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GIUSEPPE CENTONZE

Duiliu Zamfirescu a Castellammare

(Marzo-Aprile 2009)

 




 

Duiliu Zamfirescu fu un gustoso scrittore e un accorto diplomatico romeno innamorato dell’Italia, specialmente di Napoli, come si ricava dall’articolo di C. Isopescu, Il poeta romeno Duilio Zamfirescu a Napoli, in «Atti della R. Acc. di Archeologia, Lettere e Belle Arti», XIII (1933-1934).

Era nato nel 1858 a Planesti, un anno prima che i principati di Moldavia e Valacchia, in fermento dal 1848, si unissero formando il principato di Romania, che raggiunse l’indipendenza dall’impero ottomano nel 1877 e divenne regno nel 1881.

Il nuovo stato, fiero della sua lingua neolatina e del suo passato profondamente legato all’antica Roma e particolarmente all’imperatore Traiano, volle una legazione nella nuova capitale d’Italia, significativamente nel palazzo Roccagiovine al Foro Traiano con vista sulla famosa colonna, e nella primavera del 1888 vi fu inviato come addetto il trentenne Zamfirescu, che era già stato magistrato, redattore del giornale «România liberă», collaboratore di riviste letterarie e autore di poesie, di novelle, di un romanzo.

Nell’agosto 1888 Duiliu visitò Napoli, Capri e Sorrento. Ritornato a Roma, il 6 settembre descrisse al suo amico Nicola Petraşcu la sua esperienza e le sue impressioni. Di Napoli colse le contraddizioni ed ammirò le bellezze ed i segni dell’antichità:


«Questa città è il più strano accozzo di contrasti: monte e mare; lusso e miseria; palazzi e monumenti di contro a sordida sporcizia di strade e di uomini; donne eleganti e belle accanto a vecchi deformi e anemici; [...] 600.000 anime insomma stipate lungo i moli fra cime vulcaniche e mare, arse dal desiderio di vivere, di amare, di mangiare e che cadono a migliaia preda del colera, ma non sanno staccarsi dalle infocate falde del Vesuvio [...].

«A Napoli il museo Ferdinando è un tesoro inapprezzabile per chi ama il bello [...]. Quello che specialmente mi ha interessato è stata la galleria delle statue e dei busti degli imperatori romani [...]. Per noi, per me almeno, è un incanto indicibile e una santa commozione starmene in una sala fredda sotto la statua dell'imperatore nostro [Traiano], guardandone la testa pensosa e il braccio vigoroso – ed è una gioia quasi puerile, ma in certo modo artistica, quella di constatare che si discende come popolo dai contemporanei di questo uomo».


Di Capri disse:


«Non so come fosse l'Olimpo, ma so che io, se fossi incaricato di scegliere una sede per gli dei, li porrei qui ad abitare».


Di Sorrento non nascose la sua iniziale delusione per non averla trovata corrispondente a una descrizione di Lamartine:


«Se ti dicessi d'aver avuto una delusione, sarei ingiusto, perché al ritorno, facendo la strada per terra, mi son convinto che questo luogo è la soglia del paradiso. Ma all'entusiasmo e all'idea che io mi ero fatto di Sorrento, non rispondeva affatto quella ripa scoscesa, su cui sono piantati alberghi monumentali di cinque piani, e quel piccolo seno roccioso, senza spiaggia, senza sabbia, senza la pigrizia dell'onda, che così bene si adagia a Porto d'Anzio, per esempio, nella discesa umida e molle della spiaggia».


Nell’agosto dell’anno successivo (1889) ritornò sulle coste napoletane e trascorse una decina di giorni a Castellammare.

Il giorno 17 descrisse al Petraşcu innanzitutto le sue incantevoli e piacevoli serate di giovane scapolo passate sul terrazzo della reggia di Quisisana, divenuta Albergo Margherita, insieme a fanciulle della buona società, tra cui la figlia del conte Giovanni Codronchi già deputato del collegio di Bologna e da pochi mesi prefetto di Napoli:


«Come vedi, mi trovo a Castellammare da una diecina di giorni, e domani o dopodomani vado a Sorrento per altri 4 o 5 giorni. Qui si trova tutta la società napoletana... È un incanto indicibile passeggiare la sera sulla terrazza dell'Albergo Margherita, fra due fanciulle riscaldate dal ballo, una bionda, pienotta, dalla fronte aperta, non ombreggiata da ciocche di capelli; l'altra bruna, un diavolo, con le labbra tese ai baci, mentre di fronte, proprio di fronte, il Vesuvio ribolle pericolosamente, e dietro, oltre i monti, sale la luna... Si ode la voce del direttore di cotillon, marchese Brancaccio, il quale chiama le caprette ai verdi germogli; ma esse rimangono sulla riva con me e continuiamo a dirci versi di questo o quel poeta, del Carducci specialmente, perché la bionda, figlia del Conte Codronchi, prefetto di Napoli, è amica personale del poeta. E quando io metto qualche accento fuori di posto, essa mi corregge e ride, ma quando esse fanno la cadenza nel dialetto napoletano, viene per me la volta di ridere, e così passa la serata».


Al mattino ci si incontrava al mare, ai bagni di Pozzano, con non poco divertimento:


«Il giorno dopo, ai bagni di Pozzano... ci mettiamo in fila dietro una barca, attaccati a una fune, quattro o cinque uomini con altrettante donne, e quando la barchetta esce al largo, noi nell'acqua, come aringhe, siamo buttati gli uni sugli altri... Qualche volta si bagnano i capelli, e per rimetter a posto le treccine hanno bisogno di tutte e due le mani. Allora le sostieni con un braccio, mentre con l'altro ti tieni attaccato alla fune...».




 

A Castellammare, in quei giorni, Duiliu trovò anche l’ispirazione per comporre dei bei versi, la lirica Castel Fusano, pervasa di una suggestiva atmosfera arcadica.

Nell’estate del 1891 – nel frattempo (nel marzo 1890) si era sposato a Roma con Enrichetta Allievi figlia del senatore Antonio, direttore della Banca Generale – ancora ritornò a Napoli e a Sorrento, da dove scrisse allo scrittore compatriota Iacob Negruzzi:


«Quando avrete voglia di gente dell'altro mondo, venite da noi. Siamo sani e giovani a Sorrento».


Ma nel 1892 Zamfirescu fu trasferito alla Legazione di Atene e poi a quella di Bruxelles, con un ricordo di Napoli incaccellabile. Al Negruzzi che voleva visitare la città scrisse:


«Napoli mi tenterebbe assai... Ho passato, due volte, un mese a Napoli, e a conti fatti, credo di non essere mai stato più felice».


Solo nel 1895, dopo essere stato trasferito di nuovo alla Legazione di Roma, poté tornarvi. Vi fu ancora nell’estate del 1898 coll’amico Petraşcu a cui disse:


«La bellezza della natura d'Italia, che in questo paese trovi dappertutto, qui raggiunge il culmine... Il golfo di Napoli è unico sulla terra».


I due visitarono anche Pompei e poi – passando per Castellammare – Sorrento e Capri.

Molto probabilmente a quest’ultimo itinerario si riferisce il racconto Una musa (Ricordi di vita diplomatica), non si sa quando composto, ma pubblicato nel 1922 e tradotto in italiano nel 1932, in cui si parla di una vacanza a Sorrento, presso l’Albergo Vittoria, dove si recano lo scrittore e il suo amico americano John James, accompagnati dal conte napoletano Pàndola e dal poeta Ugo della Rovere. Riportiamo la parte relativa al viaggio da Castellammare a Sorrento fatto in due tipiche carrozzelle locali («certe carrozzelle ad un cavallo, senza uguali in tutto l’universo»), caratterizzata innanzitutto dalle osservazioni e dalle considerazioni sul popolo incontrato lungo il percorso:


«Chi è stato su quei beati paraggi e non ricorda la strada, lungo il golfo di Napoli?... Il treno vi porta a Castellamare di Stabia, mentre di lì fino a Sorrento, vi conducono certe carrozzelle ad un cavallo, senza uguali in tutto l'universo. Lo stradone va serpeggiando per l'alta riva del mare, tra giardini di aranci e di fichi. Il popolo forma la mescolanza più interessante di tipi: vecchi grinzosi, ragazze vestite come per carnevale, giovanotti dai grandi occhi, fanciulli stracciati; vivevano tutti per la strada, e parlano una lingua di urla e di grida, cui mescolano i gesti più espressivi.

«Ero stato tante volte a Napoli, e sempre il popolo mi aveva interessato moltissimo. Anche ora, con Pàndola a fianco, che mi spiegava una quantità di cose, mi sembrava di penetrare sino al fondo della sua anima. Questi uomini erano dei greci, in tutto il più ampio significato della parola, come lo erano duemila anni fa gli abitanti di quella parte d'Italia, detta la Magna Grecia e non potevano essere né Osci né Campani, né Latini. Da ciò l'abitudine di vivere sulla strada; la folle passione per i santi, con processione; la vivacità del linguaggio; l'ingenuità delle credenze – un'intera gamma spirituale, non spiegabile altrimenti».


Successivamente si parla di una sosta a Vico Equense, fatta per far riposare i vetturini stabiesi, dei quali è descritto lo spericolato, sorprendente comportamento alla ripresa del viaggio:


«A Vico, ci fermammo per lasciar riposare i cocchieri. Pàndola, vedendo nel giardinetto dell'albergo un fico carico di frutti, ne chiede subito un piatto. Con un'abilità indicibile, comincia a pulire i frutti zuccherini della loro pelle molle e se li ficca in bocca, facendo al tempo stesso della filosofia pessimistica contro gli uomini del Nord, che mangiano soltanto cose fresche: “il y a dou feu dans oun figue” dice lui, come morale.

«Alla parola “fresco”, John James inarca le sopracciglia, nel vedere un ragazzo che stava lavandosi il viso in una enorme fetta di cocomero. Pàndola, ferito nel suo amor proprio nazionale, si scaglia contro John James, chiamandolo villano di California; poi scoppiando a ridere, definì l'anguria: “c'è da mangiare, da bere e da lavarsi il viso”.

«Partimmo da Vico Equense, correndo gli uni dietro agli altri, affinché Pàndola dicesse un nuovo insulto a John James, all’indirizzo degli americani, o che John James mostrasse a Pàndola nuove cose sporche per la strada. Le nostre carrozzelle si spingevano l'una contro l'altra, correvano sull'orlo dei precipizi, si tagliavano la strada, mentre i cocchieri si erano identificati coi loro padroni, quello di Pàndola, stava per il napoletano, e quello di John per l'americano, frustandosi reciprocamente i cavalli ed ingiuriandosi con i più spaventevoli ed inimmaginabili insulti».


Nel 1906, dopo 18 anni di addetto di Legazione, di cui 15 a Roma, Duiliu Zamfirescu rientrò in patria allontanandosi definitivamente anche da Napoli, che tuttavia rimase costante nel suo ricordo, come si è visto in Una musa, e come appare anche nel romanzo Viaţa la ţară (1894-1895), tradotto in italiano col titolo La vita in campagna (Torino, Utet, «I grandi scrittori stranieri», 1932).

Dopo di allora servì con vari incarichi il suo paese, che dopo la prima guerra mondiale si espanse inglobando la Transilvania, la Bucovina e la Bessarabia. Fu tra l’altro Ministro Plenipotenziario, Presidente della Camera dei Deputati e Ministro degli Esteri.

E continuò anche a scrivere belle opere letterarie.

Morì a Bucarest nel 1922.





 Post fata resurgo

 

 

(Da «L'Opinione di Stabia», XIII 129 – Mar.-Apr. 2009, pp. 18-19).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

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