plinio fosse lo scoglio di Orlando sotto il monte dello Scraio. Ne' mezzi tempi fu questa isola detta Robiliani, e sembra incredibile come qui fosse stato (1110) un monastero dell'Ordine Cisterciense, ovvero Florense dedicato alla B.V., che passato più tardi in dominio dei Casinesi fu appellato di S. Angelo; a meno che più ampio non fosse stato allora il suo circuito, e che per forza de' flutti o de' tremuoti non fosse andato un dì più che l'altro scemando. Or non vi rimane che una picciola torre. Le acque del Sarno vengono qui a scaricarsi nel mare; noi le saluteremo altra volta. Per ora rivolgiamo i nostri sguardi al sospirato Castellammare.  

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XIX.

L'ANTICA STABIA.  

  Antichissima è l'origine di Stabia, e non è possibile fermarne con certezza l'età. Mettendo dall'un de' lati quell'error madornale che corse già tempo intorno a lei, essere ella stata cioè il luogo ove fu Romolo educato, errore che derivò dall'essersi confusa l'antica Gabia con Stabia, noi possiam tenere per certo che a' tempi della famosa guerra sociale, l'anno 87 av. Gesù Cristo, lei contrastando a Lucio Cornelio Silla, da costui fu vinta ed espugnata; del che così Plinio il Giovane discorre: « Fu poi nell'agro campano la città di Stabia, che Lucio Silla, sendo consoli Gneo Pompeo e Lucio Carbone, il dì 30 aprile, qual legato nella guerra sociale, spianò e in ville ridusse *. Questo, come dicemmo, abbiam noi dalla storia per chiara e certa rivelazione. Se volete ora conoscere d'onde si pensa che tragga Stabia la sua primissima origine, vi dirò che alcuni la voglion derivata da Ercole Egizio per quel Petra Herculis ch'era nel suo Golfo, e però la voce di Stabia niente altro suona in lingua egizia che sostanze medicinali; altri da' Pelasgi, i quali non altrimenti che Nocera, così pure le finitime città di essa, ebbero costrutte; taluni altri poi dissero prima dagli Osci poi da’ Pelasgi essere stata Stabia abitata, facendo quelli fondatori di essa, questi amplificatori. Della quale opinione fu seguitatore il nostro elegante poeta latino Partenio Niccolò Giannattasio, altrimenti detto il Virgilio Partenopeo, il quale di Stabia e de' vicini luoghi così cantò: **

 

        Et Pompeianum, felicia littora Baccho,

        Osci, quae quondam, et veteres tenuere Pelasgi,

        Apparent et rura, vago, quae flumine Sarnus

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* Plin. Histor., lib. III.

** Nauticorum, lib. V.

 

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        Irrigat, et viridi praetexit arundine ripas,

        Et veteres Stabiae et crebris juga condita sylvis. *

 

A tal quistione io non voglio, né posso sobbarcarmi: essa non è da' miei poveri omeri. Quanto a me, io mi starò contento a citarvi ora i monumenti che dell'antica Stabia avanzarono, promettendovi questa volta di parlar serio, comeché mi costi un po' fatica, avendo dovuto qua e colà razzolar per darvi più di messe che m'era possibile.

Il più importante monumento di Stabia e memorabile è quel Cenotafio marmoreo scoverto da Giovan Battista Rosano e da questo trasmesso al Capaccio, il quale di greco fecelo latino, ed in cui del porto è parola fatto costruire per ordine de' Senatori Stabiensi, coll'opera di un tal Difilo. Esso dice così:

 

Suburbia, portumque, ad civium et nautarum

Commoditatem

Senatores Stabienses constructio curarunt.

Diphilus quamvis tardus Architectus

  Ad jussum tamen celer

Quinquennio absolvit. **

 

Altro testimonio della grandezza di Stabia è il suo Anfiteatro, i cui ruderi e forma possono ancora scorgersi in parte nel luogo che dicesi oggidì Varano, comeché l'albero fiorisca e biondeggi la spica dove il sangue degli uomini, a saziar una feroce lascivia, scorreva commisto con quello delle belve. Ed anche un antico Ginnasio era qui nella parte estrema della città, che guarda Pompei, dove ora dicesi Osteria del lapillo. Del ritrovamento di esso diedeci notizia il Milante,

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*  Di Pompei la cittade, e i dolci lidi

    A Bacco sacri, che già gli Osci in prima

    Tenner, quindi i Pelasgi, ecco apparire;

    Ed ecco i campi che con limpide acque

    Il Sarno bagna delle canne all'ombra,

    E Stabia antica, e le sue fitte selve.  

** «La costruzione di un borgo e di un porto, per comodo dei cittadini e de' naviganti, i senatori di Stabia ordinarono. Difilo, benché tardo architetto, fattosi a quel comando sollecito, in un quinquennio compì l'opera.» Da un tal cenotafio si può benissimo scorgere, che Stabia a quel tempo reggevasi con ordine senatorio.  

 

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il quale ne disse pure averne tratto disegno il regio architetto Michele Porzio.

Or lasciamo il porto, l'anfiteatro ed il circo: veniamo a dir de' suoi tempi. Primo tra essi, memorano i suoi storici, quello di Ercole posto nello scoglio ovvero isoletta che oggi è detta di Revigliano, e che anticamente Petra Herculis era appellata. Di questa isoletta, come altrove dicemmo, fa Plinio menzione, e in quel di Stabia la pone *. E un così fatto tempio ad Ercole sacro comprova il Capaccio mercè di un tripode di bronzo rinvenuto nelle terre di Jacopo Certa (nei contorni di Quisisana, e però molto lungi da Revigliano) sul qual tripode eran la tessera e i distintivi di Ercole. Un altro tempio era qui pure sacro a Diana, e propriamente nel luogo ove oggi s'innalza il Convento de' Frati Minimi di S. Francesco di Paola, con la chiesa di S. Maria di Puzzano. Fu qui rinvenuta un'ara marmorea, nella quale è scolpita la testa del Cervo inghirlandata di frutte, con vari grappoli d'uva, che sonovi sotto egualmente scolpiti. E i nostri lettori sapranno che la figliuola di Giove e di Latona a cagion dell'amore che portava alla verginità sua, da ogni umano consorzio declinò, e fattasi contenta della compagnia di poche vergini le selve e i boschi abitò intenta solo a cacciare. Sicché a dinotare la divinità sua e i suoi benefizî, tolsero gli antichi ad emblema la Cerva, come vedesi in questa ara, la quale oggidì sorge innanzi la porta della stessa Chiesa di S. Maria di Puzzano con una Croce rizzatavi sopra, quasi a mostrar il trionfo che la Religione di Cristo ebbe sul Paganesimo.

Nella parte superiore del Colle, che all'antico porto di Stabia soprastava, un Tempio ergevasi pure a Giano Vitifero, così detto perché il primo le vigne piantò o a miglior modo ridusse. E questo luogo dicesi tuttora Fajano, quasi Fa.Jani, ossia Fanum Jani, etimologia che dataci per certa dal Milante, noi non diam per sicura a' nostri lettori, essendoci di coloro i quali vorrebbero trarre questa parola Faiano da' Faggi che sorgono in questo colle, e che nella lingua della contrada diconsi Fai. — Lo stesso Milante, da noi poc' anzi citato, ne parla a lungo di questo tempio, come quello il quale fecevi operar degli scavi, e fecene pur disegnare gli oggetti da lui rinvenuti, che poi diede incisi nella sua opera. Scoverse egli il pavimento del Tempio, fatto a mosaico, con nere e bianche pietre, alcune delle quali più grandi ed in forma di rom-

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* In Stabiano ad Herculis Petram ec. Lib. XXXII, cap. 2.

 

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bo; rinvenne molti tronchi di colonne, non che alcune pareti con belle dipinture, quali di esse rappresentanti fiori, e quali figure di uomini; vi trovò il lavacro pe' sacrifizî, di pietra pipernina, co' suoi tubi di piombo per portar l'acqua dall'ara in un piccolo pozzo. — Eran questi tubi, come dicemmo, di piombo, e l'uno all'altro legati mercè dello stagno: di lunghezza e di peso eguali tutti (di palmi cinque e tre once cioè, e di libbre 42), e leggendosi inoltre sopra ognuno di essi il nome di colui che il tempio innalzò dalle fondamenta: P. SABIDI POLLIONIS PR. V., vale a dire: Publii Sabidj Pollionis Praefecti Urbis. Le quali lettere eran rilevate sul piombo, e ricavate dal piombo stesso, secondo che il Milante medesimo ne fa sapere. Continuando questi a descrivere gli scavamenti da lui fatti, ci dice ancora di aver rinvenuto un'ara marmorea per consultar le viscere degli animali, non che alcuni vasi per lo stesso uso, e diversi altri oggetti che noi lascerem di descrivere.

Altro Tempio innalzato in Stabia era quello a Cerere sacro, e di esso ne porgeva argomento una lapide marmorea ricordata dal Capaccio, nella quale di una sacerdotessa di Cerere, per nome Clodia Lassa, faceasi menzione.

Quinto ed ultimo Tempio era quello memorabilissimo dedicato a Giove Stigio, ossia Plutone, il quale è nel luogo che dicesi Grotta di S. Biase, dappoiché quell'infame delubro sotterraneo alla memoria del S. Martire e Vescovo da' primi Cristiani fu consacrato. Nel fondo della terra è cavato questo speco, alle radici del monte; e che un tempo fosse stato di colonne decorato, non che di lamine di ferro e di oro, ce lo assicura il Capaccio, citando l'autorità di Giovan Battista Rosano; comeché il Milante, con più sicurezza, di lamine d'oro e di argento, di pietre preziose, di bronzi di Cipro, e di più altri metalli ci parli qui rinvenuti da' naturali del luogo. Ciò valea a dinotare che Pluto il Dio era delle ricchezze, le quali anch'esse nelle viscere si ascondono della terra. Pur tuttavia ci fu chi non a Plutone, ma ad Apollo disse questo Tempio dedicato, per una contrada che giace qui presso e che dicesi Carmiano. Onde il Padre Serafino Ruggiero opinò che meglio ad Apollo conveniva un tal tempio, come quello che dava in verso i risponsi (carmina)  Milante combattè una tal opinione, e provò che non sempre Apollo in verso dettava i suoi oracoli, ma talvolta anche in prosa, adducendo quel luogo di Cicerone: Pirrhi Temporibus jam Apollo versus facere desierat, vale a dire, che ai tempi di Pirro Apollo non faceva più versi!

 

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xx.

CONTINUA LO STESSO ARGOMENTO.  

  Le cose finora discorse non farebbero a voi, miei cortesi lettori, certamente dubitare essere qui stata l'antica Stabia, né aver potuto esser quella altrimenti che una grande e nobile città. E pure vi fu chi ne dubitò, ponendola invece in Torre della Nunziata; vi fu chi la disse una terricciuola (oppidulum): il che fu cagione di grandi guerre e contese letterarie, che io vi narrerò per mostrarvi da quali passioncelle fossero animati i padri nostri ora è un secolo: non più.

Monsignor Filippo Anastasj, Patriarca titolare di Antiochia ed arcivescovo di Sorrento, onde piacere a' suoi Diocesani, stando in Roma, scrisse un'opera assai dotta sulla storia civile ed ecclesiastica di Sorrento, intitolata così Lucubrationes in Surrentinorum ecclesiasticas, civiles antiquitates (Roma, 1731). Or volendo l'egregio Prelato sublimare, più ch'era in poter suo, le glorie de' Sorrentini e 'l decoro della sua Chiesa, sdrucciolò nel falso togliendo alla città di Castellammare i suoi pregi, e dicendola vil terricciuola, dipendente in ogni tempo, così civilmente che ecclesiasticamente, da quella di Sorrento. Se ciò spiacque a' Castellonici è inutile ch'io ve 'l dica, e spiacque pure al pastore di quella Chiesa, il quale a difenderla dagli attacchi di Monsignor Anastasj, a renderle il suo lustro natìo, scrisse un'opera intitolata: De Stabia, Stabiana Ecclesia, et Episcopis ejus. Autore di questa fu Monsignor Pio-Tomaso Milante dell'Ordine de' Predicatori, ed essendo egli morto innanzi che fosse compita la stampa della sua opera, dal Capitolo di quella diocesi ne fu il resto curato, e così l'anno 1750 vide essa la luce qui in Napoli pe' torchi del Muzio. Dignitosa, ragionata, ma calda e passionata nel tempo stesso, è cotal difesa fatta dal Milante, come-

 

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ché scritta in cattivo latino *; ed ella increbbe non poco all'altro Anastasj (Ludovico Agnello) nipote e successore di suo zio nella cattedra sorrentina, il quale credendo che venisse con quella scrittura in alcuna parte menomata la gloria di esso Zio, mosso da troppo impeto scrisse in brevissimo tempo un altro libro non meno voluminoso di quello del Milante, che aveva per titolo: Animadversiones in librum Fratris Pii-Thomae Milante Episcopi Stabiensis, de Stabia, Stabiana Ecclesia et Episcopis ejus (Neapoli 1751). Ma quel libro disgraziatamente non fu che una cattiva azione, una di quelle tante cioè che ne offre tuttodì la Repubblica delle lettere per l'irascibile razza de' suoi settatori. Imperocché Monsignore da tanta rabbia fu trasportato per la difesa dello Zio e della sua Diocesi, che diede nel puerile, nel villano, nel disonesto: e n'ebbe accusa da tutti i buoni. La quale accusa fecesi ancor più manifesta, allorché venne fuori una memoria in difesa del Milante, generosa a un tempo e severa, scritta da un giovane medico, il quale non avea ancora oltrepassato gli anni ventitrè di sua vita. Gaetano Martucci, e qual amico del Vescovo vilipeso e calunniato nella memoria de' posteri, e qual cittadino di Castellammare, schernita a torto e rabbassata agli occhi del mondo, fu quegli che tolse in tal rincontro la penna, e l'opera sua fu lodata generalmente per la intenzione non meno che per l'effetto **. Colui ch'ebbe scritta la satira n'ebbe certo vergogna, e nella prudenza del giovane laico lesse la sua colpa. La quistione cessò e al Martucci toccò la vittoria.

E in che aggiravasi propriamente tal quistione? chiederanno i miei lettori che da tutto questo racconto non san che moralità cavarne, essendo tra noi frequentissimi tali esempi

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* Di questa opera fu fatta una versione italiana con giunte per cura del sig. Giacinto d'Avitaja Rapicani, ma a me non è riuscito vederla.

** Lettera contenente alcune riflessioni intorno all'opera intitolata Animadversiones in librum F. P. Thomae Milante Episcopi Stabiensis DE STABIA, STABIANA ECCLESIA ET EPISCOPI EJUS, di Gaetano Martucci, Dottore di Medicina, Napoli 1753. - è bello osservare come il Martucci avesse schivato di entrar in lizza con un prelato. Egli fece sospettare che non l'Anastasj, ma sì un intruso straniero, avesse scritta quell'opera piena di contumelie, la quale sarebbe stata perciò indegna di un Vescovo, e quindi egli disse più liberamente la sua sentenza.

 

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di feroci battaglie letterarie. Ve 'l dirò ben io, miei carissimi, poiché siamo a lambiccarci il cervello con queste diavolerie.

La questione in principio era puramente ecclesiastica per giurisdizioni e privilegi e antichità che l'una Chiesa volea vantare su l'altra. Ella poi oltrepassò i suoi confini, e divenne storico-archeologica. Solo di questa possiamo noi impossessarci: lasciamo l'altra a chi si conviene.

Il Cluverio, commentando un passo di Galeno, il quale di Stabia ragiona, chiama quella città oppidulum, traducendo così la parola chorion, e di questa traduzione si servì appunto il primo Anastasj per umiliar la novella città di Castellammare. Ma il Milante prima e il Martucci poi dimostrarono con buone ragioni come inesatta si fosse in tal rincontro quella versione, e che meglio era seguire la versione del Linacri, il quale alla parola greca fa rispondere la vulgare luogo o contrada (Locus, regio). Del quale avviso fu pure il nostro dottissimo Martorelli, richiesto ch'ei fu a dare il suo giudizio in tal quistione, adducendo in comprova un passo di Erodiano, tradotto dal Poliziano. Ma poiché, si diceva in contrario, fu da Silla Stabia distrutta e ridotta in ville, non potea forse accadere che ella fosse tuttavia un villaggio a' tempi di Galeno? Sì, rispondeasi, ma chiedeasi documento di quel che asserivasi. Invece faceasi osservare che dopo due secoli e mezzo, quanto di tempo era corso da Silla a Galeno, potea benissimo la novella città, che ora dicesi di Castellammare, esser tornata a rivivere sulle rovine dell'antica Stabia; e ben ella dovette allora fiorire, se prima dell'anno 500 noi abbiamo già Vescovi Stabiani *, i quali infino al XII secolo portarono un tal nome.

E questo in quanto alla sua condizione di città o villaggio. Rispetto poi al suo sito, confutò lungamente il Milante un passo di Ambrogio Leone, il quale voleva posta l'antica Stabia in Torre dell'Annunziata, e contradisse il Martucci al secondo Anastasj, il quale fra tante e mal connesse ragioni ne adduceva quest'una, non poter essere Stabia dove oggi è Castellammare, perocché trovandosi ella troppo lontana dal Vesuvio, non poteva perciò vomitar il Vulcano sopra di lei quell'immensità di cenere e di sassi, che furon cagione della morte di Plinio. Oh! e non vedemmo noi, o non sapem-

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* Nel Concilio tenuto in Roma l'anno 499 sotto Simmaco Papa v'intervenne un Orso Vescovo Stabiano.

 

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mo che anche più oltre estese il Vulcano le sue desolazioni? Ma meglio io direi che il sommo Naturalista,

 

A scriver molto, a morir poco accorto,

 

più che all'imminente pericolo, alla sua stessa vecchiezza, alla sua mal ferma salute, andò debitore della sua morte, come lo stesso Plinio Juniore ci narra di lui.

All'opposto, perr raffemar meglio la quistione, citavasi dalla parte contraria quel luogo di Seneca, in cui parlandosi di Pompei, celebre città è chiamata della Campania, nella quale convengono dall'una parte il lido di Sorrento e di Stabia, dall'altra quello di Ercolano; citavasi quel passo di Cicerone il quale scrivendo a Mario, andato a dimorare in una sua casa a Pompei, non dubito, gli diceva, che tu da quella camera guardando e Stabia e Sejano (cioè Posilipo) non abbi a passare leggendo le ore mattutine di alcuni dì; ** adducevasi da ultimo lo stesso passo tanto controvertito di Galeno, dove dice che quella contrada è posta sul mare, e Stabia è nel mezzo del gran seno che tra Sorrento vedesi e Napoli, ma più dalla parte che guarda verso Sorrento. ***

Ma di tal quistione non vogliamo far più parola. Sat prata biberunt. E se alquanto in essa ci dilungammo, il facemmo a disegno: per mostrare cioè da quali passioni e gelosie le nostre limitrofe città e villaggi, tempo fa, erano mossi, da quali incertezze la scienza era governata, da qual mancanza di buon senso eran le menti regolate, fatta pure eccezione di pochi e nobili ingegni.  

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* Sen. Natur. quaest. lib. 18, c. I.

** Epist. Famil. lib. 7. Epist. I ad Marium.

*** Gal. Meth. med., lib. V., cap. 12.  

 

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xxi.

CONTINUA LO STESSO ARGOMENTO.  

E ancor lo stesso argomento? sento dire da qualche lettore: per carità, liberatecene. Ed io invece dirò: abbiate, vi prego, un po’ di pazienza, e fatemi dire due altre parole che putiscano di antichità, perché io possa contentare la curiosità di qualche novello archeologo, il quale potrebbe a buon dritto susurrarmi all'orecchio: or ve' che viaggio a vapore l'è questo! ... Io voglio ancor circondarmi (né mi togliete questo bene) io voglio ancor circondarmi di un'aureola di noia, solita corona di certi dotti, la quale non avvertita da essi, entra negli occhi di chi sta ad ammirarli.

Gli scavi dell'antica Stabia erano in quello stato di cose da noi innanzi accennato, e che conosciamo per la scrittura del Milante, allorché altri ne furono impresi o per opera de' privati, o per comando del principe, o per effetto del caso. E questi scavi furon pruova certissima che qui e non altrove l'antica Stabia sorgeva.

Nel luogo detto il Pioppaio fu rinvenuto un sepolcro di Sircio Vittorino, a lui da sua sorella innalzato; altri sepolcri furon rinvenuti poc' oltre il Ponte San Marco sulla strada di Nocera de' Pagani, vedendosi ancora oggidì alcuni ruderi di opere reticolate. E pressoché nel luogo medesimo fu pure scoverta una statua di naturale altezza, mutila del capo. Comeché di rozza pietra, dicesi da chi l'ha vista ben panneggiata, e credesi inoltre una figura consolare.

 

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Sul confine della Montagna fra Stabia e Nocera, presso l'attuale Chiesetta della Madonna delle Grazie, si rinvennero le rovine di un Tempio sacro al Genio dell'antichissima Stabia. Era desso di forma quadra con un sacrario di prospetto decorato di quattro colonne. Un altro edifizio contiguo presentava due are circolari circondate da poggi di fabbrica. Esso apparteneva alla vicina città di Nocera, e vi si lesse questa iscrizione: Per decreto de' Decurioni M. Ceso Dafne provvidamente riedificò i due Bidentali * di Nocera, e l'antico Tempietto del Genio di Stabia pericoloso pe' suoi marmi cadenti.

E del Genio si disse pure una casa che nel 1754 cominciossi a scoprire nel podere di Gerace a Varano, essendosi in essa rinvenuto un piccolo Genio d'argento con disco e cornucopia indorati. Di questa casa il chiarissimo architetto sig. Carlo Bonucci ne diede la pianta nella sua pregevol opera delle due Sicilie (opera non abbastanza nota per mancata pubblicità), e diedene le rispettive indicazioni. Non potendo noi presentar quella sotto gli occhi de' nostri lettori, ci contenteremo di queste.

E primieramente eravi un ingresso nobile, cui seguiva l'atrio con vasca per raccoglier le acque piovane. Ricorreva intorno intorno un tetto sostenuto agli angoli da quattro colonne, e di rincontro ergevasi una cappelletta. A sinistra dell'atrio eranvi i passaggi che menavano ad un gran giardino circondato da portici sostenuti da colonne, e da questo giardino passavasi ad un bagno formato da una gran vasca a cui scendevasi per mezzo di gradini. Al lato destro dell'atrio eravi poi una stufa con pavimento a mosaico bianco fregiato di animali marini a color nero, e legavansi ad essa una stanza media o tepidarium, con un sedile da spogliarsi, e sue dipendenze.

Tal era la casa da noi descritta, dirimpetto alla quale, dalla parte del nobile ingresso, eravi una serie di botteghe con stanze superiori, probabilmente per abitazioni de' servi o per conserve di masserizie e di utensili: e di questi se ne rinvenne di fatti una gran quantità.

Nella contrada stessa di Varano e nel podere dello stesso Gerace si scovrì l'anno 1759 l'abitazione della Venditrice di Amori, detta così da un affresco bellissimo nel quale è rap-

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* Diceansi così (e sia ciò detto per chi non mastica archeologia) que' tempi minori sacri a qualsiasi Divinità, nel mezzo de' quali era un'ara pel sacrifizio di una pecora di due anni, derivando quella parola da bidennis, la quale poi venne corrotta in bidentis.

 

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presentato una donna, che ha innanzi una gabbia con dentrovi un Amorino, mentre un altro ne ha nelle mani, che ha pur cavato di là per farne baratto con due donne, l'una sedente, l'altra in piè, che le stanno di contro. L'Amorino con le ali spiegate arde di liberarsi dalle mani della sua padrona, la quale anch'essa vorrebbe disfarsene, ma le due donne stanno ancora sopra di sè per quello acquisto, o perché lor dispiace la petulanza dell'Amorino, o perché troppo caro esso costa, o perché ... Ma io non saprei ben intenderle. Le nostre lettrici se vogliono comprenderne il senso, vadano al Real Museo, ove vedesi questo bellissimo affresco, che ci ricorda quell'altro di Pompei dello stesso argomento, nel quale è questa differenza soltanto, che in vece di una donna colà è un vecchio che vende gli Amori. Io per me credo più nobile e gentile questo dipinto di quello pompeiano.

Nella casa di cui stiam ragionando, cioè della Venditrice di Amori, si scovrì pure una Leda, che abbraccia Giove sotto la forma di un Cigno e una Ninfa bellissima che con una mano coglie un fiore, coll'altra sostiene una cesta: i quali dipinti, non meno del primo, sono pieni di grazia e di venustà. Quella casa componeasi di un atrio e di un peristilio cinto di stanze ornate di eleganti musaici. Vi si raccolsero masserizie d'ogni maniera, e vi si videro pure degli utensili per lavorare le paste. Il che ci farebbe credere che questi luoghi fino ab antico eran predestinati a regalarci di così fatte ghiottonerie.

Altri scavi felicissimi furon fatti dal 1772 al 1778, nel qual tempo si scovrì una casa composta di portici con colonne, stanze da letto e da pranzo, non che alcuni frammenti di statue di marmo; una Villa con 70 colonne, e qualche stanza all'intorno, giacendo essa villa sul ciglione della collina verso Castellammare; si scovrì pure la Villa detta del Filosofo (per una corniola qui rinvenuta che rappresentava un filosofo) nel cui mezzo era un peristilio e delle stanze da letto e da pranzo a' lati. Qui v'era di notabile una stufa, e nella nicchia del laconico una Venere ignuda effigiata in istucco con altre Ninfe egualmente ignude.

Siamo al 1779. Fu restituita alla luce del giorno una casa rustica con un portico, un bagno, un recinto per far l'olio e de' grandi vasi di creta per contenerlo, non che la Villa detta del Satiro, per la statua in marmo di un Satiro qui rinvenuta, il quale era disteso su di un otre, da cui sgorgava l'acqua di una fontana. Quella Villa era posta nel luogo detto la Cap-

 

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pella di S. Marco, ed era formata di portici a doppio ordine di colonne, i quali doveano esser circondati da amenissimi boschetti. Vi si scoprirono pochi oggetti, un mosaico a vari colori, e qualche stanza da cui si eran già staccati i dipinti.

A Casa di Miri fu pure scoperto in questo stesso anno un'abitazione formata da un portico con un poggetto per aiuola di fiori, e varie stanzette da letto all'interno, non che un'altra più grande per conversare. Seguiva un peristilio stretto e lungo. Vi si notava una stanza per far l'olio ed un'altra con ornati e paesi dipinti a color giallo. Vi si trovarono vasi, arnesi per animali, una maschera a mosaico, un phallo, e vari altri oggetti.

E qui si compiono gli scavi di qualche importanza fatti in Castellammare. Ma non credano i nostri lettori che quei ruderi sussistano tuttavia. No: quel che la vanga scopriva, la vanga distruggeva, e quei luoghi oggidì sono nuovamente ricolmi di terra. Se non esistessero ancora i Giornali delle escavazioni di quel tempo, e le piante che ne fece il Direttor Lavega, noi non ne sapremmo a quest'ora né punto né poco. Sicché ci è sembrato non inutile cosa presentare un tal notamento di oggetti e di fabbriche scavate in quel tempo. Gli affreschi e alcuni altri oggetti minuti conservansi poi nel Real Museo, e chi volesse ancor ricordarsi de' bei tempi di Stabia, guardi la Nereide che dà a bere ad una pantera o tigre marina con un tal movimento spirale e voluttuoso, che non si può meglio; guardi quell'altra che maestosamente move sopra un cavallo marino, con uno svolazzo di manto bellissimo; guardi la Ninfa che incoccando un arco il contempla dapprima; guardi da ultimo la pensosa Medea, che altri dissero una Didone, e la testa di Giunone, e il Dio Marte ignudo, e allora forse si dimenticherà della noia che mal nostro grado noi gli procurammo.

 

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XXII.

LA NUOVA STABIA E SUE MEMORIE.  

Dopo le due memorie che dalla storia ci avanzano di Stabia, della sua distruzione cioè e conversione in ville per opera di Silla, e de' danni ch'ella ebbe a patire pe' furori del Vulcano, la tenebrosa ala del tempo distendesi gravemente su' fati di quella città, e più altro noi non sappiamo di lei infino al dominio degli Svevi, se pure vuolsi tenere di qualche momento questo fatto: che battuti i Goti da Narsete a piè del Vesuvio, e in questi monti Lattarj, così vasti e inaccessibili, riparatisi i fuggitivi, vi furon essi raggiunti, con loro danno, dalla spada del crudel vincitore. In alcune carte di poco conto de' tempi di mezzo trovasi nominata questa città Stabi o Estabi, e chi fosse vago di leggerle veda gli Annali del di Meo, il quale opina che questa parola Stabia derivi da stando, e suoni lo stesso che statio: etimologia che in buona fede non possiamo accettare con tutto il rispetto dovuto a quel dotto uomo, e che ci fa anch'essa esclamare coll'Amenta:

 

                Ma sono al parer mio tutte freddure

            Quante si leggon derivazioni

            In tante di grandi uomini scritture;

                E l'ostinarsi in certe opinioni

            Che i nomi abbiano origine accertata

            Son cose, amico mio, da capassoni.

 

Or io mi penso che se la nuova Stabia a quei tempi richiamava a sè per la dolcezza dell'aere e l'amenità del sito le genti, niuna importanza si avesse ancora civile, come aveala in quella stagione la sua rivale Sorrento. Varia così è

 

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la fortuna de' popoli e 'l loro essere politico che qual oggi tien l'alto della ruota domani va in fondo; qual oggi è depresso e avvilito, domani forse sorgerà potente e terribile.

 

                Non è il mondan romore altro che un fiato

            Di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,

            E muta nome perché muta lato. *

             

Ecco quello che avrei detto io a chi faceasi capo della inoffensiva fazion sorrentina contro quei di Castellammare. Cadde Stabia per opera delle armi romane, e mercè le armi e il commercio cittadino rifulse invece la gloria della Repubblica sorrentina; cadde questa a sua volta per furia delle armi normanne, e 'l serto reale venne a posarsi sul capo della fedele Castellammare. Oggidì l'una e l'altra città sono stanza di gente che o non crede, dimorando in esse, morire, o pure vuol morir lietamente. Ma lasciamo queste considerazioni morali, e tocchiamo un po’ delle memorie di Castellammare.

Re Carlo I d'Angiò, il quale di qui non guari lontano, e propriamente in quel di Nocera, aveva un castello, dove per diletto di cacciare andava a dimora, ebbe a grado non poco la nuova Stabia per due bellissime creature che in essa viveano, come il Boccaccio assai bellamente novellò. E poiché qualcuna delle nostre leggitrici, per onesta ragione, può non aver letto il Decamerone, così io mi farò a dire di questo Carlo e di queste due angiolette.

Un Cavalier fiorentino, per nome Messer Neri degli Uberti, nella cacciata che i Ghibellini ebbero di Firenze qui riparò, e di questi luoghi invaghitosi, in uno di questi colli pose sua stanza, quanto un trar d'arco lontano dall'abitato, dopo di aver fatto fabbricare un bel casamento, e disporre accanto a quello un bellissimo giardino con un vivaio nel mezzo, ove di molto pesce ripose. Di così fatte delicatezze non essendo a que' tempi quella copia che oggi è, ne andò a Carlo la fama del bel giardino piantato dal Neri, e però avuto vaghezza di osservarlo, ne mandò a quello l'avviso dicendo per soprappiù che sarebbe andato volentieri a cenar con esso lui la seguente sera nel suo giardino. Il ghibellino Messer Neri ebbe cara l'offerta, e Carlo, guelfo, tenne la parola. Il quale poiché ebbe il tutto veduto e lodato, essendo già le tavole apparec-

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* Dante, Divina Commedia, Purg., cant. XI.  

 

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chiate appresso al vivaio, si pose a sedere, avendo da un lato il Conte Guido di Monforte, venuto in sua compagnia, e dall'altro Messer Neri. Di buone vivande e di migliori vini fu quella cena, com'è a pensare, servita, e 'l Re mangiava, beveva e cianciava con suo grandissimo gusto, quando due giovinette entrarono nel giardino. Non appalesavano più di quindici anni ciascuna di esse; avean capelli biondi e inanellati, da una ghirlandetta di provinca incoronati; mostravan visi di angioli, tanto eran belli e dilicati, e vestivano inoltre una bianca vesta di sottilissimo lino, sì che al primo vederle non potevi far a meno di dire:

 

                A noi venìa la creatura bella

            Bianco-vestita, e nella faccia quale

            Par tremolando mattutina stella. *

             

Ma le nostre giovanette non eran già due celesti spiriti o visioni, come quella dell'Alighieri; eran sì bene anime e corpi di questo mondo, di quelli cioè che farebbero dimenticare e 'l cielo e la terra. La prima di esse portava in sulle spalle un paio di vangaiuole ** con una mano, con l'altra un lungo bastone. La seconda che veniva dopo, portava in un bel modo una padella e un fascetto di legne, un trepiede, un vasetto di olio, e una facellina accesa. Come il Re Carlo rimase a quella vista, pensatelo voi. E' pareva, a vederlo, uno stordito; si attendeva a guardare le due sopravvegnenti fanciulle. Le quali, poiché gli ebbero fatto riverenza, ne andarono al vivaio, ed amendue entrarono nell'acqua, che aggiungea lor fino al petto. L'una di esse col lungo bastone andava tentando di rimovere i pesci dal loro nido, l'altra con le vangaiuole andavali raccogliendo. E non sì tosto alquanti pesci prendeano, gittavanli piacevolmente in sulle tavole davanti al Re, il quale vedutili con suo diletto guizzare, prendeali a sua volta, e graziosamente alle donzellette gittavali in dietro, pigliandosi spasso di sì fatto giuoco. Ma un famigliare finalmente pose termine a quell'innocente trastullo, forse con dispiacere del Re, perocché, per comando di Messer Neri, preso quel pesce e cottolo allora per allora, al Re venne offerto a mangiare, e ne mangiò. Le fanciulle intanto, così bagnate come

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* Dante, Divina Commedia, Purg. Cant. XII.  

** Specie di rete, che dal nostro volgo dicesi cuoppo.

 

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erano nelle vesti, le quali attaccandosi alle carni le delicate lor membra meglio facean rilevare, usciron di quel vivaio, e passando vergognosamente per innanzi al Re, a casa lor si ridussero, con le cose da esse innanzi recate. Il Re, dice il nostro novelliere, se allora fosse stato punto, non si sarebbe sentito; e il credo: tanto e' fu preso dal pensier di quelle due care giovanette. Poiché in esso pensiero fu alquanto dimorato, finalmente a Messer Neri richiese chi quelle si fossero, al che questi rispose esser elleno sue figliuole e gemelle, l'una delle quali diceasi Ginevra la Bella, l'altra Isotta la Bionda. Or mentre il Re di esse dimandava e ragionava, eccole venir nuovamente con vesti di zendado bellissime, e con piattelli di argento nelle mani pieni di vari frutti, che innanzi al Re sulla tavola posarono. Dopo di che, fattesi in disparte, incominciarono a cantare con tanta grazia e dolcezza, che bene il Re si pensò che tutte le gerarchie degli Angeli fossero quivi discese a cantare. Il canto cessò, e le fanciulle inginocchiatesi davanti al Re, gli domandaron commiato: diedelo quegli assai cortesemente, e preso anch'esso congedo da Messer Neri, in compagnia de' suoi, al suo castel fe' ritorno.

Fin qui è il piacevole della novella: il resto non a tutti potrà garbare, e però il conterò in due parole. Il Re, come già avrete pensato, amava Ginevra, ed amava anche Isotta per l'amor che portava a Ginevra. Ma avendo confidato questo suo nascente affetto a Guido Monforte, il duro capitano con buone ragioni da quell'amore così rimosse l'animo di lui, che Carlo si decise a subito maritare le due figliuole di Messer Neri, e magnificamente dotatele, diede Ginevra in isposa a Messer Maffeo da Palizzi, e Isotta a Messer Guglielmo della Magna: l'uno e l'altro nobili cavalieri e gran Baroni. Egli poi andatosene in Puglia con fatiche continue tanto e sì macerò il suo fiero appetito, che spezzate e rotte le amorose catene, per quanto viver dovea, libero rimase da tal passione.

 

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XXIII.

CONTINUA LO STESSO ARGOMENTO.  

Pensa qualche moderno scrittore che a Carlo I di Angiò debba la nuova Stabia il suo ingrandimento e 'l suo nome di Castellammare, per un castello prossimo al mare ch'egli costrusse, ma niuna notizia si ha di ciò presso gli scrittori contemporanei. Noi stimiamo all'incontro che potè anche prima di Carlo appellarsi così, essendo che i paesi murati ne' mezzi tempi castra diceansi, ed essendo quella terra vicino al mare forse castrum ad mare de Stabiis fu detta. E anche oggidì dicesi Castello a mare di Stabia per distinguerlo da Castellammare di Penna, da Castellammar del Volturno e da Castellammar della Bruca; quantunque essendo questo il paese per eccellenza che abbia un tal nome può ben dispensarsi da qualunque altro aggiunto senza tema di confusione.

Non altrimenti che il primo Carlo, prese anche il secondo Re di tal nome a careggiare cotesti amenissimi luoghi; dove venutovi infermo, risanava, e a memoria di tal guarigione un palagio vi fabbricava col nome di Casasana. Un convento vi fondava altresì dell'Ordine Riformato di S. Francesco, e molti e nobili privilegi alla città e ai cittadini largamente concedeva. Per la stessa cagione vennevi il saggio re Roberto, e dalla bontà di quest'aere traeva del pari non poco profitto alla vacillante salute. Vivea qui di continuo, e dodici chiese volle qui costruire a' dodici Apostoli, non che un monastero di suore claustrali nel luogo detto allor Valachia (oggidì Valacaja). Ancora il palagio di Casasana ampliò, sì che molti il tennero per fondatore di quelle mura.

 

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Non altro sappiamo di questa città sotto i seguenti principi angioini e durazzeschi, infino alla seconda Giovanna, se pure non vuolsi credere che a Casasana, e non a Gragnano, come leggesi in Summonte, dovè ripararsi Re Ladislao l'anno 1400 a cagion della peste che desolò le nostre contrade.

Ma veniamo a tempi anche migliori per Castellammare.

Poiché un capitano di ventura, venuto di basso stato, e levatosi ad altezza d'imperatore per animo e per comando, si volse a' danni della seconda Giovanna, combattendo dapprima per Luigi d'Angiò, ben ebbe a impallidir la pericolata Regina, che pur sapea quanto e qual fosse il valor di quell'uomo. Era questi Attendolo Sforza, temuto e stimato da' suoi più fieri nemici *, e della cui fama è piena l'Italia: né sarà inutile per noi Italiani il poterlo ancor ricordare, avvegnaché inutili o dannose fossero state le sue gesta. Ridestando egli i mali umori degli Angioini e le gelosie de' malcontenti Baroni, soddisfacendo all'odio suo stesso contro di un vil favorito, qual era Pandolfello, portando le armi colà dove con armi si combatteva **, molte terre e città conquistò a pro dello Angioino, molte altre ne scostò dalla fede dovuta alla Regina. Pur tuttavia talune ve ne furono, che a quella tennersi fedeli, e Castellammare tra queste, i cui cittadini non solamente la soccorsero coll'opera delle armi, ma ancora del danaro, come apparisce da un privilegio con data del 7 agosto 1420. Con esso ella dichiarò, che avrebbe perpetuamente conservata quella città nel regio demanio, senza pignorarla, alie-

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* è degno di special ricordo come Alfonso d'Aragona dimandato a un soldato nemico fatto prigioniero (a uno Squarcia da Monopoli) dove combattesse lo Sforza, e statogli quello additato, il principe comandò vivamente a' suoi che a quella parte accennata più non volgesser le offese, perché l'Italia non avesse a perdere un capitano come lo Sforza. Bellissimo e raro esempio di generosità se fu sincero! E lo stesso Braccio da Montone, emulo e rivale dello Sforza come di potere così pure di gloria, poiché apprese la fine infelicissima di quel valoroso, morto annegato, fu visto increspar gli occhi, e atterrato il volto starsene mesto e taciturno.

** E con armi combatteasi allora nel nostro regno, non meno che con animo virile, checché ne pensi l'egregio sig. Ricotti, il quale, accusandoci di mollezza in quei tempi, cita mal a proposito due cronisti, i quali di fatti particolari discorrono e non generali. Se fiacche fossero state allora le nostre armi, o se di soli bastoni avessimo fatto uso, certo che a quegli illustri capitani di ventura sarebbe mancata l'occasion di combattere, al Ricotti l'opportunità di narrare con quella dottrina ed efficacia che gli son proprie. Vedi Storia delle compagnie di ventura ec. vol. 2.

 

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narla, donarla o concederla, e che non avrebbe eletto giammai una persona sola per Capitano e Castellano di essa, ma tali uffici avrebbe a due persone diverse conferiti. Ordinò che tutti i suoi cittadini e gli abitanti nella medesima dovessero esser riputati e trattati come cittadini in tutti i luoghi del Regno, e specialmente nella città di Napoli, godendo di tutti gli onori, libertà, franchigie, immunità, esenzioni, privilegi, prerogative, e grazie degli altri cittadini demaniali del Regno e della stessa Città di Napoli. Decretò che nessun cittadino o abitante di quella Città per qualunque causa civile o criminale potesse giammai esser chiamato in giudizio innanzi a qualsivoglia giudice o tribunale, se non che solo innanzi agli officiali della stessa città: eccetto che in causa di appellazione, per cui potessero esser citati innanzi al Giudice competente. Concedè all'Università e a' suoi cittadini la facoltà di poter celebrare ogn'anno la fiera per 10 giorni, cominciando dagli 8 gennaio fino al dì della festa di S. Antonio Abate, colle stesse prerogative della fiera di Salerno in perpetuo. Volle che per tutto il mese di aprile di ciascun anno non si potessero in quella città vendere a minuto altri vini, se non che quelli fatti nel suo territorio; eccettuandone solo alcune spezie particolari. Diede facoltà alla Università di poter eleggere ogn'anno il Mastro della Fiera suddetta, il quale avesse tutte le autorità consuete. Oltre a tutto ciò, ad majoris gratiae cumulum, comandò che da quel tempo in avanti e in perpetuo non fossero que' cittadini tenuti annualmente a pagare alla Regia Curia se non che due sole collette, cioè la general sovvenzione e il sussidio, a tenor della solita tassa, senza poter essere astretti a maggior pagamento per qualsivoglia causa urgente e necessaria. E in fine graziosamente rilasciò loro una parte di quelle somme, che doveano per le collette fin allora arretrate, obbligandoli a pagarne solo il rimanente. *

Abbiam voluto riportar per intero il sunto di questo privilegio affin di mostrare a' nostri lettori di quali concessioni eran generosi i nostri principi in tempi di guerre con lo straniero e di civili fazioni; benché spesso la spada togliesse per se quel che la spada stessa avea conceduto. Ma così non pare che a Castellammare intervinisse: anzi esso andò sempre

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* Ved. Gaetano Martucci Esame generale de' debiti istrumentarj della città di Castellammare di Stabia, Napoli 1786.

 

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più guadagnando nell'animo di Giovanna, la quale, infierendo la peste nella primavera del 1422, in questa città si rifuggì con Alfonso d'Aragona; nel qual tempo questi soggettò a se e Vico e Sorrento e Massa ed altri paesi della costa d'Amalfi, i quali senza presidj e solo per volontà propria si tenevano sotto le bandiere angioine. Dopo di che, non potendo, forse per l'angustia del luogo, contener il palagio di Casasana due corti, il Re e la Regina si ritrassero a Gaeta.

De' torbidi che quindi seguirono non è a far qui parola, né della varia fortuna ch'ebbero le armi in questa città infino a che Alfonso non ebbe conquistato il trono. Ricordevole egli allora de' servigi rendutigli da quei cittadini volle anzi tutto ricomprar quella città da Luigi Pierleone erede di Raimondo (a cui aveala egli stesso venduta nelle necessità della guerra, e contro il tenore dell'esposto Privilegio), e ridurla di bel nuovo nel regio demanio. Né questo fu tutto. Avendogli que' cittadini presentato dimanda di alcune grazie ch'essi desideravano, il Re le venne lor concedendo con privilegio spedito da Castel nuovo il 5 maggio del 1444. Erano fra queste alcune concessioni già ottenute dalla Regina Giovanna; le altre furon nuove del tutto, tra quali la più segnalata è questa: che da tutti i pesi fiscali quella città fosse stata esentata, ed ella invece offeriva tre sue proprie gabelle denominate del buon denaro, del vino e del quartuccio.

Poiché tutto fu quetato nel regno, Alfonso una torre muniva qui, che togliendo il suo nome fu detta Alfonsina. Un moderno scrittore * è di opinione che fosse quella che vedesi a man destra nella nuova strada che da Castellammare mena a Vico, oltrepassata la punta di Puzzano, e che Torre di Portocarello vien nominata. Altri vorrebbe che quella fosse stata nella marina del Quartuccio, nel luogo propriamente che dicesi Torrione, dove scorgesi ancora l'avanzo di un'antica scarpa; ma, e dalle fabbriche e dagli oggetti rinvenuti, fu stimata piuttosto opera angioina.  

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  * Parisi, Cenno storico descrittivo della città di Castellammare di Stabia Firenze 1842.

 

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XXIV.

CONTINUA E TERMINA LO STESSO ARGOMENTO.  

Era morto Re Alfonso, e col suo cadavere, precipitava nel sepolcro la tranquillità e la pace ch'egli avea saputo per più anni conservare nel regno. I Baroni faceansi forti della ragione de' loro dritti, forti della ragione delle armi, e primieramente combatteasi in Sarno una feroce guerra, dove a Ferrante toccava la peggio; ond'è che tristo e' ritiravasi in Napoli, e se fossero allora i suoi nemici sulla metropoli piombati altro scampo non eravi per lui. Ma al suo miglior destino giovò non poco il consiglio del Principe di Taranto (il quale se fu spontaneo e sincero io non so dire), di doversi cioè soggettar le altre città pria di muovere contro di Napoli. Per la qual cosa seguendo l'avviso del Principe, contro Castellammare si volsero anzi tutto i Baroni, che teneva per l'aragonese. «Comandava quella rocca e quella città Giovanni Gagliardo (Gallart), uno degli antichi familiari di Alfonso, uomo di mite ingegno, d'integra fede, comeché devoto un po' troppo, secondo natura spagnuola, alla moglie. Era costei una Margherita Minutolo, nobilmente nata, il cui fratello Luigi a Giovanni (d'Angiò), andato in Puglia, avea poco prima resa la rocca di Lucera. Sia che i nemici sperassero che Margherita inducesse il Gagliardo alla resa, o sia ch'ella avesse, mercè le insinuazioni di suo fratello, quella dedizione spontaneamente promessa purché di colà si fossero mossi gli accampamenti, certo è che i nemici, entrata che ebbero la città, niuna opposizione facendosi loro da que' terrazzani, i quali eransi nel-

 

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le fortificazioni rifuggiti sottoposte alla rocca, cominciaron subito a battere con artiglierie i parapetti, né molto tempo di poi fu quella rocca resa dal Gagliardo».

Così il Pontano nella sua storia, e ben si raccoglie da queste parole che il Gagliardo, avvegnaché d'incorrotta fede, o per viltà di animo, o per debolezza di cuore, diede in poter de' nemici la rocca ch'egli dovea difendere a tutt'uomo *. Peggio ancora dissero altri **; che la Margherita cioè avesse ricevuto quattromila ducati in premio di questo tradimento da lei procurato, da suo marito consumato. Non passava un anno solo e Castellammare tornava nuovamente per le armi di Antonio Piccolomini alla devozione di Re Ferrante, benché non fosse riuscito a quel capitano di espugnare egualmente la rocca difesa tuttavia dal Gagliardo. Di questo fatto ne dà una spiegazione il Martucci, il quale crede indubitatamente che essendosi il Gagliardo fin dalle prime secretamente accontato con Ferrante, ed essendo la sua fede interamente per lui, non era mestieri che il Piccolomini avesse speso inutilmente il suo tempo nel rendere al principe quel che già era del principe. Noi crediam pure a quel che il Martucci si pensa, ma ben altro che lodi ne potremmo trarre pel Gagliardo, come fece il Martucci; il quale, per sostenere il suo assunto, smarrì, e ce ne duole moltissimo, la moralità dell'azione. ***

De' nuovi privilegi, non che delle concessioni degli antichi, che a quei di Castellammare toccarono durante il go-

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* Ved. Pontano, De Bello Neapolitano, lib. I, pag. 35 ediz. Gravier).

** Ved. Coment. Pii II. Pont. Max. (cioè di Papa Enea Silvio Piccolomini), lib. IV. Raccontando questo fatto il Piccolomini, dice assai bene esser vero quel detto del popolo: che nessuna rocca è poi tanto inespugnabile da non potervi entrare un asinello carico di oro.

*** La quistione di alcuni debiti instrumentarj negli antichi tempi per pubblica utilità e vantaggio contratti, riconosciuti in seguito validi e sussistenti co' necessarj documenti, e da ultimo nel 1748 impugnati per la dispersione de' documenti suddetti, diede luogo a questa seconda scrittura del Martucci, intitolata Esame generale de' debiti instrumentarj della città di Castellammare ecc., nella quale e' si fa a dimostrare come que' debiti da' supremi magistrati erano stati in ogni tempo riconosciuti come legalmente contratti. E piena ed intera, secondo il nostro giudizio, n'è la dimostrazione legale; vana alquanto è oziosa quella che volle trar dalla storia, comeché di molte e accurate notizie vada il Martucci confortando il suo scritto.

 

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verno aragonese, noi non direm di vantaggio per non riuscire soverchi. E pure, che valsero loro quelle tante concessioni de' principi agioini e aragonesi? Venuto Carlo V al dominio di queste contrade, a Filippo Doria genovese, che riportata avea la segnalata vittoria nelle acque di Salerno contro le armi cesaree, ella fu ingiustamente donata, non ostante il Real Privilegio, che dichiarava lei non poter essere dal regio demanio divelta. Ma breve fu il dominio che n'ebbe il Doria. Ella passò da costui (l'anno 1541) nelle mani del Duca Ottaviano Farnese, il quale sposata avendo Margherita figliuola dell'Imperatore, tra gli altri acquisti che fece nel regno vi fu anche questo di Castellammare. Ei lo comprò per la somma di 50 mila ducati * cum ejus casalibus, hominibus, vaxallis, feudis, dohanis, scannagiis etc., riserbando soltanto al Re di Spagna la nomina del Vescovo. Con tutto ciò Carlo V ordinava da Brussella, che alla fedelissima città di Castellammare e a' suoi cittadini fossero tutti garantiti e protetti gli antichi lor dritti! ...

Durava il governo viceregnale per tutti, durava il dominio de' Farnesi per Castellammare, allorché questa città fu prima travagliata dal Corsaro Dragut (l'anno 1542) con danni non pochi ne' beni e nelle persone, e fu quindi assalita dal Duca di Guisa. Non contento costui della cattiva prova già fatta della sua abilità politica, quella ancora volle mostrar delle armi. Venuto con una piccola flotta nel nostro golfo, egli sbarcò la sua gente in Castellammare, e impossessatosi della Piazza, e inalberato stendardo francese, si nomò Capitan generale del Re di Francia nel regno di Napoli. Ma non andò guari e perdè il Guisa questo altro suo onore. Volea superar la montagna, ma ne trovò intercluso il passaggio dal Bandito Martello e da' suoi seguaci; tentò d'inoltrarsi verso la Torre della Nunziata, e fattosegli incontro il Marchese di Torrecuso, il Principe di Castellaneta, e 'l Conte di Celano con le loro milizie, dopo un fiero combattimento, toccò al Duca piegare e ritrarsi fuggendo in Castellammare. Minacciato nella vita per una taglia di 30 mila ducati che il Vicerè avea posto sulla sua persona, stremo di forze, di danaro, di gente, egli allora si risolvè d'imbarcarsi nuovamente, e

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* Un secolo dopo, cioè nel 1636, per la morte del Duca di Parma, fattosi novello apprezzamento della Città di Castellammare, essa fu valutata, avuto riguardo alla fertilità del suolo, per la somma di duc. 105,680. Ved. Giustiniani, art. Castellammare.

 

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fatto dare il sacco alle chiese e alle case, il dì 26 novembre fece vela da quel porto, dopo quattordici giorni di conquiste e sconfitte. Fu in tale occasione che ne andò distrutto l'archivio di quella città, e il Milante ci dà notizia di un antico libro di scritture da lui veduto, sul quale erano ancor manifesti i segni della rabbia francese.

Questi saccheggi e rapine faceva il Duca di Guisa l'anno 1653; altri ancora ne pativa la stessa città per opera degli stessi Francesi l'anno 1799. *. Scene luttuose, dalle quali inorridito l'animo rifugge, ed io sono dolente di avervi per lo passato, o amici lettori, rannuvolato lo spirito con memorie siffatte. A me piace ora ritornar col pensiero a' tempi sereni di Re Carlo, allorché questo buon principe facea qui operare gli scavi, che abbiam già descritto, ed un opificio di cristalli piani vi faceva altresì stabilire a vantaggio della industria nascente; a me piace salutar Castellammare libera e indipendente da qualunque giogo signorile ed agguagliata alla condizione delle più floride città del regno. Toccata essa a Ferdinando per retaggio lasciatogli da Carlo, erede che fu della sua genitrice ne’ beni farnesiani, questi al regno liberamente concedevala, ora che tutto il regno era suo. Non contento di questo, di molte opere pubbliche, e stabilimenti, e luoghi deliziosi la decorò pure e abbellì, che noi dovremo descrivere. Fece altrettanto per lei Re Francesco, il quale di ritorno dalla Spagna qui curava la sua pericolante salute, e la rendeva a condizioni migliori per la salubrità di quest'aere, per la benignità di questo cielo. Ma i più grandi beneficj che mai avesse potuto aspettarsi la città di Castellammare ella ottenne dal presente suo principe: di potere cioè con una mano torre quei doni che generosa e veloce ad ogni suo menomo cenno a lei vien offrendo la città capitale; di poter ella stessa stendere amicamente e con facilità l'altra mano alle minori sorelle, che sulla costa medesima quasi le fanno corteggio.  

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* De' casi cui andò soggetta questa città nelle rivolture del 99 molti storici parlarono, ma chi vuol saperne qualche particolare da altri taciuto legga l'opera scritta con animo veramente cittadino dal nostro amicissimo Mariano d'Ayala, Le Vite de' più celebri Capitani e soldati napolitani, ecc.

 

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XXV.

CASTELLAMMARE A VOLO D'UCCELLO.  

Ed eccomi spastoiato da Monna Storia, la quale se a voi ha rincresciuto, a me né pure ha fatto sorridere. Or ci conviene star nuovamente sulle gambe, e se vogliam risparmiarci anche queste potremo volare.  - Volare? e dite da senno? Del miglior senno del mondo. Oggidì che per certi autori sono in voga le volate anch'io m'innalzerò a volo d'uccello. E siate certi, miei cari lettori, che io sono più adatto a questo ufficio di qualche mio amico, il quale è un pò pesante, ed io, se finora non m'avete pesato, v'assicuro che non son grave. Ma via le chiacchiere, e cominciamo la nostra volata.

Questo borgo che vedete presso la Strada Ferrata, non era punto pochi anni addietro, ovvero delle case isolate eran qui per uso di opificî. La città or si è protratta fin qua, e più oltre andrà dilungandosi dalla parte che guarda Napoli e Gragnano. Come spaziosa e bella è la strada! Questo spianato che vedete a man dritta è stato scelto pel nuovo arsenale de' legni mercantili; e questo bellissimo palagio che mirate a man sinistra è stato or ora compito. Esso attende ancora le buone feste del suo ricco padrone. è opera di un valentissimo architetto napolitano, ed io non so chi meglio di Enrico Alvino possa tra noi scegliere e forme e profili più eleganti e corretti di questi. Guardo soprattutto alle due facciate laterali, e mi par di vedere uno di que' grandiosi palagi romani. Quel che sia dentro io non so dire, perché sono in aria, come sapete. L'Albergo imperiale sta dirimpetto alla novella casa del sig. Benucci, ed è anch'esso un grande edifizio del sig.

 

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Merenghini. è questo il miglior albergo che sia in Castellammare. Siamo al Quartuccio, che già sapete perché si dica così, se non volete che vi dica: vedi il mio Viaggio a pag. 92 verso 24. Questa marina accoglie le barche destinate al traffico giornaliero da Castellammare a Napoli, non che le altre che fanno il viaggio di Livorno e della costa di Toscana. Sono qui le case Vigiano e de Turris. Vien dopo la piazza del Duomo con la Casa comunale e il Seminario. Riesce in questa piazza la strada Coppola, che conosceremo più tardi: per ora seguitiamo la strada della marina, la quale da questo punto infino alla piazza del Mercato dicesi più propriamente la Marina del Gesù. Qui sono le belle case de' sigg. Cioffi, Grossi, Longobardi, Scafarti, e vedesi pure la casina del Principe d'Angri, col suo cattivo moresco. Vien la piazza del Mercato. è lurida, come vedete, e circondata da cattivi edifizi, tra quali è l’antica casa delle Assise. Continuiamo per la stessa via. Qui la strada della marina diventa Marinella, e tra molte abitazioni che sono in essa non ve n'ha una sola che meriti attenzione. Speriamo che col tempo questo tratto di strada voglia anch'esso rabbellirsi di buoni edifizi. - La piazza che vien di seguito, chiamasi della Fontana grande, ed ha con se uno stabilimento di molini, la casa de Angelis, edificata, come dicesi, sull'antico castello angioino bagnato dal mare, e la casa Pappalardo, detta del Gran Mogol. Procedendo oltre troviamo la strada del Cantiere, la quale è piuttosto una piazza che una strada. Una specie di edicola è qui a man ritta, che non ha nulla di sacro: essa contiene invece una vasca in cui si raccoglie l'acqua acetosella. Sonovi in questa strada la cappella di S. Maria di Porto Salvo, e le case di Martingano, Bonifacio, di Capua e de Turris. Vi ha pure il palagio che dicesi della Cristallina, dalla Fabbrica de' Cristalli stabilita da Re Carlo. Esso appartiene alla Real Corte, e serve ad abitazione de' principi reali. Siamo, la Dio mercè, all'altro capo della città, ed è questa la piazza meglio decorata pe' due edifizi, che sono l'uno di contro all'altro: lo Stabilimento cioè delle acque minerali e 'l real Arsenale. Lasciamo quello per ora, ed invece svolazziamo un po’ sopra di questo.

Esso fu qui stabilito da Re Ferdinando Imo, fin da' primi anni del suo regno; occupandosi un vasto spazio di terreno, non che l'abolito monastero de' Padri Carmelitani. Di buone fabbriche lo sussidiò quel principe e di utensili e macchine necessarie quali a quei tempi poteansi desiderare. Oggidì è il

 

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primo arsenale del regno, e tale che fa invidia a quelli di parecchie nazioni di Europa. Sonovi in esso vari magazzini di depositi, e conserve di acqua per mettere in molle il legname, e sale per lavori, e ferriere, e macchine ed argani, secondo che dagli ultimi progressi della scienza sono addimandati, e mercè de' quali abbiamo noi altri veduto con poco di forza e di gente tirare a secco un vascello nel più breve spazio di tempo. Tre grandi scali vi sono, sicché si possono nel tempo stesso varare tre grosse navi da guerra; e due fregate a vapore, non è guari, di qui ne vennero a mare, che come due superbi alcioni oggi sfidano i flutti. Un altro legno della stessa portata vedesi già in costruzione con altri legni minori, ed una prodigiosa operosità, un moto continuo, è in tutto l'arsenale, che occupa intorno a due mila persone, tra uomini di mare, artefici giornalieri e servi di pena. Io resto alquanto a contemplare dall'alto questa bellissima scena, e mormoro que' versi di Dante *:

 

                              Bolle ... la tenace pece

            A rimpalmar li legni lor non sani

                Ché navigar non ponno, e a quella vece

            Chi fa suo legno novo, e chi ristoppa

            Le coste a quel che più viaggi fece;

                Chi ribatte da proda e chi da poppa;

            Altri fa remi, e altri volge sarte,

            Chi terzeruolo ed artimon rintoppa.

 

Né della operosità solo io mi compiaccio, ma della molta intelligenza ancora ed istruzione de' nostri marinai, i quali oggi ben fanno rivivere una antichissima tradizione, e un nostro vanto antichissimo. Ricordiamoci a tal proposito di quelle parole di Tito Livio: Classe qua advecti a domo fuerunt, multum in ora maris ejus, quod accolunt, potuere. Primum in Insulas Aenariam, et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre **. E questi uomini menzionati da Livio, furono più tardi signori anch'essi de' mari, quando le repubbliche di Amalfi, di Napoli, di Sorrento, eran gloriose pei loro commerci. Fu poi nostra colpa del tutto, se perdem-

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* Dante, Inf., Cant. XXI.

** Liv. Dec. I, Lib. 8, cap. 22.

 

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mo questo vanto bellissimo? se divenuti molli e neghittosi rinunziammo financo alle memorie degli avi? Io non vorrò certo indagar le cagioni di questo fatto, ma mi basterà invece ripetere que' versi di un poeta inglese:

 

                                              Army, City, all

        Depends on those who rule: when men grow vile

        The guilt is theirs, who thought them to be wicked.

 

Or lasciamo il passato, e confortiamoci invece nell'avvenire, salutando con un sorriso di amore e di speranza questi esperti marinai, questi artefici solerti, che lavorano per un'opera assai generosa: per l'onor di un paese. Preghiamo nel tempo stesso alla Fortuna

 

Che guidi il marinaio con la sua stella.

 

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XXVI.

CONTINUA IL VOLO.

 

Nell'uscire dall'arsenale, incontrasi la nuova e ridente via che mena a Sorrento, e che altra volta, amici lettori, mi sarà dato percorrere in vostra compagnia. Per ora seguitiamo il nostro volo, e moviamo verso Pozzano, la cui strada è fiancheggiata da alberi che rendono un'ombra ospitale. Di qui meglio vedrassi il vasto arsenale e l'antico e sicuro porto gremito di legni, e 'l novello che si sta ora formando, il quale sarà dedicato a' bastimenti da guerra. Di qui una gradevole vista si offrirà al vostro sguardo, ed a misura che vi andrete elevando, più ampio spazio di cielo, di terra, di mare potrete comprendere. Sicché bene que' Frati questo distico qui lasciavano scritto:

 

             Si pelagus, si rura cupis, si montis acumen

              Sunt hic cuncta oculis grata theatra tuis *.

 

Siam giunti alla Chiesa di Pozzano. Salutiamo per ora queste mura e passiam oltre, svolgendo per quella parte del colle che a Castellammare soprasta. Bellissime campagne e ridentissimi poggi tappezzati di fiori, coronati da alberi, irrigati da ruscelli! Ma ecco il vecchio Castello, ricordo dell'antica potenza di questa Città. Fermiamoci un poco a considerar queste torri, che mostran l'opera di più tempi e di vari padroni. Questa torre di fatti che vedete sorgere a man sinistra della spianata per nulla si assomiglia all'altra ch'è ancora più diruta, ed ha la sua scarpa. Nel cordone, nelle

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* Se il mare chiedi o le campagne, se la vetta del monte, tutte queste cose presentano agli occhi tuoi un grato spettacolo.  

 

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mensole che sostenevano i merli, nell'ampio suo giro ed altezza voi scorgerete maggior arte ed ardire. Sicché io penso che questo castello fabbricato dagli Angioini, da Alfonso di Aragona fosse poi stato ridotto a miglior condizione, come dallo stesso Pontano ben si raccoglie, dove egli dice che «sull'alto era posta la rocca, la quale sapientemente fu da Alfonso afforzata, ed un braccio avea che fino al mar protraesi, perché il presidio coladdentro potesse introdursi». * E un avanzo di questo braccio vedesi tuttora legato alla maggior torre; esso giungeva, come dicemmo, fino alla marina, dove un'altra torre rizzavasi, e i cui avanzi fino a poco tempo addietro miravansi tuttavia **. Fu questa adunque la rocca che custodiva il Gagliardo, con le sue fortificazioni sottoposte, nelle quali cercarono scampo gli atterriti cittadini; fu questa la rocca detta Alfonsina, e non è d'uopo, secondo me, cercarne altra ed altrove.

Posto a cavaliere della collina e soprastando quasi che a tutta la città, questo castello è come il Fantasma della ballata tedesca, che dall'altissimo culmine della montagna tien d'occhio i pellegrini del mondo, e raccontando i fatti suoi generosi, augura loro altrettanto di forza e di energia ***. E pure queste torri sdrucite che vivamente parlano alla mobile fantasia, queste torri dovran di qui a poco atterrarsi per dar luogo a qualche smilza casina di delizie o a qualche ibrido Kiosco. Più che l'orgoglio di un popolo oggi val la superbia di un ricco signore ! ...

Continuiamo a volare. Di buon disegno è questa casina, benché di rustica apparenza, che ha sull'architrave della porta queste parole: Nos non nobis: confidenza fatta dal proprietario a' passeggieri. Di qui si va a Monte Coppola. Non vi spaventi questa parola, ché non dovrem noi salir troppo. I naturali di questo paese dicon monti le colline, e poi col nome di rivi onorano i torrenti! Monte Coppola è una vaga e deliziosa collinetta formata a guisa di un cono con belli ed 

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* De bello Neapolitano, lib. 1.

** Nella veduta che dà il Pacichelli di Castellammare, osservasi chiaramente questo braccio ed è indicato col nome di strada; sicché esso esisteva ancora al 1700. Osservansi pure tre torri sulla rocca, la terza delle quali era posta naturalmente nel vertice del triangolo: una sola torre era poi nella marina vicino all'antica Porta della Fontana. Ved. il Regno di Napoli in prospettiva, vol. 1.

*** Goethe, Geistes-Gruss.

 

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ameni viottoli, i quali sono ombreggiati dal castagno, dal ceraso marino e da altra specie di alberi. Giunti che voi sarete alla cima di esso sentirete rallegrarvi il core alla vista di tante e sì svariate bellezze, onde Natura adornò questo golfo, che gli antichi dissero cratere, e gli archeologi spiegarono tazza: ond'è che vennero i Romantici e chiamarono il nostro paese la tazza dell'obblio, la tazza dell'amore, la tazza del piacere, ecc. Qui v'è pure da riposare agiatamente, e se così vi attalenta, restate in compagnia de' vostri pensieri; io intanto scendo dal monte e mi avvolgo per le freschissime selvette di Quisisana.

Quisisana è una leggiera modificazione di Casa sana, e ben s'appose il secondo Carlo Angioino nel dare a questa sua dimora un tal nome: tanta è la vaghezza del sito e la salubrità dell'aere, che vi si respira nella stagione estiva, trovandosi ella al ridosso della montagna, che da' raggi solari nella parte di mezzogiorno le fa schermo. Rimasto da più tempo abbandonato, da Ferdinando primo veniva questo casino rabbellito ed accresciuto di fabbriche. Esso è circondato da giardini decorati di sedili di marmo, di statue, di fontane, e tiene alle spalle delle ombrose selve di castagni, intersecate da spaziosi viali pe' quali si ascende a Monte Coppola: qui altre vallette, altri poggi, altre cascate di acque, e luoghi incantati, che ti fan risovvenire di que' versi del Tasso:

 

            Acque stagnanti, mobili cristalli,

            Fior vari, varie piante, erbe diverse,

            Apriche collinette, ombrose valli,

            Selve e spelonche in una vista offerse.

 

Di Quisisana chiamasi pur questa strada, che vedete nel lasciar i cancelli del Real Bosco e Casino. Essa ne condurrà fino alla città frammezzo a fronzute querce, e rivoletti, e molini, e casine ridentissime, che non starò a notare, sicuro che i miei lettori abbiano miglior vista, che non ho io, per leggerne le scritte.

Questo borgo che è posto nella metà della via dicesi delle Botteghelle, e da questo ad un altro si passa che appellasi delle Fratte, pieno anch'esso di belle casine, e con una strada per soprappiù deliziosa, la quale fino al Castello conduce da noi già visitato. Venendo giù dalle Botteghelle incontrasi la elegante casina del cav. Boccapianola, la quale essendo fuor di via, potrebbe non esser avvertita. Delizioso e comodo n'è il sito, sopra tutti gli altri; e però ella è richiesta in

 

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preferenza da' forestieri. V'ha un picciolo ma grazioso teatro che spesso serve a intertenere delle nobili brigate, e v'ha pure uno stabilimento di bagni caldi con una sala da bigliardo. Di molte e buone colture offre poi esempio la Villa, essendo il padrone del luogo, istrutto e gentile signore, utilmente e tutto dedicato a' migliori studi dell'economia. Da questa sua casina ad un'altra si fa passaggio, che resta più basso, e propriamente di rincontro al Teatro Francesco I.

A spese di un privato e con disegno del sig. d'Avitaja, architetto di Castellammare, fu costrutto questo teatro. Omero stava in cima alla facciata; Aristofane, Sofocle ed Euripide vedeansi più giù effigiati in basso-rilievo, né altri tragici e comici che questi; di sorta che sarebbesi creduto che a Castellammare si rappresentasse la tragedia greca, ed in greco, come a Berlino ! ... Quelle povere imagini oggi non son più. - Ho inteso lodare la distribuzione interna di questo teatro, il quale oltre all'avere uno spazioso palco-scenico, è formato di tre ordini di palchi con una galleria superiore, e può contenere in fino a 600 spettatori. Ma dove sono questi spettatori? Se corre la stagione invernale da questi naturali non si va punto a teatro, e poi salir fin qui sopra! Se la stagione estiva, non bisogna, dicono gli acquaiuoli * ed i bagnatori sciupar le ore della notte per levarsi a mattutino. In tal caso il teatro greco è in pericolo, e l'anno scorso vendevasi con questa condizione: per convertirsi ad uso di albergo.

Lasciando il Teatro incontrasi la piazza del Caporivo, la quale ha una rustica fontana ed è circondata da cattivi edifizj. Di qui si passa alla Strada Coppola, detta così dall'antico palagio dei Conti Coppola, i quali diedero il loro nome anche alla collina ....

Ma eccoci nuovamente alla piazza del Duomo, e presso al Quartuccio. Quanti asini ed asinai sono qui disposti e in bell'ordine! Dove sono asini, bisogna abbandonare le ali; e voi, amici lettori, perdonate a questa volata.  

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* Diconsi acquaiuoli presso di noi coloro i quali bevono acque minerali.

 

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XXVII.

LE CHIESE DI CASTELLAMMARE.

 

Ben ventotto tra chiese e cappelle * conta la città di Castellammare, ma di esse le più considerevoli sono il Duomo, la chiesa del Gesù, quella del Purgatorio, e l'altra di Pozzano.

è il Duomo un bello e magnifico tempio a tre navate. Modellato in principio sullo stile gotico, esso fu poi ridotto nel 1796 al composito, e però alcune scorrezioni si osservano che offendono l'occhio, come a cagion d'esempio sarebbe l'arco maggiore, e quindi la maggior navata, alquanto sproporzionato. La città di Castellammare impiegava fin dalle pnme per la costruzione di questo tempio la somma di 70 mila ducati, che incominciavasi nel 1587 sotto il vescovil reggimento di Monsignor Ludovico Majorano. Oltre all'alta-

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* Non sarà inutile per molti de' nostri lettori il conoscerne i nomi. Esse diconsi: 1.° dell'Annunziata, 2.°, del Camposanto, 3.° di S. Maria degli Orti, 4.° di S. Giovanni di Dio, 5.° del Duomo, 6.° di S. Francesco, 7.° dell'Oratorio, 8.° di S. Anna, 9.° del Purgatorio, 10.° del Gesù, 11.° di S. Bartolomeo, 12.° della Pace, 13.° di S. Caterina, 14.° dello Spirito Santo, 15.° della Madonna di Porto Salvo 16.° di Pozzano, 17.° della Madonna della Libera, 18.° di S. Stefano, 19.° di S. Gio. Apostolo, 20.° di S. Matteo, 21.° della Madonna della Sanità, 22.° della Maddalena, 23.° di S. Giacomo, e dell'Immacolata, 24.° del Crocifisso, 25.° di S. Croce, 26.° del SS. Salvatore, 27.° di S. Nicola, 28.° di S. Eustachio. Di queste chiese, altre sono parrocchiali (quelle cioè del Duomo, dello Spirito Santo, del SS. Salvatore, di S. Nicola, di S. Eustachio, della Maddalena, di S. Matteo) ed altre appartengono a' rispettivi monasteri, conservatorj e spedali. Nella Chiesa del Gesù esercita le sue funzioni il Clero della Città, in quella del Duomo il Capitolo.

 

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re maggiore veggonsi dodici cappelle, delle quali alcune sono gentilizie. Esse son decorate di non ispregevoli dipinti della moderna scuola napoletana; ed uno ve n'ha pure della scuola del Lanfranchi, rappresentante l'Assunzione al Cielo della Vergine, il quale ci parve un buon quadro; non così l'altro che è nella stessa cappella (seconda a man dritta entrando) e che dicesi di Andrea da Salerno, rappresentante la istituzione del SS. Sacramento. Io non vi scorsi né quella fluidità di colore né quella ingenuità di espressione, che son proprie del nostro Raffaello.

Per eleganza di forme, se non per grandezza, la Chiesa del Purgatorio primeggia su tutte le altre. Cominciata nel 1798 con disegno del Regio Architetto Antonio Cioffi, nel secondo anno di questo secolo era già bella e compita. Un piccolo porticato di stile toscano, e sconciamente imprigionato fra due case, ne forma la parte esterna: di stile jonico è modellato l'interiore. Dodici colonne sostengono la grande navata, e la dividono dalle due navate minori. Nel mezzo di quella sovrasta una cupola sferica col corrispondente lanternino, bellamente sostenuti da quattro colonne di sveltissimo diametro: se non che ne offendono que' cassettoni della cupola troppo rilevati. Ne' due lati della crociera sono due cappelle di marmo bianco ben lavorato, e tal è pure l'altar maggiore. Cattivi ne sono i dipinti, e speriamo che debbano essere quanto prima sostituiti da altri meritevoli di stare in questo Tempio.

Eccoci alla Chiesa del Gesù, la quale apparteneva un tempo a' Padri Gesuiti, e dal 1785 in poi al Clero di questa Città. Di stile toscano bastardo è la sua facciata, ultimamente rifatta, di ordine corintio è l'interno. Sull'altare maggiore vedesi un dipinto del de Matteis, ed un altro ve n'ha pure nella sagrestia rappresentante S. Luigi, che vuolsi cominciato dallo stesso artista, finito da una sua figliuola. * Oltre all'altare maggiore sonovi altri quattro altari ben decorati, e sulla porta scorgemmo un buon dipinto, rappresentante alcuni fatti di S. Ignazio di cui non sapremmo dire l'autore. Dell'affresco della volta non parliamo, opera di un tal Andreoli.

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* Ricaviamo questa notizia dalla pregevole operetta del sig. Parisi sopra Castellammare, benché ivi si dica essere rappresentato un S. Ignazio, ed invece è S. Luigi. Qual delle figliuole del de Matteis ebbe poi compito il dipinto del padre noi non sappiamo. Quell'artista ebbene tre (Marianna, Felice ed Emmanuella), e tutte e tre dipinsero ragionevolmente.

 

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Sur una deliziosa collina è posta la Chiesa di Pozzano, col suo convento, detta così da un pozzo nel quale fu rinvenuta la imagine della Vergine, e quel pozzo vedesi tuttavia nel mezzo della Chiesa. è opinione che quella imagine in Castellammare anticamente si adorasse, e che sottratta alle persecuzioni degli Iconoclasti, non prima del secolo XI per un prodigioso miracolo venisse finalmente alla luce. Imperocché raccontasi che su quel pozzo vedeasi nel cuor della notte luccicar di continuo una fiammella, la quale scorta una volta da alcuni pescatori, e tenendone questi ragionamento, ecco apparir loro la Vergine tutta circonfusa di splendore, che così parlò: Al Vescovo andatene subito, e ditegli che qui disotterrasse: vi troverà un pozzo, e nel fondo di esso una imagine mia. Or è mia volontà che questa imagine abbia il suo culto in un Tempio, che questo Tempio sia qui appunto innalzato. I pescatori non dettero fede a quella visione, ma poiché essa si ripetè loro con le parole medesime per la seconda e terza volta, si portarono finalmente dal loro Vescovo, e raccontatagli ogni cosa per filo e per segno, questi ordinò subito che i cittadini tutti si disponessero in solenne processione, dopo di che andatone con esso loro al luogo designato, fu rinvenuto il pozzo e l'immagine, la quale dopo tre secoli non avea per nulla patito, e pareva allor allora uscita dalle mani dell'artista. è questa, come dicemmo, l'antica tradizione, sulla quale non faremo comento di sorta, ripetendo quelle parole del Grisostomo: Est traditio? Nihil quaeras amplius *.

Fabbricata che fu dagli Stabiesi, secondo il divino volere, una piccola Chiesa (la quale aveva l'ingresso dove ora è il coro, e non andava più in là del pozzo), ella fu convertita in parrocchia, per provvedere a' bisogni spirituali della povera gente, che in capanne e casipole erasi colà intorno ridotta, ed uno Spedale vi aggiunsero pure ch'era governato da Maestri laici: comunissime e pietose istituzioni di quei tempi in Italia. Per il che tanto la Chiesa che lo Spedale di larghe limosine eran presentati, ed un diploma leggesi tuttavia di Giovanna Seconda, col quale dona alla Chiesa di Pozzano un carlino per settimana: largizione che riportandoci con la mente a que’ tempi non sembrerà molto tenue.

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* Questo racconto noi l'abbiam tratto dall'Istoria della Immagine di S. Maria di Pozzano, scritta dal padre Serafino de' Ruggieri (Napoli, 1742), opera piena di buone notizie storiche ed archeologiche.

 

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Reggevasi tuttavia questa Chiesa da un Parroco, allorché a' cittadini di Castellammare surse in animo di chiamare presso di loro il santo eremita Francesco da Paola, che quell'età facea grandemente maravigliare per le sue opere stupende, perché un Convento del suo Ordine colà avesse fondato. E il buon Padre vi mandò di fatti due suoi compagni, i quali scelto il luogo opportuno, misero subito il disegno ad effetto. Se non che contrastò il Parroco a quel devoto pensiero e mossene lagnanze a Re Ferrante primo. Questi che del santo uomo erasi dichiarato acerbo nemico, ordinò che da Castellammare, non che dal regno intero, fossero stati espulsi que' Frati, e che Francesco fosse stato incarcerato, e condotto in Napoli: carcerazione che non ebbe poi luogo per la virtù stessa di colui, e in riverenza ed ossequio si mutaron subito l'odio e le persecuzioni del Re. Pur tuttavia non allora fu visto sorgere il Convento di Pozzano. A Consalvo di Cordova, detto il Gran Capitano, era dato proteggere e compiere un tal pensiero per l'amore grandissimo che a quel santo uomo portava, e veduto che nessun altro ostacolo eravi maggiore delle opposizioni del Parroco (un Girolamo Castaldi), ottenne da Roma che questo fosse fatto invece Vescovo di Massa Lubrense. Così il 9 giugno del 1506, annullatasi l'antica Parrocchia, era fondato l'ordine de' Frati Minimi con la rendita annua di 50 fiorini d'oro, cioè a dire 300 ducati di nostra moneta. Né qui si limitavano le generosità di Consalvo. Considerando egli che poveri erano i mezzi di que' Frati a edificare un Convento, a ricostruire la Chiesa, concesse loro altresì, alle domande di quelli, che avessero innalzato una Torre con un fanale pe' naviganti, e che i dritti soliti a pagarsi ne avessero essi riscossi; concesse pure che fosse ad essi retribuito quel tanto che i pescatori eran tenuti a pagare per la facoltà di pescare nel mare sottoposto al Convento, e che alla Regia Corte era innanzi dovuto. Di questi privilegi il secondo ebbe effetto, il primo no, perocché i cittadini a que' Frati si opposero, e questi avean perduto il lor protettore, avendo Ferdinando il Cattolico l'anno 1507 menato con se nelle Spagne il Gran Capitano. Ma a tal difetto sopperirono invece le pingui offerte e limosine, che gli stessi Stabiesi spontaneamente presentavano per la ricostruzione della Chiesa. Dopo trenta anni fu visto sorger bello e compito quel Tempio, del quale non sarà senza frutto averne tessuto la storia.

 

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XXVIII.

SEGUITA LO STESSO ARGOMENTO.

 

Sopra di amena collina, come dicemmo, e posta ad oriente, sorge la Chiesa di S. Maria di Pozzano, la quale ha una semplice facciata ed una nave di non mediocre grandezza scompartita in otto cappelle laterali, con altari di marmo, e decorate tutte di stucchi. Dietro all'altar maggiore, che rimane isolato, sta il Coro, e sopra di esso vedesi effigiato in tela l'Arcangelo S. Michele protettore dell'Ordine (scuola del Giordano). Nella cappella ch'è a man sinistra dell’altar maggiore osservasi l'effigie di S. Francesco di Paola scolpita in legno, ed a man destra del medesimo vi ha un'ampia cappella, tutta di commessi marmi decorata e di stucchi dorati, nella quale la imagine di S. Maria di Pozzano si venera da' fedeli. Questa imagine ti mostra la Vergine sedente, che sollevando con una mano la mammella apprestala al suo Divino Figliuolo, coll'altra tien quello a sè stretto. Con un grazioso movimento di capo ella guarda lo spettatore: così pure il Bambino; e con tal semplicità, con tal dolcezza di espressione, che ben mostra esser questo un dipinto de' primi tempi dell'Arte. Il dicono di Cimabue, e così leggesi pure in un elenco delle pitture di quel Santuario posto da' Frati nella Sagrestia; ma se così fosse come mai quel dipinto fu sotterrato nel IX secolo? Osservo ciò, non per volontà di disconfermare quel che io stesso ho narrato, ma perché altri pensi a non far sorgere tali contraddizioni, che potrebbero da qualche maligno spirito es-

 

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sere appuntate. Sicché senza starvi a dire se quel dipinto sia o no del Cimabue, mi contento di esporvi che esso è antichissimo, e conservato in ottimo stato, comeché le tinte sien divenute alquanto pallide, e i contorni più risentiti.

Due grandi tele veggonsi dipinte a' lati di questa cappella. In una di esse è rappresentata Rebecca al pozzo di Nacor nella Mesopotamia, che dando a bere a' cammelli de' servi di Abramo riceve da quelli i doni mandatile dal suo Signore, il quale chiedevala per isposa di suo figlio Isacco; nell'altra è dipinto Giacobbe che alza la pietra dall'orlo del pozzo di Aran, per abbeverare il gregge della sua bella consobrina Rachele. Questi dipinti sono amendue di Berardino Fera, e scorretto n'è il disegno, manierato il colorito.

Presso alla cappella da noi descritta di S. Francesco da Paola sorge un pozzo rivestito di marmi, ed è quello stesso in cui fu rinvenuta la sacra imagine. Discendesi in esso mercè una scalinata egualmente marmorea, e dopo pochi gradi rinviensi un soccorpo fatto nel 1719; da questo si passa in un Cimitero, a capo del quale si vede un altare di marmo. Or tornando su nella Chiesa, alcuni quadri son da osservare nelle cappelle: e prima di tutto la Testa di S. Francesco di Paola che dicono di Giulio Romano, e che non può essere al certo dipinta con maggior verità, i quadri del Coro, del de Matteis, e la S. Lucia dello stesso, non che l'Epifania di Antonio Gatta. Ancora son da osservare alcuni sarcofagi di persone, che trovaron la tomba ove sortirono i natali, e di altri men fortunati che lungi dalla terra natale lasciarono le ceneri. Questo che vedete a man destra entrando la chiesa con una lunghissima iscrizione appartiene a Eleonora Diaz passata nel 1833. Venuta di nobil famiglia spagnuola ve 'l dice abbastanza la vanità dell'epigrafe, la quale mi fa susurrare questi versi di un poeta francese:

 

                Que te reviendrait-il de tant de renommèe?

                Rien, que la chétive lueur,

                Et que le peu de fumée

                D'une lampe en ton honneur

                Sur ton cercueil allumée;

                Et le touchant plaisir aux pieds du grand Lovis

                Enterré, près Guesclin, d'infecter Saint-Denys.

 

Più modesta è l'epigrafe che le sta a rimpetto in un sarcofago anch'esso modesto. Essa vi dirà come due coniugi colà sono interrati: il Marchese e la Marchesa de Turris, aven-

 

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do questa di qualche anno preceduto suo marito nell'ultima dimora... E accanto a tal sarcofago eccone un altro con bassorilievo, il quale ritrae un pensiero comune, ma con forme leggiadre. è un Angelo che trae seco nel Cielo un'anima non ancor tocca dalle sozzure della Terra. Leggiamo questa scritta:

 

Le Comte Arthur de Maîstre

né le 12 novembre 1821, mort le 13 octobre 1837.

 

Questo linguaggio io vorrei che a noi parlassero i tumuli, e così non avremmo noi ad arrossire per lodi bugiarde, ad assonnare per frasi morte e scucite, che la moderna epigrafia ci viene a sazietà regalando. E questo nome soltanto del de Maistre non basta forse a ricordarvi qual sorte toccava al celebrato autore del Lebbroso di Aosta? Non vi dice tutto il dolore di un padre, che dopo di aver pianto e fatto piangere sulle miserie dell'umanità, doveva esso medesimo versare una lagrima, la più amara che fosse mai, sulla perdita di un figlio da lui prediletto? Queste cose io vi dico, o miei lettori, per averle intese ripetere da un amico che non ho più, da Carlo Mele, il quale al Conte de Maîstre fu affezionatissimo, e n'ebbe tradotto con ogni grazia e purezza di lingua la Giovane Sibera, non men che il Lebbroso: versioni che allo stesso autore egli offeriva con affettuosa lettera nella quale di questa sua sciagura toccava.

Entriamo ora nella Sagrestia, grande e luminosa con buoni dipinti a fresco e ad olio, questi del Cavalier Conca di Gaeta, quelli di Giacinto Diana; pittori amendue di molta fantasia e di celere esecuzione, comeché di poca correzion di disegno e castigatezza di gusto l'uno e l'altro peccassero. E fermandoci a quelli del Conca, essi ne mostrano una storia, la quale non può affatto intendersi su la tela se non è prima narrata.

Poiché avveniva la famigerata eruzione del 1631, e 'l terrore e lo spavento pingeansi sul volto di tutti, ben ebbe più d'ogni altra contrada a paventare la città di Castellammare, e però a Dio la sua popolazione volgevasi, perché l'avesse dall'imminente pericolo salvata. Anche il Venerabile Padre Fra Bartolomeo de Rosa, Superiore allora di questo Convento, volle co' suoi compagni impetrar grazia da Dio, e andatone al Duomo, quivi predicò con molta efficacia. Se non che dicesi che non terminasse di predicare, perché tolto in estasi devota: cessata la quale egli ingiunse a tutti i fedeli di se-

 

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guitarlo. Così fecero, e giunti che furono al lido sottoposto al Convento, ecco il de Rosa inginocchiarsi e pregar nuovamente, ecco un crocifisso nel tempo stesso venir a lui galleggiando sulle acque. Tolselo il Frate con giubilo grandissimo come cosa che già si aspettasse, e con quella gente che gridava al miracolo ne salì al Convento ove depose la sua preziosa conquista. Da allora in poi, Castellammare non ebbe a patir, come dicono, né gl'incendi del Vesuvio, né le distruzioni del tremuoto. Questo crocifisso è di legno, di non cattivo rilievo, ed alto quattro palmi. Esso vedesi ora nella detta sagrestia, dove sono le pitture del Conca che rappresentano i fatti innanzi narrati, secondo quel che ne scrisse il Ruggiero nella sua storia già da noi menzionata su l'imagine di S. Maria di Pozzano.

Prima ancora della Chiesa fu dato mano alla fabbrica del Convento, il quale è posto in quadro ed ha un piccolo Chiostro e comode celle per le abitazioni de' Frati. Un altro braccio a tal quadrato fu aggiunto nel 1636 per stanza de' Novizi. La Torre ch'è accanto la Chiesa fu cominciata a fabbricare nel 1585 e non solo per allogarvi le campane, ma anche per rifugio e difesa de' Frati in caso di un'aggressione dei corsari, comeché quelli non avessero mai avuto a farne esperimento ... Ma dove son questi Frati? Voi li cercherete invano, miei cari lettori, ed appena due o tre ne vedrete aggirantisi come ombre per la Chiesa, mandati qui da altro loro Convento pel servizio di Dio. - Dove eran frati, oggi sono soldati.

 

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XXIX.

LE ACQUE MINERALI DI CASTELLAMMARE.

 

Io mi trovava nella piazzetta dell’Arsenale, ed ora guardava alla facciata di questo Stabilimento militare, grave e severa, ora a quella che gli sta dirimpetto dell’edifizio delle acque minerali svelta e leggiera, allorché ne venni distolto da un venditor di ciambelle, il quale credendo che avessi dovuto bere di quelle acque voleva che le avessi maritate nello stomaco con le loro compagne indivisibili. Lo ringraziai della offerta, e spinsi il piè verso la porta d’ingresso. Entrai, e fui salutato molto gentilmente da un uomo che era seduto ad una panca: non ci volle molto a capire perché quegli fosse colà, e però abbiate come regola generale, che quante volte vedesi sedere un uomo presso la porta di un pubblico stabilimento, voi dovete cavar fuori la borsa e pagare. Ciò compresero ancora que’ nostri antenati, che andati un bel giorno a messa a S. Pietro Martire, videro su l’ingresso di quella Chiesa una Regina, la moglie del primo Ferrante d’Aragona, la quale stava lì per le angustie di suo marito, e la povera donna fece in quel dì, come dicono gli storici, di molte e grosse monete. Oh, e che paragone è mai questo? direte voi Avete ragione, miei cari lettori, l’ho detto per dire, e questa erudizione m’è caduta dalla penna per caso, come quel pomo che cadde sulla testa di Newton. Che volete? ne dicono delle così grosse certi miei amici, che scrivono di storia e di archeologia, e non potrò io togliermi poi qualche ruzzo dal capo? Adunque io pure pagai, ma non già una bella e grossa moneta; pagai solo due quattrini, quanto richiedesi per entrare, vogliate o no bere. Come vedete

 

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bene, questo grazioso divertimento non vi costa il midollo dell’osso del ginocchio! Ed è veramente un divertimento per chi voglia stare a contemplar quella gente, la quale mastica e beve d’un fiato (perché allora l’acqua fa bene), poi cammina cammina (perché allora l’acqua fa l’effetto suo), poi sparisce d’un colpo (perché allora l’acqua ha fatto buon pro) E sono uomini e donne, vecchi e fanciulli, che rendono tutti un tributo alla miracolosa efficacia delle acque minerali. Or io vi confesso, che non avrei voluto vedere colà e in quella compagnia qualche bella e gentile giovinetta, e di questa mia stitichezza ne ho fatto un caso di coscienza con una vecchia matrona inglese mia amica, la quale nel sentire quel mio proposito, battè i denti e biascicò non so che parole: ond’è che subito mi ricorse alla mente il caustico Sterne col suo Viaggio sentimentale, e risi di buon cuore tra me stesso. Poiché ebbi dato uno sguardo al giardino (e basta uno sguardo) mi avviai verso la Fonte, dove mi si presentò subito una devota schiera di bevitori, e un’altra di coppieri, i quali han nelle mani de’ lunghi bastoni, cui son affidate certe catinelle di legno, che tuffan nell’acqua, e versando quell’acqua ne’ bicchieri vi presentano a bere: cortesia che si paga anch’essa con qualche monetina. Solo i naturali del luogo non pagano mai. Io non vorrei essere, per così poco, cittadino di Castellammare.

Voltomi in giro per osservare meglio quelle acque, che corron tutte in un rivoletto con diversi colori e con odori ingratissimi, andai leggendo le scritte che sono sopra ognuna di esse: e lessi Acqua Media, Solfureo-Ferrata, Ferrata del Pozzillo, Ferrata Nuova. Fin qui potè giungere la mia dottrina, della quale non sareste stati al certo contenti, amici lettori, ma fortunatamente per voi, vennemi a trarre dalla mia ignoranza un giovane medico di quella città, il quale dicea di avermi conosciuto e ammirato in un’accademia, nella quale eravamo stati compagni di poesia. (Il medico era poeta). Io dissi allora di ricordarmene, benché fossero tanti anni passati, e per pagarlo della stessa moneta gli testimoniai ancor io la mia ammirazione pel suo ingegno poetico. Così tutti e due dicemmo due grosse menzogne poetiche. Or volendo egli soddisfare alla mia curiosità, cominciò così la sua orazione:

Quattro sono le acque che qui vedete, ed è prima l’acqua media, la quale ha un sapore salso con un debolissimo senso d’idrogeno solforato. Essa appartiene alla classe delle saline fredde, e propriamente alle saline acidole per la quan-

 

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tità considerabile di gas acido carbonico da cui viene mineralizzata. Gode eminentemente della forza catartica e della dioretica: mi sono spiegato? quindi essa è buona a combattere le ostruzioni del fegato, della milza e delle glandole del mesentere, l’affezione calcolosa biliare, l’itterizia, l’idrope ascite, l’idrotorace, l’idropericardia, l’idropisia delle ovaie, l’emorroidi cieche, l’emenorrea, l’affezione calcolosa delle reni, l’oftalmia acuta e cronica, alcune specie di erpeti, la polisarcia ...

A quella lunga enumerazione di morbi, io mi sentia venir meno, e per rompere un po quel discorso: - E come si adopera ella quest’acqua? dimandai al mio Dottore, il quale non contento delle malattie nominate era già sulle mosse di enumerare tutti gli altri malanni pescati nel corpo umano da Galeno in poi. Oh, in quanto al modo di adoperarla da molti molto si è detto, ma eccovi il risultamento delle mie esperienze. Bisogna bere quest’acqua a stomaco digiuno, e se ne può bere, termine medio, la dose di tre libbre, coll’intervallo di un’ora da una bibita all’altra. Ci ha di quelli che ne bevono a diluvio, ed a costoro può incogliere qualche gran male. Badate bene, mio caro amico ... Io lo assicurai a non mettersi in pensiero sul conto mio, giacché sarei stato più prudente ch’ei non credeva, e il dottore continuò: In tal caso l’acqua si precipita per lo stesso suo peso, e non opera che negl’intestini, quandoché è necessario che l’acqua medicinale venga assorbita perché possa sviluppare la sua azione sugli altri organi del corpo, non che sul sangue e sugli altri umori ... Mi sono spiegato?

A maraviglia, soggiunsi io alquanto distratto. Gli organi, il sangue, il peso, gli umori ... E quale è, dottore, la gravità specifica dell’acqua media?

La sua gravità specifica paragonata a quella della acqua distillata, è come 1,004822 a 1,000000.

Da che ho studiato statistica io son divenuto fanatico per le ciffre, sicché tolto il lapis e fattomi ripetere quei numeri li segnai nel mio taccuino.

E il regime, dottore, qual è il regime da tenersi per questa cura?

Alimenti umidi ci vogliono, rispose egli, e di facile digestione, come sono le buone zuppe, le carni, l’uso moderato del pesce, allontanando l’abuso delle minestre verdi e delle frutte. Mi sono spiegato? Vino poco e leggiero; tè, caffè e liquori, niente. Nelle ore della sera si può prendere un

 

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sorbetto. E’ fa mestieri ancora di molto esercizio all’aria libera, sia di giorno che di notte, facendo uso soprattutto della moderata equitazione sull’asinello. Debbono solo preservarsi dalle ore della notte coloro i quali soffrono malattie della pelle, come a dire ...

Io qui cominciai a tremar nuovamente, e adducendo per iscusa l’ora già tarda, lo pregai caldamente a volermi rendere un favore, a darmi cioè in iscritto le notizie ch’egli sapeva e poteva sulle acque minerali di quella città.

Volentieri, dissemi egli; che non farei per servirvi? Ma di un favore voglio pregarvi ancor io, e son certo che non vorrà negarmisi dalla vostra cortesia. Sarà qualche invito di pranzo, pensai tra me stesso. Il Dottore intanto continuava così: Sono presso di me alcuni Album di certe signore russe, inglesi e tedesche mie clienti, ed avrei caro che voi ci scriveste sopra qualche versi.

A quella parola di Album mi venne un brivido peggio che al sentir nominare tanti malanni; ma mi convenne trangugiar la pillola, e dissi al Dottore che lo avrei servito. Egli si partì da me molto contento, ed io con la cera di un negoziante che avesse fatto un cattivo affare.

Il dì seguente il Dottore venne di buon’ora all’Albergo dove io dimorava, e mi consegnò nientemeno che tre Album. Io li guardai come Cesare guardò la testa di Pompeo. Si dice che piangesse: io non lo credo; ma voi dovete credere, miei cari lettori, che a quella vista io impallidii. Il Dottore mi domandò se avessi male, e poiché l’ebbi assicurato che stavo benissimo, egli cavò di tasca un foglio di carta, dicendomi esser quella la notizia che io dimandava su tutte le acque minerali di Castellammare. Lo ringraziai della sua gentilezza, e non appena fu partito mi misi a canticchiare, dando un’occhiata ora agli Album, ora alla carta: Tu non sai quel che mi costi con tutte le appoggiature e sospiri che addimanda quel canto del Bellini.

 

[p. 117]

xxx.

DELLE ACQUE E DE' BAGNI CHE SONO

IN CASTELLAMMARE DI STABIA.

 

(è questa la scrittura fornitaci dal nostro amico dottore, come dicemmo nel § passato, e che noi riporteremo a parola in questo e nel numero seguente. Se non che all'analisi delle acque di Castellammare abbiam voluto aggiungervi quella dell'acqua Nunziante da noi trascurata, e che un altro medico nostro amico ci ha procurato, per non far torto, in tanto argomento, a quell'acqua riputata anch'essa miracolosa).

 

ACQUA MEDIA.

 

Quest'acqua e le altre tre che seguono, fluiscono nello Stabilimento delle acque minerali. Esse, e precisamente la media, furono scoverte nel 1740 da Fra Tommaso Ricciardi de' Riformati di S. Francesco. Dopo di aver servito ad uso de' bagni, che sono nello stesso stabilimento, vanno ad animare un doppio molino, ed infine si scaricano nel mare pel vicolo della Cristallina. Le più accreditate analisi tanto di queste acque, quanto delle altre, furono fatte da Raimondo de Majo nel 1754, da Nicola d'Andria, dal Cavalieri, da Giuseppe Vairo e Domenico Cotugno nel 1787, ed in ultimo da' Signori Luigi Sementini, Benedetto Vulpes, e Filippo Cassola nel 1833: di questa appunto io mi giovo in questo brevissimo sunto.

 

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Analisi chimica. Secondo l'analisi del sig. Cassola in ogni libbra di acqua media si contengono:

 

Acido carbonico libero ................................. gr.  0,948

Azoto ..............................................................   0,038

Ossigeno .........................................................   0,032

Bicarbonato di soda .........................................   2,459

                   di magnesia  ..................................   1,968

                   di calce  ........................................   1,125

Solfato di soda  ................................................   6,750

            di magnesia   .........................................   2,312

Idroclorato di soda ..........................................   18,149

                  di calce ...........................................   7,561

Acido siliceo   ...................................................   1,167

Materia organica   .............................................   tracce

Allumina ed ossido di ferro   ............................    tracce

 

Proprietà fisiche. Quest'acqua è limpida, senza colore, e senza odore. La temperatura varia tra 13° a 14° R, e il suo peso specifico è di 1,00462. *

Proprietà mediche. L'acqua media è catartica e diuretica e commendata contro le ostruzioni del fegato, della milza, e delle glandole del mesentere, contro le affezioni calcolose biliari, contro l'itterizia e l'idropesia delle ovaie, le emorroidi cieche, l'amenorrea, le affezioni calcolose delle reni, le oftalmie acute e croniche, contro alcune specie di erpeti, e contro la polisarcia.

 

ACQUA SULFUREA FERRATA.

 

Analisi chimica. Dall'analisi di quest'acqua fatta dal professor Cassola, ricavasi che in ogni libbra di essa si contengono:

 

Acido carbonico libero   ...............................   gr.  5,928

Azoto ................................................................   0,106

Ossigeno  ..........................................................    0,080  

___________

* La piccola differenza tra questa quantità e l'altra da noi già riportata nel § antecedente risulta da migliori calcoli fatti dal nostro Dottore. Il Viaggiatore.

 

[p. 119]

Acido idrosolforico  .........................................   0,117

Bicarbonato di soda  ........................................   5,343

                    di calce  ........................................   2,862

                    di magnesia  ..................................   1,500

                   di ferro ..........................................   0,091

Solfato di soda  ................................................   3,093

             di magnesia  ..........................................   1,562

Idroclorato di soda   .........................................  36,901

                  di calce   .........................................   5,053

Acido siliceo   ...................................................   1,059

Tracce di allumina, di ossido di ferro, e di materia organica.

 

Proprietà fisiche. È trasparente, senza colore e di odore epatico. Segna 13° 5 e pesa 1,00462.

Proprietà mediche. Suole adoperarsi con vantaggio contro l'erpete, le scrofole, gli scirri, la leucorrea e la blenorrea.

 

ACQUA FERRATA DEL POZZILLO.

 

Analisi chimica. Giusta l'analisi dell'acqua ferrata del pozzillo, eseguita dal prof. Cassola, si ha che in ogni libbra di fluido si contengono:

 

Acido carbonico libero  ................................  gr. 7,228

Azoto ................................................................  0,050

Ossigeno  ..........................................................  0,087

Bicarbonato di soda  .........................................   6,546

                    di magnesia  ...................................   2,750

                    di calce  .........................................   1,250

                    di ferro ..........................................   0,187

Solfato di soda  ................................................   3,234

             di magnesia  ........................................   4,687

Idroclorato di soda   ........................................  16,036

                   di calce   .........................................   5,078

Acido siliceo   ...................................................   0,859

Tracce di materia organica, solfo­ idrati, idriodati, allumina e os­sido di manganese.

 

Proprietà fisiche. È limpida, senza odore, e di sapore piccante. La sua temperatura è contrassegnata da 13° 5, e il peso specifico da 1,00497.

Proprietà mediche. Quest'acqua è tonica e risolvente, ed

 

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è riconosciuta vantaggiosa nelle debolezze di stomaco, nell'amenorrea e nelle clorosi.

 

ACQUA FERRATA NUOVA.

 

Analisi chimica. Risulta dall'analisi del sig. Cassola che ogni libbra di acqua ferrata nuova contiene:

 

Acido carbonico libero  ................................  gr. 6,886

Azoto ................................................................  0,050

Ossigeno  ..........................................................  0,087

Bicarbonato di soda  .........................................   6,078

                    di magnesia  ...................................   2,750

                    di calce  .........................................   2,591

Bicarbonato di ferro ..........................................   0,029

Solfato di soda  ................................................   3,093

             di magnesia  ...........................................  2,591

Idroclorato di soda   .........................................  18,450

                   di calce   ..........................................   3,792

Acido siliceo   ....................................................   0,840

Tracce di idriodati, allumina e perossido di ferro.

 

Proprietà fisiche. Quest'acqua è al pari della ferrata del pozzillo, limpida, senza colore, senza odore, e di sapore piccante. La sua temperatura è di 13° 5, e il suo peso specifico è di 1,00462.

Proprietà mediche. Essa ha le stesse proprietà che l'acqua del pozzillo, e però serve a curare pressoché le stesse malattie.

 

[p. 121]

XXXI.

SEGUITA LO STESSO ARGOMENTO.

 

ACQUA ACETOSELLA.

 

Sorge quest'acqua nel fondaco di un tal Gioacchino Landolfo sulla strada del Cantiere nel lato verso il mare, e propriamente nel vicoletto che porta il suo nome. Si raccoglie in un pozzo, e di là per via di un acquedotto sottoposto alla strada passa in una casetta messa al lato opposto della strada stessa, e quindi sgorga in due vasche per uso del pubblico. Sul chiuso tempietto che covre la piccola vasca in cui si raccoglie, leggesi questa iscrizione:

Acquae acidulae cujus vim in plures morbos Plinius olim commendavit, nunc vero Columnio Vairoque probantibus Stabienses regis ac populi commoditati consulentes P. S. Aediculam hanc. fac. cur. A. D. 1787.

Di quest'acqua infatti parlò Plinio allorché disse: Calculosis mederi (aquam) ... in Stabiano, quae dimidia vocatur (Hist. nat. lib. 31, cap. 2). E diceasi media, perché anticamente ella scorrea fra due acque, che oggi più non avanzano.

 

Analisi chimica. Secondo il Cassola, ogni libbra di quest'acqua contiene:

 

Acido carbonico libero  ................................  gr. 1,483

Ossigeno  ..........................................................  0,081  

 

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Bicarbonato di soda  .........................................   1,750

                     di calce  .......................................   2,812

                     di magnesia  .................................   0,578

Solfato di soda  .................................................   3,093

             di magnesia  .........................................   1,203

Idroclorato di calce   ..........................................  4,075

                   di magnesia   ..................................   1,111

Acido siliceo   ...................................................   0,609

Tracce di allumina, ossido di ferro e materia organica.

 

Proprietà fisiche. È limpida, senza odore, ed ha un sapore subacido piacevole: segna 12°5 R, e pesa 1,00142.

Proprietà mediche. È stomatica, e si usa con profitto nelle affezioni calcolose dell'apparecchio orinario.

 

ACQUA DEL MURAGLIONE.

 

Uscendo da Castellammare ed entrando nella nuova strada sorrentina, a 100 passi dal termine della città, e a 47 dal mare, s'incontra una casetta sottoposta al muraglione che sostiene la strada di Pozzano, e qui appunto sgorga l'acqua che prende un tal nome, raccogliendosi in una vasca ove il pubblico l'attigne, e scaricandosi poi nel vicino mare.

Analisi chimica. Ogni libbra di quest'acqua secondo Cassola contiene:

 

Acido carbonico libero  ................................  gr. 1,814

Ossigeno  ..........................................................  0,038

Azoto ................................................................  0,177

Bicarbonato di soda  .........................................   5,937

                    di magnesia  ...................................   2,250

                    di calce  .........................................   2,812

Solfato di soda  .................................................   4,500

             di magnesia  ..........................................   1,865

Idroclorato di calce  .........................................  42,173

                   di soda   .........................................   5,51

                  di magnesia   ..................................   3,958

Acido siliceo   ...................................................  2,000

Tracce di materia organica.

 

Proprietà fisiche. Alquanto ossalina, senza odore e di sapor salso. Ha temperatura di l4° 5 R, e pesa 1,00618.

 

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Proprietà mediche. Contenendo quest'acqua in maggior proporzione gli stessi principj della media, è più efficace di quella, e si commenda con particolarità nelle vertigini, nello spasmo cinico, nell'amaurosi e nella epilessia.

 

OSSERVAZIONI.

 

Altre acque minerali sonovi oltre a queste, come l'acqua rossa, che sgorga in tre punti diversi della città, ma essendo esse tenute in minor conto delle altre, non ne farò qui particolar menzione.

La Comune dà gratuitamente a' suoi cittadini o domiciliati in essa non meno che a' militari ed impiegati in essa dimoranti qualunque di queste acque minerali, da beversi però nel loro proprio stabilimento.

Volendosi estrarre il loro prezzo è di grano 1/2 per ogni caraffa, per ogni forestiere che in qualunque quantità ne beve di grana due.

In quanto a' bagni che sono nello stesso stabilimento di acque minerali, essi ascendono al numero di 12, con una bella sala nel mezzo che serve per trattenimento de' bagnatori. Sonovi due stufe a vapore, ed ogni bagno ha la sua chiave, essendovene anche di quelle a docciatura. I prezzi sono come segue:

 

Bagni minerali semplici pei cittadini grana 20, pei forestieri 40.

Bagni minerali a docciatura, pe' cittadini grana 35, pei forestieri 70.

Stufe a vapore, pe' cittadini grana 20, pei forestieri 40.

Oltre a' bagni minerali sono alla dritta dello stabilimento entrando anche i bagni di acqua dolce al numero di 13, e il prezzo di essi è:

Pe' cittadini di grana 20, pei forestieri di grana 40.

 

Questo stabilimento de' bagni che ne forma un solo con quello delle acque minerali, è proprietà della Comune che per appalto ne ritrae la rendita di annui ducati 1350.

 

[...]

 

[p. 125]

XXXII.

FAMIGLIE NOBILI DI CASTELLAMMARE.

 

Se noi fossimo nell'Impero celeste, dove non si sa che sia nobiltà, io non vi starei ora a susurrar nelle orecchie questa parola, ma poiché siamo, la Dio mercè, nel Regno delle due Sicilie, il quale fra tutti i paesi del mondo vanta la nobilità più antica e fastosa che fosse mai, soffrite che facciavi due parole di quella di Castellammare. E prenderò a mia scorta il Capaccio, che il primo notò quelle famiglie che nella novella Stabia più erano in predicato.

D'Afflitto. Da S. Eustachio vuolsi che traesse origine questa famiglia, e vennevi da Scala.

D'Apozzo, o Del Pozzo. Venne questa famiglia da Alessandria, del Ducato di Milano, in Pimonte, piccola terra lontana due miglia da Castellammare, dove, nobilmente vivendo, acquistò moltissime onorificenze e prerogative. Familiare di Ladislao fu Carlotto Del Pozzo Giudice, il quale chiese la cittadinanza di Castellammare ed ottennela, e da lui nacque quel Paride, di cui faremo appresso parola.

Avitaja, o Avitabile. Fin da' tempi di Carlo III appariscono alcuni militi di questa famiglia, e sotto Giovanna 2.a Masello de Avitabulo dicesi familiare di quella Regina.

Castaldi. Sotto re Carlo I fiorì questa famiglia decorata dell'onor della milizia, e venne meno in Orazio Castaldi cavaliere Gerosolimitano.

Certa. Uno Stefano Certa figliuol di Marino dice il Capaccio trovarsi sotto Re Ruggiero, il quale un tempio a S. Stefano protomartire edificò. Un altro Certa apparisce, e propriamente Lorenzo, figliuol di Silvio, fondatore, con un tal Benuccio di Raffone, della Chiesa di S. Giacomo Apostolo.

Comparato. Re Roberto e Giovanna prima ebbero per loro familiari alcuni personaggi di questa famiglia, e Carluccio

 

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Comparato degli uffici del Magistrato fu insignito da Ladislao.

Coppola. Taluni di questa famiglia s'imparentarono co' Minutoli, e con altre nobilissime famiglie fin dal 1225; ma più che per parentadi e natali ella andò gloriosa per uomini di fama eccellente. Fu volgare credenza che da questa famiglia fosse uscito S. Catello.

Longobardi. Dagli stessi Longobardi vuolsi che tragga origine questa famiglia: il cognome almeno ce ne fa garanzia. Essa è certamente antica, e di un Andrea Longobardi morto nel 1334 leggesi una lapide nella Chiesa maggiore di Castellammare. A Carlo terzo un Bartolomeo Longobardi Maestro razionale della Calabria, il 1382, ne' bisogni di quel Principe, mutuò alquanto di danaro, e il Re per lettere ne lo ringraziava facendogli inoltre alcune concessioni. Nel 1419 un Galeotto Longobardi dalla Regina Giovanna per imprese operate a pro dello Stato era di molti onori decorato. Altri Longobardi ci presenta dopo questi la storia, che bene meritarono de' loro Sovrani.

Marchesi. Di questa famiglia che nobilmente esistè in Castellammare or non avanzano che alcune imprese.

Massa. Alcuni buoni giureconsulti ebbe questa famiglia, antica anch'essa, come a dire un Bartolommeo ed un Paolo Giudici Criminali nella nostra gran Curia. Con molte nobili famiglie s'imparentò e stabiane e sorrentine e napolitane, e a' tempi del Capaccio era ancor per ricchezza molto possente.

Medici. E questo casato trovasi anch'esso in Castellammare. Marinello de' Medici fu un egregio cavaliere, il quale sposò una donzella della famiglia Mormile, dal qual matrimonio ne venne quel Camillo, illustre avvocato, che nel numero de' Consiglieri fu ascritto da Filippo secondo.

Mira o De Mira. Antonella Contessa di Monteriso fu congiunta a due mariti; Petricasso Barile e Cicco di Borgo Vicario del Regno sotto Ladislao e Marchese di Pescara. Ebbe questi una figliuola per nome Giovannella, maritata alla famiglia d'Aquino e da un tal matrimonio dice l'Ammirato esser venuti i signori di Vasto e Pescara.

Montanari. Che nobile sempre fu questa famiglia lo dicono i privilegi, ch'essa godè. Fu ricca inoltre di uomini valorosi e prudenti.

Nocera. Da Francia in Nocera e da Nocera in Castellammare dicesi passata questa famiglia. Pietro Giovanni Nocera vien detto alunno e familiare di Re Alfonso I.°, e suo

 

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figlio Pietro, comandante dell'armata navale, il porto di Castellammare da' Corsari più volte difese. Rimasero in questa città i Nocera fino al 1598, tempo in cui trasferironsi in Napoli. Un Giovan Angelo ebbe pure questa famiglia cavaliere gerosolimitano, che nell'assedio di Malta fe' prove di valore.

Pandone. Antichissima e nobilissima famiglia è quella de' Pandoni per imprese operate e per ricchezze possedute. Essa imparentò con gli Aquini, i de Balzo, gli Acquaviva ed altre case illustri. Vuolsi che sia di origine Longobarda, e che il suo nome sia derivato da' Pandolfi. Sel creda chi vuole.

Ricci. Ed ecco la famiglia se non la più nobile, certo la più illustre che sia stata in Castellammare. Ma molte e gravi difficoltà costò il precisarne la patria, e fu questa fatica sostenuta con molta alacrità dal diligente Martucci. Disse già il Landino esser essi venuti da' Ricci di Firenze, e ciò asserì senza addurre alcun documento. Altri li dissero venuti da Amalfi, e tal assertiva manca anch'essa di fondamento. Più certa cosa è che i Ricci fossero napoletani, priaché Uberto Ciamberlano di Giovanna I.a passasse ad abitare in Castellammare per aver ottenuto colà molte terre in rimunerazione di servigi renduti, ed avessene quindi dimandata la cittadinanza. Derivò da costui quel Francesco, Doganiere e Regio Tesoriere così di Castellammare che di Napoli, il quale fu padre di ben cinque fortunati figliuoli, che alla famiglia Ricci aggiunsero tanto di lustro e decoro. Il primo de' quali fu quel Michele che per distinguerlo da un suo nipote, vien detto Michele il Vecchio. Fiorì costui in tempo del Re Alfonso I, e fu ben accetto a quel Sovrano, il quale lo elesse nel 1445 per uno degl'intimi suoi consiglieri, chiamandolo in un diploma: Virum Profecto omni studio, omnique doctrina refertum, et sua clara virtute, atque celeberrima fama fulgentem. Molti e luminosi uffizi di magistratura tenne il vecchio Ricci, e di più difficili missioni fu pure onorato, essendo egli stato prescelto da Re Alfonso nel 1453 a trattare con Niccolò V, e con gli oratori delle altre potenze intorno alla pace d'Italia, essendo stato più tardi spedito in Germania per assistere ad un'Assemblea che dovea trattare il modo di mover la guerra contro il Turco. Era in quella assemblea Pio II, non ancor Papa, il quale conobbe il nostro Ricci, e parlando di lui ne' suoi comentarj, fecene questo ritratto: Michael Ritius Alphonsi Regis Siciliae, et Aragonum in vituperando quam in laudando Orator vehementior. Di altre legazioni fece anche parola il Capaccio, e che noi pas-

 

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seremo sotto silenzio per non dilungarci di troppo, tacendo altresì i tanti onori ch'egli meritò dal suo sovrano non solo ma da altri principi. Pure non è possibile che ci restiam nella penna un solo, che parveci assai specioso: la concessione cioè che Federico III di Austria fece al nostro Ricci, allorché l'anno 1452 venne in Napoli con la sua sposa, di poter esso Michele, non che il suo figliuolo Pierluigi, purché fosse Dottore, legittimare i lor figli spurj. Morì il vecchio Ricci l'anno 1457, e molti degli uffici ch'ei tenea furon dal Re, in grazia de' suoi meriti, al figliuol Pierluigi conceduti, e a' suoi eredi in perpetuo, con un diploma le cui parole ben ritraggono l'animo veramente magnanimo di Alfonso.

Tocchiamo ora dell'ultimo fratello di Michele, per nome Niccolò. Fu costui ornato, secondo che dice il de Lellis, di molte lettere, e fu prode altresì nel mestier delle armi. Ebbe a moglie Muliella Correale, e fu padre di quel Michele, che sì gran nome lasciò di se per virtù d'intelletto. Di esso parleremo nel seguente paragrafo.

Rosano. Vien da Gragnano questa famiglia, ed ebbe uomini spettabili, come a dire un Andrea giurisperito (an. 1390), un Niccolò Francesco, Segretario del Re Alfonso di molta dottrina, e un Gio. Batista, amicissimo del Capaccio, che fu un valente antiquario.

Altre famiglie nobili, come a dire i Sansone, i Scafarti, gli Orsi, i Napoldi, i de Rogatis, i Sicardi, i Vaccaro, i Vergara, i Trentamolla, son nominate dal Capaccio, ma poiché di esse nulla avremmo a notare, così ci contenteremo di averle nominate. E invece accenneremo il Real Dispaccio del 1772, col quale ordinavasi che in Castellammare non fosse separazione di Nobiltà, ma una semplice distinzione di Ceto; che nelle Chiese non fossero affatto sedie, o scanni particolari, ma si permettessero solamente scannetti e sedie comuni a tutti, togliendosi finanche la privativa a' Nobili di portar le aste del Pallio nella festa del Corpus Domini ed in altre, e di poter collocare le donzelle ne' due Monasteri di quella città. Ordinavasi inoltre nel tempo stesso che si appurasser quali famiglie mantenevansi di proprie rendite (a contare dall'avo) senza esercizio di mestiere vile o meccanico, ed avean contratto decorosi parentadi, per risolversi poi quali e quante di esse doveansi aggregare al Ceto de' Nobili. Così il Marchese Tanucci si studiava di far disparire fra noi tanti privilegi odiosi che ne avea regalati la Feudalità ! ...

 

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XXXIII.

UOMINI ILLUSTRI. - MICHELE RICCI IL GIOVINE.

 

Fu Michele Ricci o Riccio, come dicemmo, figliuolo di Niccolò, e in Castellammare trasse i natali intorno al 1445. Venuto in età, ebbe a maestro Pietro Summonte, e tal giureconsulto ei riuscì che Re Ferdinando gli conferì nel 1487 la cattedra di Leggi nella Regia Università. Divenuto padrone di questo Regno Carlo ottavo di Francia, invaghitosi il Ricci del nome francese, novello Pontano, abbandonò vilmente i suoi benefattori, e di quella devozione che aveano i suoi serbata per gli Aragonesi, fecene egli un'offerta al Francese Signore, il quale invece lo nominò suo intimo consigliere, e di molte dignità ed onori lo decorò, creandolo avvocato fiscale del real patrimonio, non che maestro razionale della Regia Zecca, e investendolo per soprappiù del Contado di Cariati, e della Terra di Giugliano. Ma Carlo dovè bentosto uscire da queste contrade, cacciatone dalle armi aragonesi, e il Ricci, secondo alcuni, ne andò con lui; secondo altri, rimase in regno: e di quelli che sostennero la seconda opinione, alcuni vollero ch'ei fosse stato da crudeli persecuzioni tribolato, altri dicono che no, e che niuna molestia fossegli dal governo aragonese venuta. Così almeno il Martucci, il quale a meglio dimostrare che il Ricci non seguitò, come fecero tanti altri Baroni, Re Carlo, ne adduce per maggior argomento la sepoltura che Michele e Geronimo Ricci innalzarono a sè stessi in S. Domenico Maggiore l'anno 1500. Un altro argomento potremmo addurre anche noi: nella clemenza di animo con che gli ultimi due Aragonesi perdonarono a' loro più spietati nemici.

 

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E questa loro debolezza ingenerò novelli ingrati, novelli dissidj, novelle ambizioni, le quali richiamarono le armi straniere, ed il Francese e lo Spagnuolo furon visti come per giuoco dividersi questo regno. Spettò a Ludovico XII con altre provincie la Città di Napoli, e però al nostro Michele riuscì facile ingraziarsi il Duca di Nemours, comandante le armi francesi. Il quale avendo rappresentati al suo Monarca i meriti del Ricci, questi fu tosto creato Consigliere intimo del Re, Presidente del Sacro Regio Consiglio di S. Chiara, Luogotenente del Gran Protonotario di Napoli e Regio Senator di Milano. Né dal Sovrano soltanto ei fu rimunerato di beneficii e di onori, ma da' Principi e Nobili altresì: perocché Roberto Sanseverino Principe di Salerno donavagli la terra di Trecchiena, mentre i Cavalieri della piazza di Nido aggregavanlo immediatamente co' suoi discendenti agli onori del loro sedile. è inutile dire, che fautori costoro del novello reggimento francese, volevano così amicarsi chi da un'aura di Fortuna era in quel tempo sorriso! - Ma questo sereno di cielo dovea bentosto turbarsi pel nostro Ricci. Venuti a contese fra loro i due rapaci conquistatori pel partaggio della Capitanata, si volle tener parlamento per derimere ogni quistione: e 'l parlamento fu tenuto in Barletta, presente il Ricci, il quale propose che finché la contesa non fosse stata risoluta da' due Sovrani le Terre della Capitanata fossero salutate dall'una e dall'altra bandiera, dalla francese cioè e dalla spagnuola: debole ed anzi imprudente consiglio, perocché in tanta effervescenza di passioni quel matrimonio di drappelli dispetto e gelosie, e non pace e concordia dovea ingenerare. Tal fu di fatti, e i due eserciti vennero nuovamente alle mani. Né solo con l'armi combatteasi in quella stagione di tempo, ma altresì con la penna. Dall'una parte e dall'altra furono pubblicate alcune scritture in forma di allegazioni per chiarirsi il dritto di ognuno, non altrimenti che se innanzi ai tribunali fosse la lite. Autore per parte dei Francesi di alcune di queste scritture fu il Ricci, il quale si lasciò troppo vincere dallo zelo della sua difesa (peccato comunissimo in che caddero sempre i nostri curiali), e però fu accusato di arroganza. Se ne lagnava fortemente il Surita: Todo esto se procurao por el Gran Capitan quanto se pudieron tolerar las sobras de gente tam presuntuosa et insolente. Così alcune innocenti parole offendevano lo schivo animo di un Consalvo da Cordova! Ma la fortuna delle armi finalmente arrise al Gran Capitano, e signore di queste contrade rimase Ferdinando il Cattolico.

 

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I Francesi usciron dal Regno, e con esso loro ne andò pure l'ambizioso Ricci, il quale abbandonò e patria e moglie e figliuoli per abbracciar quella larva di potenza alla quale egli solo agognava. Né è a credersi che l'aver servito a' Francesi rendesselo odioso agli Spagnuoli, perocché questi, secondo ne assicura il suo stesso Biografo de Lellis, fecero invito di rimanere a tutti coloro qui sub Ludovico regnum moderabant. Il Ricci adunque partì per Francia, e venuto al cospetto di Ludovico non è a dire di quai piacevoli accoglienze quel Sovrano fossegli stato generoso, e quanta stima gli dimostrasse con parole e co' fatti. Imperocché il creò tosto Consigliere del suo supremo Consiglio di Parigi, e della Curia del Gran Parlamento di Borgogna; e poiché in quel tempo appunto era stato eretto in Aix l'altro supremo parlamento del Regno, dell'ufficio di primo presidente di quel Parlamento fu anche il Ricci investito. Salito quindi al soglio pontificio Papa Giulio II, spedì Ludovico presso di quello il Ricci per complimentarlo, e perché mossa nuovamente avesse la quistione de' suoi diritti sopra una metà del Regno di Napoli. E l'una volta e l'altra due orazioni latine lesse il novello Ambasciatore, per le quali fu ammirato da tutta Roma il suo ingegno, e il suo elegante sermone: ma se la vanità dell'autore fu soddisfatta, quella del diplomatico fece cattiva prova, giacché col suo buon latino il Ricci non ne cavò niente di bene per gl'interessi del suo padrone. E veramente io non so se un buon periodo o una buona arringa avesse mai fruttato a uno Stato o ad una Repubblica !... Così tra i negozi vivendo, o meglio tra gli ozi della diplomazia, il Ricci volsesi agli antichi suoi studi, incuorato altresì dagli applausi ricevuti, e messosi a compor storie, scrisse allora de Regibus Hispaniae, Hierusalem, Galliae, Utriusque Siciliae et Ungariae Historia. Opera fu questa salutata con maggiori lodi che non meritasse, perocché se il Ricci fa mostra in essa di elegante scrittore, non così mostrasi sapiente e giudizioso narratore. Bene il Rogadei la giudicò, comeché troppo aspro ed ardito ei si paresse per quelle sue parole di critica contra un'opinione fatta ormai gigante da una cieca obbedienza all'autorità altrui. Pure io non vorrò tacere, che se molto merito storico manca in quelle pagine, non essendovi in esse nulla di nuovo e di acuto, non per questo quel lavoro non va letto e consultato, per lo stile terso ed elegante ond'è scritto, e per alcune notizie che non riuscirebbe altrove incontrare. Ma lasciamo ormai lo scrittore e torniamo al diplomatico, il quale dopo tre anni di inutile dimora in Ro-

 

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ma fu spedito da Re Ludovico prima in Genova (1506), quindi in Firenze (1508) per trattare alcune faccende politiche, e di queste sue legazioni parlaron con lode parecchi scrittori del tempo, fra quali è il Guicciardini, il quale lo addita con l'aggiunto di Fuoruscito: parola che increbbe al Martucci, il quale dal perché la famiglia del Ricci non ebbe a patire persecuzione alcuna dal governo spagnuolo malamente vorrebbe indurne che non si conveniva ad esso un tal titolo.

Disbrigatosi da' suoi uffizi, ritornò finalmente il Ricci a Parigi, e tanto il Re ebbe cari i servigi rendutigli, tanta stima egli pose nel suo ingegno, che lo nominò Maestro delle inchieste, val dire Segretario di Stato, e Presidente del Parlamento di Parigi. Né stava già la sua potenza negli uffici: altra erane e maggiore che venivagli dall'affetto del Sovrano del cui animo egli erasi renduto quasi che l'arbitro, sì che gli affari di gran momento venivan ormai regolati dall'Avvocato Napoletano, secondo ch'era comunemente appellato. E l'Avvocato Napoletano sarebbe senz'altro pervenuto ad esser il Ministro della Corona, se la morte non veniva a troncare nel bel mezzo i suoi ambiziosi disegni togliendo dal mondo Re Ludovico. Non passò guari tempo, ed egli il seguì nel sepolcro, non senza sospetto di propinato veleno: ché certo a' Francesi dovea increscere ormai l'esorbitante potenza cui era pervenuto il sagace Napoletano. Il quale diè saggio ed in Francia di quell'accorta e sapiente politica, che un dì era vanto degl'Italiani.

Se una trista morte fece l'uomo di Stato, altra e più funesta toccò per avventura alla sventurata sua moglie, la quale fu una Mariella Carbone. Trovandosi ella, per curar la salute, a' bagni di Pozzuolo, da un'orda di Corsari fu sorpresa la misera donna e barbaramente trucidata. Dissero gli storici, che più della vita ella avesse avuto caro l'onore.

Morto che fu il Ricci nel 1515, l'anno medesimo su figlio Gio: Sebastiano innalzavagli una lapide sepolcrale così concepita:

Michaeli Riccio Civilis Pontificiique Juris Consultissimo in Italia et Gallia amplissimis honoribus functo Sebastianus Patri B. M. Anno MDXV.

Chi vuol osservare quest'ultimo avanzo della gloria di un uomo vada in S. Domenico Maggiore.

 

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XXXIV.

ANCORA GLI UOMINI ILLUSTRI, ED ALTRE COSE.

 

La possanza di governo cui era salito Michele Ricci, ci chiama a parlare di un altro cui non fu meno avara la fortuna, ma a cui parve men bella la gloria del comando, che quella dell'ingegno. Fu questi Paride del Pozzo intorno alla cui patria eransi mossi tanti dubbi, dicendolo chi nativo di Pimonte, chi di Napoli, e chi di Alessandria. Ma il Martucci si affaticò non poco per tal quistione, e pare che ne uscisse vittorioso mostrandolo nato in Castellammare. Del resto, ovunque 'ei nato si fosse, certo è che di grande onore egli fu a questa patria comune, dico all'Italia. E le principali università italiane ei visitò, dove apparò giurisprudenza, nella qual facoltà, più che in ogni altra, fu egli eccellente. Ond'è che Alfonso d'Aragona lo prescelse a precettore di Ferdinando suo figlio, Duca di Calabria, essendo stato già innanzi eletto a Consigliere di S. Chiara. Partitosi di Napoli quel Sovrano per la spedizion di Toscana, fu Paride da lui creato suo uditor generale dell'intero Regno, il qual ufficio egli tenne per ben due anni con sommo plauso ed onore. Altri uffici cospicui egli ebbe dappoi, ma non per questo si ritenne dal patrocinar cause, e dal leggere nell'Università fino all'età sua più avanzata: e grandi ricchezze gli procurò il foro, che egli lasciò all'unico figliuolo che diedegli la nobil donna Nardella Galeota. Parecchie opere di giurisprudenza pose il nostro Paride a stampa, nelle quali a molta sapienza filosofica, secondo la ragione de' tempi, accoppiasi pure molta dottrina storica: ma quella che diedegli maggior nome fu l'opera intitolata: - Duello, libro de' Re, Imperatori, Principi, Signori, Gentil'huomini, e di tutti armigeri, continente disfide, concordie, paci, casi, ac-

 

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cidenti et judicii con ragioni, exempli, et autoritate de' Poeti, Historiographi, Philosophi, Legisti, Canonisti, et Ecclesiastici: opera degnissima ed utilissima ad tutti gli spiriti gentili. Ebbe quest'opera molto grido a quei tempi, comeché Gio. Battista Lusio ne oppugnasse acremente i principj nel suo libro intitolato: Dell'ingiustizia del duello, e di coloro che lo permettono. Non potendo noi dar giudizio né dell'una né dell'altra scrittura, ci basterà averle almen ricordate. Visse lungamente il nostro Paride, e l'anno più certo della sua morte è il 1493.

Di molti altri uomini illustri per uffici e dignità nati in Castellammare noi potremmo ragionare, ma non è questo né il tempo né il luogo. Pure dal lungo catalogo che ne dà il Parisi, noi possiam trarre questa conseguenza che se gli studi in divinità e in giurisprudenza facilmente si svilupparono in questa città, le altre discipline non ebbero che pochissimi cultori. Se io dovessi indicar la cagione di questo fatto, senza troppo scervellarmi, direi che il favore onde godeano le principali famiglie di questa città appresso la Corte facea sì che a quegli studi soltanto si dedicassero, che più di onori avessero partorito. Ed ecco come qui non abbiamo che Vescovi e Magistrati, e questi stessi non vengono che da nobili famiglie. E che ne fu delle altre scienze? che delle lettere e delle arti? Poco o nulla esse diedero di nobile e di spontaneo, e solo nel secolo passato potremmo contare un Cav. Giuseppe Boniti *, pittore di qualche merito, un Gaetano Martucci, che abbiamo spesse volte nominato, il quale fu dotto in medicina non meno che in filologia, e a' tempi nostri un Policarpo Ponticelli, ingegnere di molto valore, ed architetto di nome. Or quella povertà di ingegni e di studi che avemmo in questa città per lo passato è da temere anche per l'avvenire, giacché se ella è sorrisa da ogni buon Dio, non così Minerva ed Apollo vi stanno a lor agio. La smania dei

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* Fu il Boniti discepolo del Solimena, ma più corretto del suo maestro, se di minor fantasia. Non sapendo egli come farsi conoscere espose modestamente per tre anni consecutivi, nell'ottavario del Corpus Domini, alcuni dipinti che richiamarono l'attenzione del pubblico, e così il Boniti venne in fama di buon pittore. Gli allogò Carlo III alcune opere nel Real Palagio di Portici, e nella Cappella Reale di Caserta, ch'egli eseguì con general soddisfazione, e con quel gusto che poteasi maggiore in un'età di corruzione per le arti belle. Nato il 1696, morì il 1780.

 

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traffichi e de' commerci oggidì fa di questa gente non altro che negozianti e speculatori, come il favor della Corte facevali un giorno correre agli uffici ed alle dignità. Io non vorrò già prendermi di sdegno per questa smania di mercatare: lasciamo che il secolo vada a suo verso: invece mi arrovello pensando che nemmeno in questo siamo abbastanza provetti, onde è che tu vedi uomini a' quali tolta la materialità dell'operare null'altro presentano di acuto e sagace; tu vedi uomini i quali nelle ordinarie contrattazioni spesso son vittime dello straniero per la lor bonomia, e talvolta ancora per la lor diffidenza. E non potrebbonsi qui stabilire delle scuole di commercio, secondo che sono stabilite in Inghilterra ed in Francia, con tutti que' metodi ed insegnamenti che son necessari alla onesta mercatura? Sarebbe questo un giusto desiderio e non avventato in un tempo di pazzi progetti, che noi speriamo veder effettuato.

Ed ecco un altro desiderio, il quale appartiene meno a noi che a tutti i buoni cittadini di Castellammare: di veder sorgere cioè in questa città una scuola nautica, che nel mestiere del navigare per pratica non solo ma anche per teoriche addestrasse questo rozzo marinaio. Il quale ha voce di poco esperto, per quanto il suo emulo sorrentino ha vanto di giudizioso. E pure sono gli stessi uomini: poca distanza li divide. Ma un'antica tradizione ed una moderna educazione assai fruttò di bene a costoro, mentre che a quei di Castellammare e l'una e l'altra mancò. Ed io son certo che dove questa scuola sorgesse, il marinaio di Castellammare vincerebbe ogn'altro sull'onde; perocché non v'ha uomo più ardito ed arrischiato di lui. Se oggidì questo suo ardire gli costa spesso la vita, egli è a sperare che tal non sarà di lui per l'avvenire. Pur tuttavia io potrei contare altresì di molti e fortunati successi. A tutti è noto Catello Filosa, altrimenti detto il Gran Mogol. Nato di basso stato egli venne su pe' capricci della fortuna, giacché il povero marinaio dopo alquanti anni di viaggio tornava tra noi ricchissimo e decorato del grado di colonnello portoghese e di generale delle guardie del Gran Mogol, con infiniti altri onori... Ma facciamo nuovamente ritorno alla coltura di questa città. Ella ha alcune scuole comunali, che son governate al pari di tutte le altre; ha una scuola di musica dalla quale si ritraggono mediocri frutti; ha un Seminario, il quale contiene intorno a sessanta alunni, che sono educati e istruiti con tutte quelle regole e metodi, che furono ab antico. Pure la loro istruzione ed educazione non è da

 

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meno di quelle che son necessarie ad un prete, giacché difficilmente avviene che tolgasi, uscendo di un Seminario, altra strada che questa. Sicché per il resto della popolazione qui non sono Istituti letterarii o scientifici, e poiché quel Comune, intesane la necessità, li ha dimandati, è bene sperare che questo suo desiderio sia anch'esso esaudito.

Se il commercio rende gli uomini poco gentili ed educati, non avviene lo stesso in Castellammare, i cui abitanti conservano ancora ne' loro costumi una certa tradizione della loro cavalleria. Tali almeno io li ho sempre incontrati. E forse ciò debbono pure al conversar ch'essi fanno per più mesi dell'anno con gente di eletta condizione, che qui viene a respirare, a mangiare e dormire. Sono con costoro questi naturali più che affabili ed officiosi. Alcuni anni fa essi vollero pure, per meglio festeggiare questi oziosi abitanti estivi, stabilire una casa per Società o Ballo, secondo che vuole la presente civiltà, e la casa fu aperta; ma quella istituzione non durò lungamente perché gli uomini debbono esser fatti per certe istituzioni, e non già queste per quelli: quindi la casa fu chiusa. Mi ricordo che io in un giornale di buona memoria (Il Giornale di Commercio) ne scrissi alcune parole, e ne trassi non so che augurj. Fui un cattivo Profeta ! ...

 

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XXXV.

MISCELLANEA.

 

Mentre io credeva aver compito la mia descrizione di Castellammare (e doveva esser così, giacché gli uomini illustri ordinariamente sono l'ultima cosa di un paese), mi accorgo ora che non ancora ne son venuto a capo, e che molte notizie restano ancora segnate nel mio taccuino, e sono queste le cose più disparate che, non avendo potuto convenientemente ordinarle, mi converrà notare alla rinfusa. Per la qual cosa coloro i quali amano il metodo scientifico, perdonino questa volta alla mia negligenza, e sian certi che per l'avvenire procurerò di esser più accurato.

Acque dolci. Fra i pregi maggiori che vanta Castellammare è l'abbondanza e bontà delle acque dolci. Fin da' tempi di Columella essa andava superba di un tal pregio: Fontibus et Stabiae celebres.

Aria. Dell'aria sarebbe inutile a dire, sapendosi da ognuno che qui viensi a ricuperare la sanità del corpo e dell'animo; pur tuttavia vogliam ricordare che Seneca e Plinio la commendarono, e Galeno più particolarmente ne parlò, mostrando come la città fosse da certi venti difesa e da altri ricreata; come il Vesuvio contribuisse anch'esso a render asciutta quest'aria. E pure vi fu chi la disse umida e da fuggirsi. Dalla quale accusa cercò difenderla affatto il Milante. Meglio disse il Capaccio che «se delle vicinanze del Monte (Auro) alquanto di umidità ne viene alla città comunicato, tale e tanta è la clemenza del cielo, tanta la benignità dell'aura marina, che niente arreca di danno alla salute » (Historia Neapolitana).

Popolazione. La popolazione di Castellammare è di circa 20 mila anime. Essa accrescesi ne' mesi di està per l'affluenza de' nazionali e de' forestieri di circa altre seimila persone: ma un tal numero va sempre più scemando, e quest'anno è riuscito assai scarso.

 

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Alberghi. Di buoni Alberghi è provveduto Castellammare, e più di ogni altro raccomandansi l'Albergo imperiale, il Grande Albergo reale, l'Albergo di Russia, l'Albergo della Gran Bretagna, e l'Albergo dell'Antica Stabia. Le loro pretensioni sono a seconda delle stagioni e delle richieste: cosicché qui si vive o a buon mercato o troppo caro.

Porto. Bello e capace di navi di alto bordo e da guerra è questo porto. Esso vien visitato dall'Inglese, dal Francese, dall'Austriaco, dallo Spagnuolo, dall'Olandese, dal Genovese, dal Toscano, ed ogni anno vi approdano circa 1600 bastimenti che uniti insieme ti danno oltre le 100,000 tonnellate.

Commercio. Si estrae da Castellammare cotone, legname di castagno, di cerro e di faggio, tessuti di cotone, granone, legname da ardere, robbia, grano, paste, cuoi, pelli lavorate ed altri prodotti. L'immissione consiste in carbon fossile, grano per depositi, zucchero, tè, caffè, riso, legname di pino e di abete per costruzione, formaggio, olio, pesce salato, tessuti in seta ed in lana, teleria, lana grezza, vini diversi, fichi secchi, carrubbe, cuoi e pelli diverse, pece, catrame, acqua di ragia, cenere di soda, ec. ec. - Un tal commercio verrà ad aumentarsi tosto che l'altro porto sarà compito che dovrà contenere bastimenti da guerra, e lascerà libero l'antico alla navigazione mercantile.

Stabilimenti di beneficenza. Una città che ebbe così potenti e illustri famiglie dovrebbe avere senz'altro molti Stabilimenti di Beneficenza. E pure per Castellammare non è così, e que' pochi che sono non contano né pure una lunga età. Il Conservatorio di S. Anna raccoglie donzelle orfane in numero di sessanta, ed è mantenuto dalle rendite della pubblica beneficenza. Lo Spedale Militare di S. Croce raccoglie tutti i militari del Distretto, ed è capace di contenere intorno a 150 infermi. Uno spedale civile è poi quello di S. Leonardo il quale ha un assegnamento di ducati 960 sulle rendite della pubblica beneficenza ed è diretto da un deputato.

Industrie. Di molte industrie è ricco Castellammare, ed esse vanno di anno in anno accrescendosi e migliorando. Tali sono per esempio i suoi tessuti di cotone, o di lana e cotone, che vengon fuori con molta economia di prezzo da tanti lavoratorj particolari. Una fabbrica ben ordinata è poi quella del sig. De Rosa, dalla quale produconsi varie specie di telerie. V'ha pure, oltre a queste, una fabbrica di candele di sego, e un'atra di nitrato di potassa, alcune di sapone, e molte di

 

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maccheroni. Ma è tempo ormai di parlare delle fabbriche di cuoi e pelli, che son feraci di grosse entrate. È prima quella dei signori Bonnet, Jammy e Compagni, posta all'ingresso della città, e che impiega intorno a cento persone tutte cittadine. Vien dopo quella de' sigg. Restoin e Compagni, e vi lavorano intorno a cinquanta persone. Seguono a queste le due Fabbriche di pelli all'uso di Francia stabilite da' signori Amato e Contento, e grazie a Dio sentiamo due cognomi italiani, anzi, se volete sapere di più, l'uno e l'altro son cittadini di Castellammare. Ed ecco pure un altro bel cognome di persona che è tutta intenta in questa città, comeché non ne sia nativa, al miglioramento dell'agricoltura e dell'industrie: voglio dire il cavalier Boccapianola. Devesi a lui per molte esperienze fatte il perfezionamento della seta, e già quella di Quisisana molto si raccomanda nel commercio. Stabilì egli ancora nella Villa Donica una buona fabbrica di organzino, ma ella non è più in atto per la mal ferma salute del suo signore. Però è da sperare che bene e lungamente viva questo egregio cavaliere, il quale disgraziatamente fra noi ha pochi imitatori.

Camposanto. In parlando de' pubblici edifizi avevam dimenticato il novello Camposanto. Or eccoci pronti a correggere il nostro fallo, ricavandone il giudizio dall'opera del sig. Parisi, il quale dice così: «Sul disegno e progetto del nostro concittadino sig. Policarpo Ponticelli Generale Ispettore del Real Corpo di Ponti e Strade era desso nel 1822 eseguito, ed un piano occupa di quattro delle nostre moggia quadrato, ornato di fiori di piangenti salici e di funebri cipressi, e chiuso da un continuato muro nel di cui centro sta la sua chiesa situata. Pesante forse ne diresti l'architettura di questa, ma convenevole molto alla lugubre mestizia del luogo, che un greco tempio esprime rotondo e dal tempo sotterrato: imagine viva dell'insulto del tempo e della eterna mutazione delle cose».

Mercato. Abbondanti di ogni ragione di merci sono i mercati, che tengonsi in Castellammare il lunedì, mercoldì e venerdì di ogni settimana. Dalle coste di Sorrento e di Amalfi, dalla provincia di Principato citeriore, non che dai Paesi limitrofi vengono a vendersi tutte quelle cose che più bisognano agli usi della vita.

Feste religiose. Molte sono le feste che si celebrano in Castellammare e alle quali accorrono molte genti de' paesi vicini. È prima fra tutte la festa di S. Catello, protettore della città, che ricade la seconda domenica di Maggio. Vengon dopo quella della Madonna di Pozzano, della Libera,

 

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della Sanità, del Buon Consiglio, di S. Luigi e della Immacolata Concezione.

Amministrazione. Castellammare è capo‑luogo di distretto, e però residenza del Sottintendente, il quale ha sotto di se 15 comuni, cioè, Castellammare, Torre Annunziata, Bosco Reale, Bosco Trecase, Poggio Marino, Ottajano, Gragnano, Lettere, Casola, Pimonte, Vico Equense, Sorrento, Piano e Meta, Massa Lubrense, Capri e Anacapri. - In Castellammare inoltre vi è un Vescovo, e la sua Chiesa è suffraganea dell'Arcivescovado di Sorrento. Questa Diocesi comprende Castellammare, Gragnano, Casola, Lettere e Pimonte. Ha un Vicario, 15 Canonici, 7 Parrochi, il Preposito del Clero, ed altre dignità. Finalmente vi è un Porto e Dogana di 1.a Classe, un Arsenale militare, ed è Piazza d'Arme di 3.a Classe: quindi son in essa città tutte quelle autorità, che a tali uffici si convengono.

Agricoltura. La qualità del suolo in Castellammare è di natura argillosa mista a sabbia vulcanica. In alcuni luoghi è più o meno grassa, ed è atta generalmente a qualunque coltivazione de' nostri prodotti. Sono molto in pregio le sue frutte e specialmente le pere, le pesche, le susine, le uve, i fichi e i cocomeri. Rendono queste terre, libere da ogni spesa di coltura, da 12 a 40 ducati annui per ogni moggio.

Pesca. Castellammare dà pesce di buon sapore, il quale ordinariamente trasportasi in Napoli e ne' luoghi vicini. Le acciughe, il merluzzo, il cefalo, le seppie, i polipi, i granchi sono i pesci più comuni che dona quel mare. Anche il Sarno dà i suoi prodotti in anguille, trote, tinghe, gamberi ec.

Pastorizia. I vicini monti, e specialmente quel di Faito, rivestiti di abbondanti pascoli, danno a Castellammare buon latte, e fin da' tempi di Galeno se ne prescriveva agli infermi la cura: onde Simmaco ebbe a dire, che desideravasi andare a Stabia per discacciare gli avanzi di lunga infermità col latte degli armenti. Buoni e abbondanti qui sono pure i latticini. Si dimandano le sue giuncate, e si mangiano con piacere le sue ricotte, quante volte però sieno ben lavorate.

Ciambelle (gallette) e Barchiglie. Ed ecco un altro prodotto che sollecita il gusto di chi spende pochi giorni di vita allegra in Castellammare: sicché io non posso fare a meno di raccomandarle con le altre cose, e di augurare nel tempo stesso buona digestione a' miei lettori.

 

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XXXVI.

GRAGNANO.

 

Avete udito mai dire che quando si va per distruggere si crea, e che invece di abbattere si edifica? E pure l'archeologia vorrebbe sostenere tal paradosso; e si travaglia in razzolar fra il museo e la muffa per attribuire a Gragnano almeno un illustre natale, pretendendo che avesse avuto la prima pietra e il nome da Granio, luogotenente di Silla, quando venne a combattere la lega degl'Italiani in quella gloriosa guerra, che fecero per francarsi dal giogo della superba Roma, ottant'anni prima di N. S.! Il Pansa nella sua storia d'Amalfi dice ciò in quel luogo che va toccando de' dintorni al di qua e lungo la Costa. Ma noi che la intendiam più sottilmente, e non ci curiamo dell'aristocrazia de' villaggi, abbiam colta l'etimologia del nostro paese nello stemma di esso Gragnano uno stemma? Certamente, e non quello del torchio, della botte e delle fiscelle, d'onde oggi trae la sua splendida fama.

Si vuol porre la nascita di Gragnano a' 20 di agosto dell'anno 79, che il Vesuvio vomitò fuoco e fiamme, sassi e lapilli; conciossiaché quando le alluvioni, o le lave vulcaniche irrompono nella pianura, naturalmente si ripara su le colline. Laonde non ci ha ad esser dubbio al mondo che que' di Stabia, visto il mal giuoco di Ercolano e di Pompei, e spaventati delle patrie rovine, si arrampicarono su per le erte, ponendovi il nido. L'abbondanza del luogo, e specialmente il favor del grano, allettò i raminghi, sì che fondarono un villaggio non lungi dalla diserta patria, ed inaugurando due bionde spighe ed un tempio a Cecere, quello addimandaron Granianus, d'onde il nome moderno. V'ha pure chi crede che

 

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Gragnano sia una sconciatura di Gaurano, nome del monte alle cui falde il paese è posto. Gauranum infatti il troviamo notato presso antichi scrittori. E su di ciò vedi, se ti piace, Ambrogio Nolano e Marino Freccia.

Se la storia tace de' fatti de' Gragnanesi, alcuni avanzi di fabbriche additano un'antica civiltà, volta non è guari in barbarie. La rustica facciata della chiesa del Carmine serba tuttora l'aurea semplicità delle caste forme del quattrocento. Se il ricco e numeroso ordine de' negozianti, che a sue spese intende a riaprirla al pubblico culto, sapesse, come sa far fortuna, scegliere per i restauri un dotto architetto, farebbe un'opera da tornargli in grandissimo onore. Ma non elegga colui che del suo mal gusto fece pruova nel frontespizio del Corpo di Cristo, altra chiesa pregevole per la sua ampiezza, per le sue porte di noce intagliate al cinquecento, per un dipinto di Marco da Pino, e per un quadro figurante il purgatorio, in cui vedemmo una bolgia disegnata e colorita col pensiero di Dante.

Ancor chiesa antica era s. Leone, che ha dato nome al rione di Santo Leo: oggi è rifatta a stucchi; ma pur si ammirano le armoniche proporzioni della nave a volta. In essa voglionsi ancor notare, come bella ed onorevole specialità, i quattro piè dritti su cui poggia la cupola; i quali anzi che esser composti da un mucchio di colonne o pilastri, che d'ordinario fanno un affastellamento di angoli rientranti e sporgenti, specialmente sul cornicione, di cui interrompono sconciamente le linee, son decorati in vece da un solo pilastro angolare corintio sostenente il peduccio, sicché mentre ti dà idea di solidità non incerta, ti sorprende per la sua bella semplicità. Altra chiesa di merito non minore è, almen per l'eleganza, la Congregazione del Ss. Rosario. Chiesuola più vaga ed ornata non v'ha per questi dintorni: l'altare, di scelti marmi saputamente commessi, è di corretto stile, e Giacinto Diana vi dipinse al 1805 nove quadri, tra' quali ce ne ha alcuni che per ragion di composizione, naturalezza di atteggiamenti e temperanza di colorito paion superiori alla sua età.

Non son questi i soli vanti d'arte che onorano Gragnano. All'angolo dell'Incoronata puoi vedere un bassorilievo a figura poco men che terzina, il qual reca l'effigie di s. Leonardo, ed è opera del 1515, cioè di quel beato secolo, che lo scalpello era tuttora semplice e devoto, e non frenetico capriccioso ed insignificante come dopo poco più d'un secolo divenne. A Santo Leo, a destra della strada, poc'oltre un cancello

 

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di ferro bellamente disegnato dall'arch. Montella, è un palagio del 1589, nel quale puoi affisarti alle cornici delle finestre, e vagheggiandone la gentilezza delle linee, nota il risalto che a guisa di cuscinetto corre in mezzo per la lunghezza di esse in quel modo che Michelangiolo prese a farne disegno la prima volta. Quanto bello ed ornato non doveva sorgere quell'altro palazzo presso il ponte della Conceria! Le cornici del primo e del secondo ordine paion quelle che avrai vedute a Roma sull'ultimo ordine del Colosseo, quelle stesse di cui sì leggiadramente fece uso il Bramante. Voleasi questo picciolo edifizio serbare con religioso amore dell'arte e della storia di essa. Un mercatante ora il va diroccando per trasformarlo in lavoratorio di paste !

Ma non era ciò a cui il paese dovea raccomandare il suo nome. I titoli onde Gragnano ha saputo acquistar celebrità sono incontrastabilmente il vino, le ricotte, e i maccheroni. - Ci fu un tempo che il vin di questa contrada per antonomasia dette il nome a tutt'i nostri vini, sicché bastava dir Gragnano per intendere un vin fragrante, limpido e abboccato, come qui dicono il dolce, e dolce di posto, per dinotar che la dolcezza vien dal vitigno e non artificiosamente. Invero il vino di Gragnano si dee grandemente pregiare, perché è di color granato, chiaro, odoroso, e te ne puoi bere due bocce senza però n'abbi a tornare a casa cotto come monna. Non ci ha cantina in Napoli dove non trovisi Gragnano, ovvero di un vino di tal nome, perché essendone universali le richieste, e non bastando quello che si spreme nel paese, ne battezzano col lambiccato d'ogni vigneto, e si vende a grana quattro la caraffa. Le ricotte son pure vanto antico. Io per altro non ne potrei dire il gran bene; perciocché in realtà il sapor di esse, e quella loro dura tenerezza, senza accusarmi di contraddizione, le fa rassomigliare piuttosto a giuncate, e ci farei scommessa d'un occhio, che elle son lavorate a freddo, e che il latte è quagliato mercè il presame. Ciò nondimeno i Napolitani ne son ghiotti, facendone gran conto: il che torna ad encomio loro, perché non essendo mai stati pastorelli d'Arcadia, non conoscono precisamente le qualità delle vere ricotte. I maccheroni ... Oh! trattandosi della vivanda del paese, fa mestieri d'un periodo da capo, notando in prima ciò che se ne ha per le storie.

Sia tal nome provvenuto da macaria o macar, voci greche che significano polenta e beato, sia da macco che altravolta dinotava in Toscana polenta assodata di farina di casta-

 

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gne, o di fave rotte al frantoio, i nostri maccheroni non han data istorica che dal 1509, quando tra alcuni capitoli e privilegi dell'Eccellentissimo Corpo della città di Napoli van mentovati i maccaroncini, i trii e i vermicelli. Il sig. Tommaso Semmola, che rabberciò una cronichetta di questa cittadina vivanda, argutamente sospetta che i nostri avi latini avessero avuto ne' pastilli di Orazio, Apuleio e Varrone qualche cibo che fosse stato il precursore de' teneri figliuoli della trafila.

Or vi dirò che cosa sia la trafila. I maccheroni son di varie sorte. Altri si lavorano a mano, altri col torchio. I primi da' monaci son detti strangolapreti, e da' preti son domandati strangolamonici: chi non ha chierca si contenta chiamarli maccheroni di casa, benché altra volta li dicesse trii e triilli, quasi tres digitilli, perché piccioli pezzetti di pasta incavati con le tre dita di mezzo della mano. Questi certamente sono i veritables macherons de' Napolitani. I secondi van suddivisi in molte maniere, ed escon fuori da una cazza forata per opera di compressione. Il torchio che fa tal lavoro da noi è nominato trafila ed ingegno, ed oggidì n'è molto perfezionata la costruzione, così che Nicola Fenizio, ch'è celeberrimo intraprenditore, ha fatto nella sua fabbrica quattro torchi idraulici, che lavorano a maraviglia. Ma, comunque e' sia, giustizia vuole che qui debbasi dar nome di primo maccaronaro al Tojo, il quale ha condotto la sua manifattura alla maggior perfezione, essendo liscia, lucente, di colore appena dorè, sapida e callosetta. Or da' fori della trafila son partoriti i maccheroni: alcuni nella loro lunghezza non hanno pertugio, e son questi le lasagne, le fettucce, i tagliarelli, i vermicelli, gli spaghetti, i fedelini e le nocche: altri hanno il buco, e sono i maccheroni di zita, i mezzani e i maccaroncelli, tutti pregevolissima roba che vuol esser fatta a tre quarti di cottura, e condita con la salsa dello stracotto de' toscani, stufatino de' romagnuoli e stufato (non ragù) de' napolitani; il quale è difficile assai a cuocersi, e i forestieri non sanno farlo un fico.

 

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XXXVII.

LA VALLE, CAPRILE E CASTELLO.

 

Chi dal capo meridionale del ponte alla Conceria verrà per facili chine giù in un letto che i terremoti da tempi immemorabili han cavato a un torrente invernale nel subappennino di Lettere e di Pimonte, sappia che egli è disceso nella celebre Valle, dispensiera di nominanza e bei quattrini a' nostri più riputati pittori paesisti. Si direbbe che la più bella fama di Fergola, di Smargiassi e di Palizzi sia inchiodata là sui massi, e vegeti su le piante e le acque della Valle di Gragnano.

Da quel punto nominato sino a Castello vi ha un bel due miglia in erta. A un terzo del cammino guarda a stanca sull'altura e vedrai l'aereo Caprile. È Caprile un paesellino di qualche centinaio d'uomini, a cui non manca un parroco; tutta gente marrana, il cui valore sta nel badile e nel ronchetto, ed il sostegno della vita nel trappeto e nel cellaio; hanno specialmente grandissimo pregio, perché le loro casipole fanno bellissimo effetto di prospettiva poggiando a cavaliere della pittorica valle. Castello è poi tutt'altra cosa; si potrebbe qualificare per un paese come oggidì dicono costituito. I Gragnanesi per difendersi dalle correrie forestiere de' bassi tempi è fama che l'edificassero; ed in realtà trovasi ne' documenti addotti dal Pansa, che Gragnano una volta era riunito a Castello, il quale ebbe tal nome per il robusto fortilizio dalle dodici torri, nel cui mezzo sorgeva l'antica cattedrale. Il tempo e la paura devastarono questi edificii, che attestavano a' vincitori la possanza de' vinti. Solo il secolare cipresso, il cui fusto non cape nelle braccia di tre uomini, avanza solitario e

 

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solenne sul campo della rovina, e con la sua lunga e perdentesi ombra ci ammaestra che l'antica virtù si è perduta allontanandosi dal suo ceppo.

Ma non era di Caprile e di Castello che in ispezialtà io doveva parlarvi, ma si della Valle. Voi la vedrete, ed i giri e rigiri di essa vi rammenteranno il demonio del Tasso con la sua immensa coda

 

Che quasi sferza si ripiega e snoda.

 

Voi la vedrete, e le scrollate sue rupi vi ricorderanno dell'immobil masso del Manzoni, che giace in sua lenta mole poiché è caduto

 

                                                        dal vertice

                                        Di lunga erta montana.

 

Voi la vedrete, e la natura silvestre e malinconica del luogo vi farà risovvenire del padre Alighieri e della sua

 

  ... selva selvaggia ed apra e forte.

 

Ma ciò che sopra tutto vi farà piacere è un picciol luoghetto di annose piante in mezzo a cui s'ode un mormorio d'acque vive: la vista di esse immergendovi in un'estasi beata vi farà ritornare a mente quell'allegorico luogo d'una ballata del Poliziano, là dove tutto amoroso va cantando,

 

                                     In mezzo d'una valle è un boschetto

                                     Con una fonte piena di diletto.

 

0 valle, o valle, non brutta e spaventevole come quella di Giosafatte, ma leggiadra e confortabile come l'Idumea, o l'altra che vaneggia a piè dell'Olimpo! Miri d'intorno il pittor di paesi, e si delizii nella superlativa bellezza degli accidenti di luce, di acque, di piante, di sassi. Là un sentieruolo che ravvolgendosi intorno ad una rupe, termina in due stradette, che pongon capo ad una fornace di calce; più lungi un tragetto, che incavandosi sotto gli archi di un paio di rustici ponticelli, sale poi ed aggiunge la cima d'un poggio, e si perde tra i frassini della montagna: di qua, una catena di basse collinette dove abbonda l'alloro ti si spiega intorno al capo come corona d'immarcescibile verde: di fronte, un'alberata di pini

 

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si distende con mirabile effetto di lontananza: a' lati, gruppi maestosi di aridi sassi, macchie foltissime di ortiche, di felci, di logli, di acetoselle e vilucchi spiegano una pompa di foglie di fiori e di frutta di cento colori, di cento forme, di cento stature; è come fosse un gran covone di spighettine, di pannocchiette, di cioccherelle biancastre, rossicce, giallognole, azzurrine. E l'acqua, senza la quale non ci ha verde in campagna, l'acqua, vera nutrice e regina del mondo, discende tra i crepacci dell'Auro dove son le neviere, assumendo mille vaghissime e care sembianze. Dove precipitando dall'erta, ella si frange e spumeggia tra i ciottoli del burrone; dove lentamente scende e si allarga a guisa di lastra di limpidissimo vetro: da un canto sgorga e si versa a modo di leggiadre cascatelle; da un altro, come polla, rigurgita tra le fenditure degli angolosi sassi: qui lene lene serpeggia come rivo; là rumoreggiante e rapida corre qual riottoso torrentello; e dappertutto recando i suoi doni, rallegra inverdisce vivifica quell'agreste natura. Che se dalle piante e dall'acqua trapasserai a considerar l'effetto della luce, crescerà a mille doppi la tua maraviglia; e vedrai a traverso di folti alberi insinuarsi un fascio di raggi per frangersi su la leggermente increspata superficie di un picciolo stagno, e trasformarsi in tanti fili d'oro; e dove piovere largamente su la fresca verdura, e tinger l'ulivo d'un verde cinereo, la querce d'un verde serpentino, l'elce d'un verde di bronzo, il nocciolo d'un verde verdissimo, ed il tasso barbasso d'un verde che par bianco...

O valle, o valle preziosa, stupenda, incomparabile valle ! In tanto sorriso onde natura ti fece adorna, a te non manca in lontananza che la veduta de' viventi. -

Così sclamava un amicissimo mio, col quale io era in compagnia, amator passionato del paesaggio e della storia naturale, mentre io, seduto su un verde poggiuolo con le gambe incrociate alla musulmana e le braccia penzoloni, stavami baloccando con una verghetta, a quando a quando recidendo i capi de' più superbi papaveri, ad imitazione di Tarquinio il vecchio Che domine hai tu che si ti sfoghi in grida? - esclamai anch'io verso lui. E quegli: Dolgomi che qui né una forosetta, né un villanello fa compiuta la beatitudine della mia veduta. Oh! di ciò havvene più che non pensi: siamo all'ora; rivolgiti al ponte, e guarda.

Ed ecco un trenta passi da noi lontano lentamente incedere verso la Conceria una lunga processione di confratelli di tre diverse congregazioni, e poi un doppio ordine di frati, e

 

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ancora uno stuolo di preti, ed appresso un drappello di vaghi fanciulletti vestiti come gli angioli, quali a piè, quali a cavallo, con ricchissime collane di auree catenelle e di perle, e col cimiero in testa e la spada sguainata in mano; e da ultimo quattro devoti portar su le spalle una specie di cappelletta con entro una immagine di Nostra Signora ad olio, seguita da uno stormo di donne, che cantavano le litanie.

Estatico per un pezzo restò il mio amator di paesaggio: quando poi cesse l'incanto, mi domandò che festa era quella. Ed io a lui: La dicono del'Incoronata dal titolo di quella madonnina, che recano in processione, la quale una pia tradizione racconta essersi cavata da un pozzo asciutto sul cui orlo una fanciulletta vedea certa luce ogni sera, or pallida ora brillante com'è quella del sole. Si dice che quella immagine l'avessero gettata nel pozzo i saracini quando venivan pirateggiando verso la Costa. La tolsero dal fondo i Gragnanesi, ed ogni tre anni, proprio in questo giorno, cioè la terza domenica di maggio, le fanno splendidissima festa.

Fu il mio amator di paesaggio e di storia naturale molto contento di questa picciola cronaca, e poiché cominciava a pizzicargli lo stomaco, mi ricordò ch'era tempo di andarne all'osteria. Così facemmo di fatti, e mangiammo di buon appetito, e beemmo di miglior sete, ripetendo più volte quel verso di monsignor Molinari:

 

Vivere vis sanus? Graniani pocula bibe.  

 

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XXXVIII.

UN AVVENIMENTO FUNESTO.

 

Poiché ci fummo levati di tavola, io proposi al mio amico di far una visita al così detto luogo della Frana, e benché egli il conoscesse al pari di me, condiscese di buon grado al mio desiderio, perocché v'ha di certe memorie, ch'è bene rinnovare di quando in quando per meglio confessar a noi stessi questa umana miseria.

Distendesi Gragnano sopra una lunga zona che nella direzione di levante ad occaso segue la curva della base dei monti, e nel venire che fai da Castellammare incontri prima una specie di villaggio, che più dal corpo del paese riman segregato, e che i naturali del luogo chiamano Piazza del Trivione. Giace questa contrada appiè del monte detto di Belvedere, ed ha sulla destra una parrocchia presso la quale è un viottolo, fiancheggiato da casipole, che mena sull'erta del monte; appresso la chiesa è un palagio di antica costruzione che guarda con la facciata un gruppo di mal connesse case, avendo le spalle rivolte verso il monte medesimo, ed in ultimo, più verso Castellammare, sorgeva il Rione del Trivioncello, nel quale era un molino detto delle Capre con poche abitazioni di poveri contadini.

Or questo luogo appunto da noi descritto fu in parte bersaglio della inferocita natura, e lo spettacolo ch'esso presenta oggidì di agglomerate macerie è una pallida figura di quell'altro ch'esso offrì al sorger del sole il dì 22 gennaio dell'anno 1841. Immensi sassi, a bronchi e motta commisti, staccati a forza dal monte per la furia delle acque, avean superbamente passeggiato su questa spianata, e tutto abbattendo, e distruggendo tutto, avean portato la morte e la desolazione dove non era forse altra colpa, che quella della miseria. Ma raccontiamo i fatti secondo che avvennero.

 

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Sopraggiungeva la sera del dì 21 e già cominciava a infierir la tempesta, la quale crebbe verso le due ore della notte. In questo mezzo un forte scroscio di tuono si udì ed una voce commiserevole si accompagnò ad esso. Era quella di un uomo che affacciatosi alla finestrella della sua abitazione, ammoniva que' del villaggio a salvarsi, sclamando ad altissima voce: Oimé! noi siamo perduti, salvatevi, salvatevi: il molino è rimasto atterrato. Ma ei non finiva di dire, che la piena delle acque abbatteva una parte di quella casetta, e insiem con le mura ne trascinava seco il padrone. Era costui un Trifone Malafronte, e fu trovato estinto in un suo giardino. Né fu questo il solo in quel primo caso a incontrar la morte. Un padre col suo figliuolo furon rinvenuti schiacciati sotto la tavola, che loro serviva di mensa, e una fanciulla strappata, per la violenza delle acque, dalle braccia de' suoi genitori trovò anch'essa la morte presso il limitar del tugurio. Altri, meno sventurati, scamparono per opera di alcuni generosi.

Questo primo esempio di terrore e di distruzione avrebbe dovuto ammonire quegl'ignari abitanti a trovare altrove un asilo; e pure così non pensarono per quella cieca fatalità, che fabbro della propria rovina sovente è l'uomo medesimo. * Essi rimasero nelle loro case, raccomandando a Dio la lor vita; e compresi di spavento taluni ancora giaceano, altri l'aveano smorzato nel sonno, quando nel mezzo della notte un secondo scroscio di tuono, più orribile ancora del primo, fecesi udire, e nel tempo stesso la pendice franata del monte piombava con uno strepito immenso abbattendo le case ch'eran presso il viottolo, non che quelle del Rione, e seppellendo sotto le loro ruine più vittime infelici ! ** Né furono aiuti di sorta che potessero salvarli, in quell'ora, e divisi com'erano dal resto del paese; pure il pietoso curato di quel rione volò in soccorso di quegli sventuati, e ben cinque uomini, oltre a una fanciulla, ei salvò di fatto dall'esser preda della morte. Di

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* La relazione di tal avvenimento scritta dall'architetto Signor Camillo Ranieri, ci fa conoscere che solo venticinque persone obbedirono al tristo presagio del cuore, e uscirono dalle loro case, cercando altrove salvezza.

  ** Questo Rione formavasi di 39 famiglie, divise in altrettante abitazioni. Vi perirono in tutto 99 individui, de' quali 58 maschi, e 41 femine. A pochi riuscì scampare da quella ruina, e fu tra questi un tal Giuseppe Inserra, il quale perdè la moglie con quattro figli, ed egli poi galleggiando sopra un masso con un suo figliuolo scampò dalla morte poiché quel masso si fu per buona ventura arrestato.

 

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costui non trovo notato il nome, ma ben era degno che il fosse. Altri ancora furon salvati, ma pochi. è inutile dir lo spavento, che quella scena di orrore infuse negli abitanti al novello mattino, e quante lagrime e sospiri costò quella vista. Le autorità tutte fecero a gara nell'apprestar l'opera loro, ma il sacrificio era compiuto, e ormai non doveasi pensare che a disseppellir de' cadaveri, i quali giaceano fino a venti palmi sotterra !

Qui si compie la nostra cronaca dolorosa, e al narratore succede il naturalista, che vorrebbe spiegar la cagione di tanto disastro. Vi furon di quelli che dissero esser esso derivato da una semplice frana del monte cagionata dalle continue acque, le quali filtrando nella terra aveale staccate, e indotti con seco e tronchi di alberi e macigni. Il natural pendìo del monte, dicon essi, rese più orribile quella rovina, e l'aver incontrato delle casette o mal fondate o di antica costruzione, fece sì che la frana facilmente atterrassele. L'edifizio infatti un tempo de' Cimmino, oggidì di Buondonno, non ebbe a soffrir molto in quel rincontro, perché di fabbriche più sode. Così quella casa servì di baluardo alle altre che le stanno di contro, e che sarebbero senza meno soggiaciute all'istesso destino. E questa fu una delle opinioni. Altri poi dissero che quel disastro fosse stato prodotto dalle correnti elettriche, e ciò s'induceva dal fuoco, che fu visto da taluni sulla pendice del monte, dalla fiamma che precedeva la frana, e che tramandava un odore di materie bituminose, da alcuni pezzi di intonaco, che, con infausto augurio, furono intesi cader ne' pozzi a prima sera. Di questa opinione fu sostenitore il dotto architetto signor Nicola Montella *, il quale innanzi di pronunziar sentenza, volle co' propri occhi osservar quella terra. Però inerpicatosi sulla costa del monte egli osservò che non eravi fenditura di sorta e che gli strati calcarei, inclinati verso il centro del monte, erano infranti in milioni di pezzi per una irresistibile forza; osservò pure che al di sopra di un grosso strato di pietra nella roccia calcarea era un incavo dal quale gravi massi eransi con violenza precipitati: il calcare all'intorno di questo incavo era di color bianchiccio molto più chiaro degli altri strati inferiori e superiori, che invece tendevano al grigio. Queste ed altre investigazioni da lui fat-

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* Leggasi la memoria intitolata: Sposizione del disastro avvenuto in Gragnano ecc., per l'architetto Nicola Montella.

 

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te, che per brevità tralasciamo, lo confermarono nell'idea, che quella ruina del monte fosse stata prodotta dal repentino moto delle correnti elettriche nelle molecole ingenerato. Noi non siamo lontani dall'abbracciar una tal opinione, ma non vogliamo con ciò escludere l'altro effetto prodotto dalle acque, sicché l'una cagione all'altra congiunta ne danno la spiegazione intera di quel terribile disastro.

Or noi speriamo che casi cotanto luttuosi non abbiansi più a ripetere in Gragnano, che altra volta andò pure soggetta con danni men gravi a così fatte frane. * E questa nostra speranza avrà pieno il suo effetto, se colà, come altrove, l'amministrazione infrenerà questa smania che è in tutti di diboscare i monti (la quale di più mali è cagione alla vita degli uomini non meno che alla pubblica economia), se meglio regolerà la scelta de' luoghi per le abitazioni de' cittadini.  

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* Il sig. Montella ne adduce nella sua memoria altre tre frane. Avvenne la prima di esse circa un secolo fa per la caduta della pendice dello stesso monte di Belvedere, e sboccò quella frana per la via che riesce innanzi la parrocchia del Trivione. Avvenne la seconda, non è molti anni, ne' dintorni degli attuali scoscendimenti, e le tracce di essa sono ancora apparenti. Successe l'ultima all'estremità orientale di Gragnano, e calando la frana da' monti di Lettere attraversò il villaggio di Casola, nella cui piazza se ne vede ancora qualche macigno infossato nell'arena. Queste frane, qual più qual meno, produssero danni con morti; ma niuna di esse può paragonarsi a quella del 1841.

 

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XXXIX.

QUALCHE COSA DA RIDERE.

 

Io era tuttavia immerso nelle mie meditazioni alla vista di quel luogo di desolazione, e ricordando quella notte funesta, mentre il mio amico con un bastone che aveva nelle mani andava smuovendo in vari modi quel terreno per certe sue indagini, e notando in un suo scartabello. Ma disgraziatamente ei non ebbe a compir le sue osservazioni, giacché una pietra vennelo a colpir sulla spalla, e poi un'altra alla gamba; sicché voltosi indietro, e avvedutosi di una frotta di fanciulli: Ehi monelli della mal'ora, gridò, che diavolo v'è entrato in corpo egli mai?

È desso ! è desso ! ripeterono a coro que' cenciosi e si misero a scagliar pietre peggio che prima. Onde io, che tardi mi fui accorto di questo fatto, levatomi di sedere, mi avventai col mio amico contro di quegli arrabbiati, i quali più destri di noi si diedero a gambe, non senza tirarci di quando in quando qualche sassolino. Questa guerra alla spicciolata cominciava a noiarci, ed aveva con se qualche pericolo; però ci convenne chiamar in nostro soccorso un uomo, che era non lungi di là, e ci guardava con riserva. Finalmente ei si accostò a noi, ma non così che non mostrasse una certa paura.

Ehi, buon uomo, disse il mio amico, che domine ci è incontrato quest'oggi con questi figli del peccato? Fate loro metter giù le mani, o altrimenti......

Perdonate, signore, rispose quel contadino tremando a verga, e squadrandolo tutto, e voi chi siete voi ?

Oh bella! Due galantuomini come vedete, che andiamo per fatti nostri curiosando, e.....

Se è così, interruppe quell'altro, è stato certo uno sbaglio: questi fanciulli vi han preso invece per due Stregoni, ed io stesso a vedervi con quelle barbe, con gli occhiali e sot-

 

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to quelle vesti, rimuovendo il terreno, e consultando a quando a quando il vostro libraccio.....

Poffare! diss'io: e voi credete seriamente a queste minchionerie?

Minchionerie? minchionerie dite voi? e già voi altri Signori non credete a niente.....

Parlate con me, disse l'amico mio, lasciate andare costui. Io ho studiato più di lui, e so bene.....

E saprete, mio buon Signore, che queste cose trovansi ne' libri. Anche noi, in Gragnano, abbiamo avuto un Canonico molto dotto che ne ha scritto, ed ha scritto latino: dico bene? latino? eh!

Bene, bene, benissimo. E non sapete voi che era detto in quel libro?

Oh tante belle cose, che io povero ignorante non potrei dirvi; ma invece mi ricordo de' fatti che sono ivi raccontati, perché quando io andava a scuola il mio maestro ce li ripeteva, e il mio maestro era compare del Canonico che avea composto quel libro.

Quel discorso cominciava a divertirmi, e però io pregai il contadino a narrarci qualcuno di que' fatti.

Il farò, diss'egli, purché voi d'oggi innanzi non tenghiate tai cose per corbellerie, e messosi quindi a sedere, senza troppe cerimonie, cominciò così il suo discorso:

Le streghe, signori miei, dimorano ordinariamente nelle selve; e noi qui in Gragnano abbiamo una selva, ch'è detta della Janara, perché quelle male femmine tengon colà i loro convegni. Or più volte è avvenuto che i poveri campagnuoli essendo andati a legnare, han trovato il mattino per vari luoghi disperse le legne che aveano la sera innanzi raccolte in fascetti: per la qual cosa volendo sapere chi ne fosse la causa, si son posti a fare la spia, ed han veduto in sull'imbrunire certe donnacce che recavano quel disordine; ma non sì tosto sonosi messi a gridare, le altre saltando e volando sonosi convertite in tanti paperi sghignazzanti per modo che sentivansi un miglio lontano.

Or vedete che brutti diavolacci son questi ! disse il mio amico.

E questo è niente, riprese il contadino. Sentite ancora. Il nostro Canonico ch'ebbe stampato quel libro di cui vi ho parlato, andando una notte a caccia, visto un albero di noce ne volle cogliere qualche frutto, ma qual non fu il suo stupore allorché s'avvide che non noci ma pietre e lapillo egli

 

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coglieva dall'albero? C'era la luna, ond'egli volto gli occhi in alto, s'accorse che tre fanciulle eran sull'albero, le quali da un ramo saltavano all'altro, e mandavan certe bruttissime strida: il buon uomo del Canonico si mise allora a fuggire, e giunto in piazza raccontò il tutto agli amici.

E quelle donzelle erano streghe? dimandai io.

E che altro potevano essere a quell'ora? rispose il contadino.

E a quelle strida? soggiunse maliziosamente l'amico. Oh, non c'è dubbio. Ma queste streghe stan poi sempre sempre accoccolate sugli alberi?

Sempre, signor mio, cominciò a dire il contadino e certe volte fan de' brutti scherzi a chi vi passa per disotto. Alcuni uomini dabbene contarono una volta al nostro Canonico, che passando essi per una via dov'eran molte querce, videro coi propri occhi certe donne, che sconciamente su pe' rami degli alberi saltavano e cantavano, e quando furon loro dappresso quelle maledette, schiantati in un punto molti rami, gittaronli addosso ad essi, coprendoli altresì di certa fetida robaccia che veniva già a diluvio dalla cloaca puzzolentissima de' loro corpi.

Brutte carogne! sclamò seriamente il mio amico, ed io mi morsi intanto le labbra per non ridere: sicché fatto più ardito il nostro narratore continuò:

Qualche volta pure, signori miei, esse ne van per le vie cantando e suonando per modo che voi non le prendereste per quelle che sono: e ciò avvenne una notte a un nostro concittadino, per nome Nicola Jovene. Ritirandosi egli a casa sua, s'imbattè in una schiera di graziose fanciulle che tutte vestite di bianco andavano suonando e cantando: al pover'uomo surse allora non so che desiderio, e fecesi arditamente nel mezzo di esse; ma quelle all'incontro si dileguarono a un tratto, volando come tanti uccelli.

E voi l'avete questo fatto inteso a raccontare da lui proprio? dimandai io.

Sì bene, disse il contadino, e l'ha inteso pure il signor Canonico che l'ha stampato.

Meno male, disse il mio amico, ch'esse si dilettino soltanto a celiare senza offender persona.

Oh non dite così, soggiunse il contadino, ché a qualche povera fanciulla è toccata pure qualche burla di peggio. In Sorrento è un tale che ha cognome Mastrogiudice della Janara. Or costui una mattina di buon'ora essendo asceso ad

 

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una terrazza di casa sua vide per terra una vezzosissima giovinetta da lui non conosciuta che fortemente si lamentava; ond'egli corso alla moglie e raccontato il tutto, fecela subito vestire, e cautamente custodire.

Fin qui non c'è niente di male, diss'io. Il signor Mastrogiudice poteva benissimo far del bene a qualche fanciulla e per ricettarla in casa ebbe contato quella frottola a sua moglie.

Vi dimando perdono, signor mio, rispose subito il contadino. E come si fa che quella fanciulla era nientemeno che dell'altro mondo? ovveramente, come si dice......

Americana?

Sì signore, americana: giacché dopo qualche tempo si misero gli affissi per le cantonate, perché si fosse data novella di una fanciulla smarrita, fatta così e così. Mastrogiudice si accorse ch'era dessa in carne ed ossa, e consegnatala a chi si conveniva n'ebbe de' bellissimi doni.

Oh, questo fatto poi è il più specioso di tutti, disse il mio amico. Una strega l'ebbe acchiappata in America, e depositata in Sorrento. Or vedete che bella volata !

Così è, ripetè il contadino, e mi consolo che abbiate capito.

Grazie, grazie del buon concetto che avete di me, rispose sorridendo il mio amico. Il quale, avvedutosi che l'ora era tarda, mi consigliò di ridurci a casa.

Ed io avrò l'onore di farvi compagnia, disse il contadino, giacché soli, in questa campagna.....

Dove sono le streghe!

Non credo già che voi abbiate paura; ma la precauzione è sempre buona, signor mio. In questo modo io passerò pure per innanzi la casa di un mio compare che ha il libretto di cui vi ho discorso. Io vi prego di leggerlo, e dopo letto me lo renderete.

Piacqueci questa proposizione, e così fu fatto. Il contadino ci diede il libro, e noi gli regalammo una moneta. Il libro è questo: Dissertatìo super superstione, arteque magica exarata ab ANTONIO GRECO insignis collegiatae S. Mariae de Monte Carmelo civitatis Graniani, et Excellentissimo et Reverendissimo Domino FRANCISCO COLANGELO Castrimaris Stabiarum Episcopo dicata, Napoli 1832.

 

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XL.

LETTERE.

 

Non appena il giorno fu chiaro, ed io e l'amico mio, saliti sugli asini, ci movemmo per Lettere: se non che questa volta avevam tutti e due abiti cittadineschi perché non ci fosse sopraggiunto qualche brutto equivoco come quello della sera antecedente. E una tale osservazione fatta da amendue nello stesso punto, ci richiamò il riso sul labbro, non senza celiare alquanto piacevolmente sulla goffaggine e superstizione di questi cittadini. Ma parliamo un po' serio, disse poscia il mio amico; poiché io vo indagando le cagioni di così crassa ignoranza, e' pare a me che questa povera gente sia anzi da compiangere che maledire. Se costoro fossero meglio educati, che non son punto, certo non avverrebbero di tali sconci.

Ben dici, risposi io, ma né pure mi penso che l'educazione potrebbe al tutto infrenare questa loro imaginativa, la quale è propria della nostra gente, e se ben vedi, queste mostruose rappresentazioni dal popolo passarono a' poeti, da' poeti or son tornate nuovamente al Popolo guaste e scontraffatte.

Sicché noi, disse il mio amico, dobbiamo a voi altri di così fatti doni?

Senza un dubbio, io risposi, e queste streghe, o maliarde che vuoi dire, tu le hai in Ariosto come in Shakespeare, in Shakespeare come in Goethe, per non parlarti di molti altri.

Se così è, dissemi egli, io rinunzio a' tuoi poeti e alla poesia.

Oh, tu dici troppo, io allora esclamai.

 

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E il mio amico: Così non parrebbe a te se sapessi di quali e gravi danni sono cagione queste superstizioni in certe contrade del nostro regno. Il più gran male che a noi poteva incogliere iersera era quello di aver guasto il capo, ma altrove non se la cavano per tanto poco, e spesso è immolata la vita di un innocente per trarne non so che, e farne de' sacrifici infamissimi.

Questo però non succede in Germania, diss'io, e pure il teatro colà ha le più strane e mostruose rappresentazioni del mondo, le loro canzoni raccontano anch'esse tai favole, e noi sappiamo che influenza eserciti la poesia in Germania.

Colà la cosa va ben altrimenti, soggiunse il mio amico. Circondati da nebbie, e obbligati a viver soli per più mesi dell'anno, i Tedeschi popolano almeno le loro case di esseri misteriosi, fantastici, e con essi vivono, con essi conversano e fabbricano versi per poi scordarsene a tempo migliore. Oltreaché tu non pensi da quai principii di morale sia pur governata quella gente, e come al difetto della ragione supplisca invece la bontà dell'animo. Questa loro poesia produce in essi l'effetto del vin di Sciampagna, che dà al capo cioè, e non tocca punto lo stomaco.

E pure non fu così co' Briganti di Schiller, diss'io, interrompendolo.

Oh, di quei briganti, rispose graziosamente il mio amico, io avrei avuto meno paura incontrandoli, che non di quei tristi diavoletti d'iersera. Ma lasciamo ormai tai discorsi di morale: chi predica morale è un uomo mezzo annoiato, e non mi pare che sia questo il caso nostro alla vista di cotai luoghi ridentissimi. Poffare ! io non so come queste testoline siano andate fantasticando delle luride streghe, quandoché questi poggi e monti, ruscelli e vallette, sembran fatti per essere la dimora delle più leggiadre Ninfe e delle più benefiche Fate !

Qui si compì il nostro dialogo. Or quel che osservammo per via, vel dirò io.

Per una facile erta di circa due miglia da Gragnano, si perviene a Lettere e nel mezzo della via incontrasi un picciolo villaggio, che Casola è detto, dove alcune fabbriche di qualche secolo fa ti ricordano che altri tempi corsero già per queste contrade, abitate oggidì da miseri agricoltori e mandriani. Una Chiesa è quivi, detta di S. Nicola, piuttosto vasta, ma con mura muffate, e suo maggior pregio è un tiglio secolare che le sta innanzi. Quando gli uomini prendeano seria-

 

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mente parte nelle faccende del comune, era costume de' padri nostri trattare qui all'aperto, ed al rezzo, di quelle cose che più loro cuocevano. Oggidì non è lo stesso. Esso è luogo di oziosi e briaconi, ed uno io ne vidi, che mi si disse essere il barbiere del comune, e che fecemi veramente pietà: un'altra commiserazione ebbi pure per le gole di questi cittadini. - Ma eccoci a Lettere, e propriamente a Piazza, giacché è a sapere che Lettere si forma di vari casali che son detti Piazza, S. Lorenzo, S. Nicola, Depugliano, Orsano, S. Antonio Abbate. Di tutti questi paeselli Piazza è come la città capitale e il Pacichelli la chiama col nome di Fuscolo, forse dal palagio che i signori Fusco vi posseggono tuttavia. Vedesi qui l'antica cattedrale di questa Diocesi, che una volta avea sotto di se, oltre a questi casali, Franche, Pimonte, Gragnano e Casola. Al presente le cure di queste Chiese si appartengono tutte a Castellammare. E di antica origine era altresì questo Vescovado. Nella Cronaca amalfitana leggiamo all'anno 914 come Leone primo Arcivescovo di Amalfi ordinò tre Vescovi, tra' quali un certo Stefano in Castellis Stabiensibus, qui dicitur nunc Episcopus Litterarum. Il che ci fa pure intendere che Lettere a quel tempo altro non era che una villa di Stabia e che suffraganeo di Amalfi era allora il suo Vescovo. Or salendo ancora più su, noi diremo che i potenti Romani qui venivano volentieri a soggiornare, chiamativi dalla dolcezza dell'aere. Di tanto ci fan testimonio alcune iscrizioni qui rinvenute, ed eccone una assai bella apposta ad un sepolcro:

 

  T. Cornelius Libanus

  Inveni aliquando locum ubi requiescerem.

 

Eccone un'altra che avea lo stesso scopo:

 

D. M.

Miniariae Prisciae vixit ann. III. M. II. D. VIII.

C. Miniarius Viator posuit.

 

Ma saran poi queste lapidi indizio certo che questa città un tempo fosse stata da' Romani fabbricata, e che Lettere fosse stata appellata per le lettere che il Senato Romano inviò a Lucio Silla in tempo della guerra italica, stando egli accampato in quelle alture, come già il Coleti pretese? * Questo a

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* Ved. Nic. Coleti Addit. ad Ital. sacr. Ferd. Ughelli, tom. 7.

 

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me, non che ad altri, sembra una favola; e piuttosto inclino a credere col Frezza che dagli Amalfitani fosse stata edificata, e perché posta ne' Monti Lattarj trasse da quelli il suo nome*.

Ma noi avevam dimenticato che della cattedrale dovevam ragionare: or dunque facciamo ad essa ritorno.

Sotto il pontifical reggimento di Pio V (1570) fu questa Cattedrale innalzata, venuta meno per vetustà l'altra, che era presso l'antico Castello, e fu intitolata a Maria Assunta. A tempo d'Innocenzo XII venne poi ristaurata da' danni cagionati da' tremuoti, ed alla Chiesa vi aggiunse un campanile Monsignor Giovanni Cito, allora Vescovo di questa Diocesi. Di un tal fatto c'istruisce una lapide che leggesi entrando la detta Chiesa. è poco tempo che tanto la chiesa che il campanile sono stati in più nuovo aspetto ridotti, e secondo che meglio poteva il gusto del novello architetto.

Volgendo ora lo sguardo intorno a questo paesello, non puoi non restar compiaciuto di una certa pulitezza, che vedesi nelle sue picciole case e nelle stradette: sicché ben rappresenta questo casale di Piazza gli altri casali compagni. I quali tutti una volta eran numerosi di gente, oggi formano appena la somma di quattro mila anime. Ed eranvi pure famiglie nobili e ricche; come quelle di Antonio, Coppola, Fattoroso, de Miro, Fusco, Risi, Rocco e Salerno. Delle due famiglie Risi e de Miro ne dà il Pansa una lunga genealogia ma non le darò io, recandomi sospetto questo scrittore pel suo poco discernimento in fatto di critica. Ebbe la famiglia Salerno un degno rappresentante in Giuseppe Salerno, Barone di Licignano, che fu Giudice della G. Corte della Vicaria, e Fiscale del Tribunale della Regia Revisione: ebbelo la famiglia Rocco in quel Francesco che parecchie scritture di materie legali pose a stampa e da buon ministro sostenne vari ed elevati uffici di magistratura, onde l'Adimari ebbe a chiamarlo: jurisconsultorum jurisconsultissimus, togae decus, ac justinianeae lancis dignissimus moderator.  

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* A una tal opinione, sostenuta altresì dal Pellegrino, contrastano i continuatori del Di Meo, invocando antichi monumenti ch'essi non citano, e citando inutilmente il catalogo del Borrelli. Invece essi vorrebbero che siasi così chiamata da un Ginnasio o Scuola di Lettere che potè esservi in quella collina, o pure dal nome dimezzato o storpiato di qualche padrone del luogo. Etimologie che non ci garbano punto, e che teniamo per più insussistenti della altra.

 

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XLI.

CASTELLO DI LETTERE.

 

Tra i più poderosi Castelli che il medio evo avesse innalzato in queste contrade, è certamente quello di Lettere. Posto sull'alta vetta di un colle, che elevasi a picco sulle pianure di Angri, difeso naturalmente da' monti circostanti e munito di torri e di mura fortissime, esso dovè sembrare inespugnabile a' suoi nemici. Pur tuttavia la storia si tace di lui, e nessun fatto glorioso ci ricorda operato da queste mura. Altra e più illustre città all'ombra della quale stavasi Lettere, ebbe forse ecclissato il suo nome: Amalfi cioè, giacché ad essa apparteneansi allora questi Casali, i quali, comeché ne sieno oggidì disgregati, e per la omogenea natura de' luoghi e per l'indole stessa degli abitanti, tu non puoi fare a meno di crederti nelle benefiche contrade di quell'antica Repubblica. Sicché ben tu puoi imaginare la valida resistenza che Lettere anch'essa ebbe opposta al Normanno Ruggiero in difesa delle città sorelle, e specialmente quando questi occupando di armati presso che tutta la pianura e con varia fortuna contro Rainulfo combattendo, minacciava atterrare l'ultimo colosso che stessegli contro, il quale ben presto anch'esso ruinò partecipando al fato comune.

Giace il Castello, come dicemmo, sul ciglio della collina; a' suoi piedi è una impraticabile scala che dovea menare alla pianura, e da questa parte, ch'è la più inaccessibile, è la porta di uscita: vedesene ancora la saracinesca. Appresso alla porta è la maggior torre di sterminata altezza ed ampiezza con grandi pietre ben tagliate e simmetricamente disposte:

 

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tre altre ne sono agli altri angoli di minor grandezza, giacché di un rettangolo formasi la pianta di questo castello, di lati non eguali tra loro. Questa prima torre ha una gran base che poggia in forma di scarpa, e la grossezza del muro della scarpa è di oltre 18 palmi: la sua altezza intera, se non c'ingannarono gli occhi, è più di 150 palmi. E tu non vedi né pure i merli, che furon dal tempo distrutti! Più piccole son le altre torri e perfettamente cilindriche; ma tuttora in buona condizione, eccetto quella che insiem con la torre maggiore guarda la pianura: una di esse (quella propriamente che soprasta al casale di S. Nicola) è tutta vuota, e chiamasi ancora da quegli abitanti la torre del grano, perché coladdentro faceasi conserva di quelle vettovaglie, che ne' casi di assedio eran necessarie. Uscendo dal castello, vi mostreran que' villani dov'eran le antiche scuderie, che oggi son pascolo di qualche vacca o vitello, e vi condurran pure a vedere l'antica cattedrale, inabissata dal tempo, e da Pio V, come dicemmo, di qui fatta trasferire nel casale di Piazza. Una piccola cappella vi avanza tuttora, e la memoria più recente che serbino queste dirute mura è quella del colèra per poche vittime di quel flagello che qui furono interrate... Ma togliamoci da queste idee, e diamo uno sguardo su questa immensa pianura, che distendesi a' nostri occhi come uno scacchiere, apparendo dove il ceruleo delle acque, dove il verde delle piante, dove il grigio de' fabbricati. Siede Sarno a un'estremità di questo anfiteatro: Revigliano gli sta di contro, Revigliano che vede ora innanzi di se convertito in terra quel che un giorno era mare anch'esso. E ben di tanto n'accerta la forma stessa di questa pianura, i fossili che cavando il suolo qui continuamente si trovano sepolti, gli sconvolgimenti continui a cui la terra andò sempre mai soggetta.

 

                     Vidi ego quod fuerat quondam solidissima tellus

                      Esse fretum, vidi factas ex aequore terras,

                      Et procul a pelago conchae jacuere marinae

                      Et vetus inventa est in montibus anchora summis. *

 

Cotali sconvolgimenti, più che altrove, furon frequenti nelle nostre contrade e nelle piagge che circondano il nostro

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* «Io vidi il mare là dove una volta era solidissima terra; io vidi coperti da' flutti i campi, e lungi dal mare giacer le marine conchiglie, e rugginosa àncora rinvenirsi nelle sommità de' monti». Ovidio.

 

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Vesuvio, il quale è grandissima cagione di geologici mutamenti. Ad esso noi dobbiamo gli strati di pomice e lapillo che ingombran tutta la contrada così detta di Messigna, e una fortunata combinazione ne assicurò meglio com'essa fosse un tempo occupata dalle acque. Imperocché essendosi da' naturali del luogo cavati de' pozzi per aver delle acque irrigue, dove non sono che acque minerali, alcuni tronchi di alberi furon trovati in que' cavamenti, i quali attentamente esaminati, vennesi in chiaro come alberi di navi eran quelli, conservati ancor sani per virtù delle stesse acque minerali. Dobbiamo al diligente cav. Giuseppe Negri, ingegner costruttore nella real marina, una tale scoverta, e al dotto Raffaele Liberatore l'averne lasciato special ricordo negli Annali Civili (an. 1835). Da esso sappiamo che questo tratto di terra è distante dal mare per circa 250 tese, dal cui livello si eleva per 18 a 20 palmi circa, e che gli strati di pomice e lapillo, che ne formano la massa, scendono alla profondità di circa 40 palmi. Ben 12 di questi alberi furono rinvenuti, e tutti in situazione verticale, o sol di pochi gradi inclinati all'orizzonte. Qualcuno di essi aveva de' cerchi di ferro e gancio alla testa; qualche altro terminava a calcese, come oggidì si usa ancora ne' bastimenti latini. E bozzelli e cerchi e anelli di ferro e chiodi triangolari ed altri arnesi appartenenti a navigli sonosi pur rinvenuti nel detto terreno. Or non sarebbero forse questi gli avanzi di quello stesso navile romano comandato da Plinio che nell'eruzione del 79 fu spento nella marina di Stabia? Agli archeologi una tal disquisizione.

Dalla pianura noi intanto volgeremo lo sguardo a questi monti e colline circostanti, seminati di villaggi e casipole, tra' quali, coperto sempre di nubi, come un essere misterioso, si appresenta Monte Auro. Il castagno qui insalda i terreni posti a declivo, e forma delle fresche selvette; la vigna, l'olivo, e il pometo occupano un'altra parte delle terre; il rimanente è destinato a' pascoli, ed è questa la più ricca industria di Lettere, giacché l'olio basta appena a' bisogni della contrada: dalle frutte che si mandano in Castellammare, e che sono eccellenti, non si trae gran profitto, e il vino, comunque vincesse in bontà quel di Gragnano, non è in grande abbondanza. Gli eccellenti pascoli danno poi stupende ricotte, che vendonsi con vantaggio in Napoli e in Castellammare, e del latte di Lettere ben potremo ancor dire quel che Cassiodoro ne scrisse: Remedia Lactarii montis eum jussit expetere, ut cui medela humana nihil profuit, lac vulgati loci subveniret. E l'illustre mi-

 

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nistro di Teodorico così dissene altrove: Aeris salubritas cum pinguis arvi fecunditate consentiens herbas producit dulcissima qualitate conditas, quarum pastu vaccarum turba saginata, lac tanta salubritate conficit, ut quibus medicorum tot consilia nesciunt prodesse, solus videatur potus ille praestare.*. E pure (chi il crederebbe?) con tanti favori di che natura è stata a questi luoghi benigna, essi sono abbandonati da' cittadini, non careggiati da' forestieri ! Ma un giorno forse, e non è lontano quando le noie della città non ci faran più salvi in Castellammare o in Sorrento, noi ripareremo ne' mesi estivi in questi monti amenissimi; e allora forse un'aura di civiltà soffierà pure per queste contrade, i cui abitanti non sarebbero molto lontani dall'accoglierla per una certa naturale bontà, e perché non destituiti di acume.  

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* «I rimedii che ne porgono i monti Lattarii a lui indisse di ricercare; perocché se niuna medicina poteva giovargli, il latte di quella contrada il risanasse.»

«La bontà dell'aere alla fecondità degli abbondanti campi congiunta produce erbe di dolcissima qualità, e di un tal camangiare ingrassate che sono le vacche dan latte cotanto salubre, che coloro i quali hanno sperimentati vani i consigli de' medici, da quella bevanda traggon solo profitto.»

 

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XLII.

MONTE AURO.

 

Se io vi dicessi, miei cari lettori, essere io stato sul monte Auro vi direi certo una gran menzogna, dalla quale ancorché mi assolvesse volentieri qualunque scrittore francese, non mi assolverebbe già la mia coscienza: sicché francamente vi confesso di non esservi stato per una cagione molto naturale, per un certo mal di vertigine al quale io vo facilmente soggetto, e che nel discendere da qualche luogo scosceso mi fa vacillar la vista e le gambe. Di un tal male innocentissimo pativa ancora Dumas (non so se davvero o da burla), e se ne lamenta assai di frequente nel suo Viaggio in Isvizzera. Io per non lamentarmene dopo ho voluto esser saggio prima. Così spero che non ve ne dorrete né pur voi, miei cortesi lettori.

Volgendo per Scansano (paesello poco lontano da Castellammare, e abbondante, dicono gli asinai, di allegre fanciulle) dopo un buon tratto di via si perviene a Pimonte, così detto da che questa terra è posta a piè della montagna, e poco più giù è il casal delle Franche. Fu sede questo Pimonte della nobil famiglia del Pozzo, e patria dello stesso Paride, come taluni si ostinano a dire. Ma ancorché vogliasi torre un tal vanto a Pimonte, a lei ne rimarrà un altro: l'aver dato i natali al P. Maestro dell'Ordine Domenicano Fra Errico Scalese, il quale oltre a' Precetti dell'Eloquenza, mise pure a stampa alcuni Commentarj sopra le Satire di Persio. Perspicaci ed acuti sono questi abitanti, i quali vivono colla pastorizia e col taglio delle selve.

Da Pimonte si ascende a monte Auro per una via molto difficile ed affannosa: ma questa fatica vi sarà invece compensata dalle pittoresche vedute che sempre nuove vi si offriranno d'innanzi, dalla diversa vegetazione che da un momento all'altro vedrete mutarsi, dalle vive e grosse polle di acqua che scorgerete a' vostri piedi zampillar dalla terra, da' massi immensi e diversamente colorati, ne' quali son praticati angusti senteruoli, ed or vi servon di strato, or di coverchio sul

 

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capo, or vi presentano come una gran porta alla via (Porta coeli), ora vi invitano a sedere e si dispongono naturalmente in anfìteatro (Scola cavaiola).

Dopo tre ore e più di buon cammino sugli asini voi perverrete alla sommità del monte * ch'è partito in tre parti, sopra una delle quali poggia la chiesetta dell'Arcangelo S. Michele: ond'è che questa montagna da quei di Castellammare dicesi più comunemente S. Angelo a tre Pizzi, comeché altri l'appellassero del Tarì, forse da che una volta fu detta pure Monte Tauro. Vuolsi che S. Catello, quarto Vescovo Stabiano, del quale oscura ed incerta è finora la storia, con l'abate S. Antonino qui menasse per lungo tempo vita eremitica, ed una grotta si addita al divoto che dicesi di S. Catello. Quivi l'Arcangelo S. Michele appariva loro visibilmente, e però i due eremiti gli ergevan prima una cappelletta di legne composta, quindi di fabbrica, dove era la statua di S. Michele, con certe colonnette che lo stesso S. Catello, secondo che dice la tradizione, trasportò egli medesimo di Roma. Altre tradizioni si contano qui pure di fantasime e diavoli, che noi non vorrem già narrare per lasciare qualche diletto a' nostri viaggiatori. Ne dimandino ai loro asinai, e questi sfioreranno tanta erudizione di chiromanzia da disgradarne lo stesso autore del Dizionario infernale.

Solevasi una volta accorrere in gran folla su questo monte da' fedeli, ed era una gran festa il 29 luglio e 1 agosto. Oggi vi si va, ma non è più quella gran gente ch'era una volta. Pure se i miei viaggiatori son padroni del loro tempo scelgano quella notte per una tal peregrinazione. Farà loro un bell'effetto il monte illuminato da mille fiaccole e falò. Diversamente scelgano quella notte che più loro piace, ma badino che sia serena, perché non abbiano a incontrare, in quella region delle nuvole, qualche temporale. Partendo di Castellammare essi si troveranno in tempo di està al far del giorno sulla vetta del monte, e godranno così di un altro spettacolo grandioso e sublime: del nascer del sole, che l'uno e l'altro golfo vien illuminando e grandissimo tratto di paese discopre al guardo stupefatto.

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* L'altezza del monte è di 4455 piedi dal livello del mare secondo Schouw, 4479 secondo Visconti, 4416 secondo Capocci, 4400 secondo Del Re. La media di queste cifre corrisponde a 4438 piedi parigini.

 

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XLIII.

LETTERA DEL VIAGGIATORE A' SUOI LETTORI.

 

Ed eccovi, miei benigni lettori, la fine di questo primo viaggio ..... Che dunque !  non andremo più oltre? non giungeremo più fino a Salerno? Signori no, giacché per me comincia il mal tempo, e se tutti in questa stagione viaggiano, io debbo di necessità riposarmi; pure io spero darvi quanto prima la seconda parte di questo viaggio, che tengo già pronta.

E questo in quanto al futuro: tornando ora al passato, assai vi son grato delle buone accoglienze fatte a queste carte. Ciò non ostante io vi esorto di perdonare a qualche omissione o inesattezza, a qualche improprietà di lingua, e a qualche po' dì disordine, che avrete trovato di quando in quando in questa scrittura. Che volete? bisognava viaggiare, frugare, dimandar notizie nel tempo stesso per far venir fuori ogni settimana tre di questi foglietti, avendo per soprassello tanti altri malanni !.... E sappiate che non fu questa tutta opera mia. Un mio dotto amico m'ebbe aiutato in questo lavoro scrivendo cinque dì questi capitoli, che sono il IX, il X, l'XI, il XXXVI e il XXXVII. Io non voglio nominarvelo, e lascio a voi l'indovinarlo dalla festività del suo stile.

E del sig. Gigante che ci dite coi? se egli ha preludiato a questo libro, perché non parla ora ch'è finito? 0h il povero giovane ! Volentieri avrebbelo fatto se un grave morbo non lo travagliasse da qualche mese; ond'egli dovè smettere di più disegnare ed incidere. Le sue incisioni giungono fino al numero trenta; da quella che segue in poi furon opera del suo amico Gustavo Witting, giovane anch'esso pieno d'ingegno e fgliuolo di un padre sperimentato nell'arte. Io spero che i suoi lavori si avranno pure il vostro gradimento, non altrimenti che quelli del suo amico.

Poiché vi ho detto quello che tornavami dire, lasciate che io prenda commiato da voi. Son tali e tanti i casi della vita ch'è bene abbondare in cautele, e partirsi di questo mondo o dalla propria terra senza un saluto, è pure il tristo rimorso! State sani.

 

 

 

(Da: FRANCESCO ALVINO, Viaggio da Napoli a Castellammare. Con 42 vedute incise all'acquaforte, Napoli, Stamperia dell'Iride, 1845)

(Fine)

 

 Ex Tabulis Iosephi Centonze

 

 

 

 

per Stab...Ianus

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Buon Viaggio con

 

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