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GIUSEPPE CENTONZE

Gog e Il libro nero di Papini

(Settembre-Ottobre 2008)

 



 

Nel 1931 uscí una delle opere piú originali del nostro Novecento, anche se mai completamente apprezzata, Gog di Giovanni Papini.

Il cinquantenne letterato fiorentino aveva alle spalle un iter eccezionale, eclatante e tormentato, di una intensissima attività culturale e letteraria.

Tra il molto altro, era stato, fin da giovanissimo, fondatore e/o collaboratore di importanti riviste del Novecento; aveva nel 1905 «licenziato la filosofia» di grandi pensatori come Kant ed Hegel (Il crepuscolo dei filosofi); aveva nel 1912 invitato tutti gli uomini a farsi atei (Le memorie d’Iddio) e pubblicato la sua biografia spirituale (Un uomo finito); nel 1914 aveva pubblicato Chiudiamo le scuole!; nel 1916 aveva stroncato grandi scrittori del passato come Boccaccio, Shakespeare e Goethe, nonché i contemporanei Croce e Gentile (Stroncature); nel 1919 aveva narrato il suo futurismo (L’esperienza futurista); nel 1921 si era clamorosamente convertito al cattolicesimo e aveva scritto la Storia di Cristo; nel 1929 aveva aderito al partito fascista.

Il protagonista immaginario del libro, Gog, nato alle Hawaii da madre indigena e padre ignoto, era un «mostro sul mezzo secolo» che aveva fatto fortuna negli Stati Uniti, divenendo uno dei piú ricchi di quel paese; si era poi ritirato nel 1920 dalle tante sue imprese depositando enormi ricchezze in varie banche del mondo e iniziando una peregrinazione per tutto il pianeta, finché si era ammalato.

In un manicomio privato finse di averlo conosciuto il Papini, che ne ricevette un insolito diario, non proprio un libro di memorie o un’opera d’arte, ma «un documento singolare e sintomatico: spaventoso, forse, ma di un certo valore per lo studio dell'uomo e del nostro secolo»; e lo pubblicò in frammenti proprio in quanto documento, per «far cosa utile» al lettore, «perché si scorgono meglio, in questo ingrandimento grottesco, le malattie segrete (spirituali) di cui soffre la presente civiltà».

Nel diario figuravano, come interlocutori di un Gog osservatore del mondo e degli uomini con la curiositas del viaggiatore e la sincerità di un «primitivo», i personaggi piú famosi e rappresentativi della modernità, da Freud ad Einstein, da Lenin a Shaw, nonché personaggi non noti, ma stravaganti o visionari, anch’essi illuminanti sul loro tempo.

Papini avvertiva di non poter «in nessun modo approvare i sentimenti e i pensieri di Gog e dei suoi interlocutori»; ma poiché in quelle esagerazioni erano pur riflesse certe tendenze della società, intendeva «far servire il male di Gog al bene comune».




Quest’opera satirica era paradossale sí, ma anche geniale e profetica, in quanto offriva una lettura del mondo moderno anticipando quel che esso sarebbe diventato, proiettato com’era verso l’annullamento spregiudicato dei valori in nome del solo dio denaro; opera profetica e proprio per questo incompresa, in quanto rivolta a un lettore spesso sbalordito, confuso e perplesso di fronte alle improvvise novità e alle diversità.

In Gog già apparve citata Stabia, a proposito di un certo Caccavone conosciuto in un caffè svizzero di Pompei, un professore che si definiva «metasofo» e pretendeva «d’aver superato le piú moderne filosofie».

Caccavone era un uomo grasso e fecondissimo, che generava ogni anno un libro (che conteneva le stesse cose del libro precedente) e un figlio (ognuno diversissimo dall’altro), per cui era costretto ad avere un’infinità di cariche e non c’era posto o ufficio nel giro di cento chilometri che non avesse occupato o occupasse o avrebbe occupato, tra cui una impossibile cattedra di pneumatologia a Stabia:


«Nel Comune era assessore per la istruzione, nell’Accademia Plutonica segretario generale e perpetuo, alla Scuola di Pompei ricopriva una cattedra di storia degli errori umani, a quella di Boscoreale insegnava logologia comparata, a Stabia aveva un incarico di pneumatologia, ad Angri dirigeva addirittura l’Istituto dei Frenastenici. Era inoltre presidente della Lega per i diritti dei vegetali; membro di una Commissione internazionale per la estirpazione del senso comune […]. A forza di stipendi, assegni, indennità di presenza e di residenza, di propine d’esami, di gratificazioni straordinarie, di percentuali sui dividendi e d’altri minori emolumenti riusciva a nutrire i figlioli e sé stesso, a fabbricarsi alcune case e ad avere un conto corrente in varie banche.

Nonostante le apparenze corporali e l’ingordigia economica, il grande amore di Caccavone è la filosofia o, com’egli dice, la Metasofia. Ieri l’altro ebbi un lungo colloquio con lui — perché spera ch’io gli dia i denari per fondare un cenobio metasofico del quale egli vorrebbe esser priore, maestro ed economo — e mi pare d’aver capito il nòcciolo del suo pensiero».


 


Era, invece, proprio di Castellammare un altro singolare personaggio che apparve nel «Nuovo diario di Gog», pubblicato a distanza di vent’anni, nel 1951, e intitolato dal Papini Il libro nero perché quei fogli «appartengono quasi tutti a una delle piú nere età della storia umana, cioè agli anni dell’ultima guerra e del dopoguerra».

Tra i due Gog, c’erano state, dopo l’adesione al fascismo, l’assegnazione della cattedra di letteratura italiana all’università di Bologna, poco dopo rifiutata, e la nomina ad Accademico d’Italia. Ma c’era stata soprattutto la seconda guerra mondiale, che l’aveva afflitto e prostrato.

Finita la guerra, il Papini da una parte aveva invitato alla speranza (Manifesto della speranza, 1946), dall’altra si era ripiegato sul passato, rievocando grandi figure o la sua stessa fanciullezza (Santi e Poeti e Passato remoto del 1948). Ma aveva sentito poi il bisogno di leggere e far leggere la realtà contemporanea, con un fin troppo evidente pessimismo, attraverso Il libro nero del ‘51.

Anche qui egli ripropose un Gog, che, avendo continuato a percorrere la terra, aveva incontrato gli uomini «piú celebri e rappresentativi del nostro tempo», da Hitler a Picasso; ma che, in piú, faceva conoscere molte opere inedite di scrittori famosi del passato, da Cervantes a Leopardi, che egli aveva raccolto per la sua mania di collezionare.

«Gog, però, ha incontrato, come nei lontani anni, paradossisti e lunatici, esibitori di nuove scienze e di nuove teorie, celebrali maniaci e pazzi in libertà, cinici delinquenti e ingenui visionari. Nel loro insieme essi offrono un ritratto fantastico e pauroso, satirico e caricaturale, ma soprattutto, mi sembra, sintomatico e profetico di un’epoca quanto mai malata e disperata. Ciò che sembra divertimento può essere, per gli spiriti piú desti, un salutare ammaestramento».

Tra questi fu inserito anche «il grande savio» Gersolè, una figura che il Papini, interpretando in qualche modo il sentire dell’anima napoletana, andò a ripescare proprio nell’antica fucina dell’epicureismo italico, cioè nel golfo di Napoli, particolarmente a Castellammare di Stabia: una sorta di moderno epicureo, «un savio vecchio, in tutto opposto, per costumi e principi, ai suoi e nostri contemporanei sí da far pensare che sia venuto fuori, come la statua di un filosofo antico, dagli scavi delle città sepolte dal Vesuvio».

Riportiamo interamente la gustosa e ironica pagina:


«Alcuni amici napoletani mi hanno detto che a Castellammare di Stabia vive un savio vecchio, in tutto opposto, per costumi e principi, ai suoi e nostri contemporanei sí da far pensare che sia venuto fuori, come la statua di un filosofo antico, dagli scavi delle città sepolte dal Vesuvio. La perfetta saviezza, in questi tempi di nevrotici e di frenetici, è cosí rara che non ho saputo resistere alla tentazione di conoscere quest'uomo.

Il signor Gersolè m'è parso un uomo tondo e senza manichi. Somiglia vagamente il suo dorso a una gobba spiaccicata e stirata; il suo addome eminente a un palvese imbottito di cenci. Qualcosa di mezzo tra un Sileno moscio e un Pulcinella serio.

Il signor Gersolè afferma di avere ottant'anni ma forse lo dice per civetteria, perché la sua chioma è sempre scura, la sua dentatura quasi intatta, la sua carnagione ancor fresca.

Gli ho domandato a che cosa attribuiva il suo giovanile aspetto a quella tarda età.

Gli amici, mi ha risposto, cianciano volentieri della mia antica saviezza. Ed io li lascio dire. In verità la mia saviezza consiste nell'aver rifiutato tutte le forme della vita. Non ho voluto studiare perché ho sempre saputo, per istinto, che molte conoscenze si dimenticano, molte altre rendono tristi, e le piú sono incerte e fallaci. Non mi sono mai innamorato, perché quella stupida forma di pazzia che consiste nel preferire una sola creatura a tutte le altre ha sempre portato agli uomini irrequietezza, angoscia, delirio, delusioni, furori omicidi. Ho considerato l'amore, perciò, come un semplice bisogno fisiologico, naturale e tranquillo come quello che mi porta a mangiare una pesca matura o a liberar l'intestino dal suo molesto ingombro.

«In tal modo mi son salvato dalla famiglia e da quelle innumerevoli noie, fatiche e servitú che provengono dall'aver moglie e figlioli.

«Non ho voluto neppure impacciarmi di politica. L'amor di patria è una delle tante infatuazioni assurde e funeste dell'uomo moderno. L'amor di patria istilla l'invidia, la superbia, l'ira e altri peccati capitali; è fomite di odio, cioè di guerra, cioè di morte. E a me poco importa d'esser governato dai rossi o dai neri, dai bianchi o dai turchini. So benissimo che sia gli uni che gli altri sbocconcellano la mia libertà e tosano i miei averi. Qualunque sia il partito dominante il buon cittadino è condannato a vivere in una gabbia e a pagare le tasse.

«La religione non l'ho voluta approfondire di proposito, per non aggiungere supplizi a tormenti. Non ci sono che due vie ragionevoli: o negar tutto senza discutere o accettar tutto a occhi chiusi. Per varie considerazioni di comodità personale e sociale ho scelto la seconda e me ne trovo bene. Credo a tutto ma non penso mai a nulla: convien lasciare nel mistero quel ch'è nel mistero.

«Mi hanno consigliato la lettura dei poemi e dei romanzi per passar meglio il tempo. Mi son provato ma ho smesso quasi subito. I poeti mi paiono dei fanciulli svagolati a caccia di menzogne. I romanzieri mi raccontano le storie di certi uomini e di certe donne che se l'incontrassi per caso nella vita con quelle lor ridicole miserie e fissazioni, le sfuggirei come il diavolo sfugge la croce.

«Ho una piccola rendita che mi basta per vivere senza lussi ma senza strettezze, e cosí Dio santissimo e benedetto mi ha salvato dalla soma asinina del lavoro e dalla maledizione, ancor piú atroce, di cercare, di accumulare, di salvare e di amministrare la ricchezza.

«Questo, caro signor Gog, è il mio vero segreto. Io sono un rinunciatario universale e perpetuo; sono il recidivo dimissionario della vita. Avendo rigettato tutte le illusioni e tutte le occupazioni, tutte le catene e tutte le trappole, sono arrivato a quella quietudine della carne e dello spirito che gli agitati e gli ossessi chiamano saviezza. Il mio segreto è tutto qui ».

Ma insomma, ho chiesto al signor Gersolè con tono di voce un po' impaziente, siete felice o no ?

Il grande savio ha chiuso un momento gli occhi, s'è passato la destra a mò di pettine sui capelli della fronte, eppoi, riaprendo gli occhi e fissandomi, ha esclamato:

 


Dopo Il libro nero, Papini scrisse Il diavolo nel 1953, collaborò al Corriere della Sera con le sue Schegge, che poi formeranno alcune raccolte di cui solo una apparve prima della sua scomparsa, La spia del mondo (1955), nella quale chiese agli uomini di comprendere il suo disperato travaglio e la sua vera natura. La morte avvenne nel 1956. Nel ‘57 fu pubblicato postumo il Giudizio Universale, un antico progetto realizzato con l’aiuto della nipote quando ormai non riusciva piú a vedere, a parlare, a scrivere.

Ma non sarà compreso, cosí come egli aveva chiesto, ed anzi sarà colpito da un’immeritata damnatio memoriae, soprattutto per la sua adesione al fascismo e per il suo sorprendente e poliedrico itinerario intellettuale e spirituale.

Eppure fu una grande figura della letteratura e della cultura italiane del secolo passato, una personalità molto complessa, tormentata nella sua ricerca del vero e nella sua tensione verso l’assoluto.



 Post fata resurgo

 

(Da «L'Opinione di Stabia», XII 126 – Set.-Ott. 2008, pp. 18-19).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

per Stab...Ianus

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