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GIUSEPPE CENTONZE

Il parroco di Pimonte e i fannulloni

(Novembre-Dicembre 2009)

 

Antonio Genovesi


 

Su Pimonte e sui Pimontesi non si trova granché nella letteratura di viaggio, nelle antiche guide e nella storiografia meridionale, se si fa eccezione di qualche riferimento al luogo selvoso, rifugio di briganti dopo la raggiunta unità d’Italia (ed anche molto prima), o alla partecipazione dei suoi abitanti, ritenuti a torto rudi montanari, a qualche sommossa come quella contro l’armata francese nel 1799.

In verità, «perspicaci ed acuti sono questi abitanti, i quali vivono colla pastorizia e col taglio delle selve» scrisse nel 1845 Francesco Alvino e, inoltre, qualche altro accenno, qui e lí, all’importanza delle produzioni locali non manca.

Ma sorprende non poco quel che riferí Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di economia civile del 1765 sull’esempio che aveva dato un parroco di Pimonte, che secondo lui aveva già capito le regole del vivere civile, poco dopo il 1735, cioè circa trent’anni prima della pubblicazione di quel famoso libro, cui ancora oggi sembrano ispirarsi, a quanto pare, nonostante siano passati quasi due secoli e mezzo, economisti e politici ritenuti ultramoderni e audaci.

Il filosofo ed economista campàno, che auspicava il raggiungimento della ‘pubblica felicità’ attraverso le scienze utili e l’economia, grazie alla quale le nazioni potevano divenire potenti e ricche, nel cap. XIII (Dell'impiego de' poveri e de' vagabondi) partiva dalla seguente considerazione:

 

«In ogni paese vi è, dove piú, dove meno, sempre un dato numero di poveri e di mendicanti. Se si potessero far entrare nella massa de' lavoratori e de' renditori, si farebbero due beni. Si accrescerebbe la rendita generale della nazione, e si farebbe un gran servizio al buon costume. Perché molti de' mendicanti sono in grado di lavorare meglio che ogni altra persona; e la maggior parte, dove non trovano a vivere di limosine, vivono di furto. La massima adunque del minimo possibile degli oziosi, massima fondamentale in economia, dee farvi pensare tutti i politici».

 

Continuava facendo una distinzione tra tre tipi di mendicanti e vagabondi:

 

«Vi son tre generi di mendicanti. I. Alcuni sono involontarj, cioè quelli che non sono in istato di lavorare, come i ragazzi, i vecchj decrepiti, i malaticci, gli storpj, quei che non trovano lavoro ec. II. Altri sarebbero in grado di travagliare, ma loro il vieta il pregiudizio della nascita, d'un posto luminoso d'onde son caduti, di certe vecchie carte ec. III. Finalmente altri sono validi, sani, atti all'arti, ma o sono dalla fanciullezza avvezzi da' loro genitori ad una vita vagabonda, o trovano a far meglio i conti nell'andare accattando».

Il suo intento era quello di dimostrare che in ogni stato si dovessero promulgare e far osservare inviolabilmente leggi a riguardo, in quanto

 

«è una carità mal intesa e una beneficenza male alloggiata il pascere colle proprie fatiche coloro cui né la condizione della nascita, né la forza del corpo, né lo stato della mente vieta di travagliare».

 

È qui che egli portava l’esempio dell’innominato tremendo parroco di Pimonte (allora il paese contava cinque parrocchie e un monastero dell’ordine dei Predicatori), il quale nei primi decenni del Settecento aveva capito a meraviglia «il fondo del buon costume» e l’aveva praticato con mezzi abbastanza persuasivi prima delle teorie formulate dall’illuminato studioso, riducendo «la sua parrocchia ad uno stato invidiabile»:

 

«Non sono ancora trent'anni che qui nel villaggio detto Pimonte sulle montagne di Castello a Mare fu un parroco, che aveva ridotta la sua parrocchia ad uno stato invidiabile. Non v'era un mendicante, perché non v'era un poltrone. I poveri involontari erano alimentati dal pubblico; i volontari cittadini obbligati alla fatica a forza di bastone; i forestieri cacciati via. Questo parroco conosceva a maraviglia il fondo del buon costume».

 

Per il Genovesi era questa una vera lezione che, nel secolo dei lumi, veniva ai governanti dal parroco del piccolo villaggio sulle montagne di Castellammare.



 Post fata resurgo

 

(Da «L'Opinione di Stabia», XIII 132 – Nov.-Dic. 2009, p. 19).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

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