GIUSEPPE CENTONZE
Morire a Castellammare
(Luglio-Agosto 2008)
In tutto il mondo è nota la descrizione che Plinio il Giovane nell’Epistola VI 16 fece della morte dello zio Plinio il Vecchio avvenuta a Stabiae durante l’eruzione vesuviana del 79 d. C.
La lettera fu scritta ventisette o ventotto anni dopo il tragico avvenimento e indirizzata allo storico Tacito, interessato a conoscerne i particolari. La riportiamo intera in traduzione:
«Caio Plinio saluta il caro Tacito.
Chiedi che io ti descriva la morte di mio zio, perché tu possa tramandarla ai posteri cosí come avvenne. Te ne sono grato, perché vedo che al suo trapasso, se è celebrato da te, è destinata una gloria immortale. Quantunque infatti egli sia deceduto, come le popolazioni e le città, durante la distruzione delle terre piú incantevoli, quasi perché vivesse per sempre proprio per quella memorabile sciagura, quantunque abbia egli composto moltissime opere destinate a rimanere, tuttavia alla perennità della sua fama darà molto l'immortalità dei tuoi scritti. Secondo me sono beati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere fatti degni di essere scritti o di scrivere fatti degni di essere letti, ma beatissimi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose. Fra questi ultimi sarà annoverato mio zio, grazie ai libri suoi e tuoi. Perciò volentieri accolgo e anzi chiedo il compito che mi proponi.
Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, intorno all'una del pomeriggio, mia madre gli indicò una nube che appariva, insolita per grandezza e per aspetto. Egli aveva preso il sole, fatto un bagno freddo, mangiato qualcosa stando disteso e ora studiava; chiese i sandali e salí in un luogo da cui si poteva osservare al meglio quel prodigio.
Per chi osservava da lontano non era chiaro da quale monte (si seppe dopo che era il Vesuvio) si levava la nube, la cui forma da nessun altro albero piú che dal pino può essere rappresentata. Infatti, lanciata in alto come su un tronco altissimo, si diffondeva in rami, credo perché spinta dal primo forte soffio d'aria e poi lasciata quando quello scemava, o anche vinta dal suo stesso peso si dissolveva in larghezza: talora bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che avesse sollevato con sé terra o cenere.
A lui, uomo di grande erudizione, il fenomeno parve importante e da conoscere piú da vicino. Si fece preparare una liburna; a me offrí la possibilità di andare con lui, se volessi; risposi che preferivo studiare, e per caso proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da scrivere. Mentre usciva di casa, ricevé una lettera di Rettina, moglie di Casco, atterrita dal pericolo incombente (infatti la sua villa era sotto il monte e non c'era via di scampo se non per nave): pregava che la strappasse da quel rischio cosí grande. Egli allora cambiò idea e ciò che aveva incominciato con l'animo dello studioso lo affrontò con l'animo dell'eroe. Fece uscire delle quadriremi, vi salí egli stesso per portare aiuto non solo a Rettina ma a molti (era infatti molto popolato il litorale per la sua bellezza). Si affrettò là donde gli altri fuggivano e puntò la rotta e il timone verso il pericolo, cosí immune da paura da dettare e da annotare tutte le variazioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come le coglieva con i suoi occhi.
Già la cenere cadeva sulle navi, piú calda e piú densa quanto piú si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e spezzate dal fuoco; già un improvviso bassofondo e la frana del monte impedivano di accostarsi alla riva. Dopo avere brevemente esitato se dovesse tornare indietro, al pilota che cosí lo consigliava poi subito disse: “La fortuna aiuta i forti; dirigiti da Pomponiano!”. Questi si trovava a Stabia, diviso dal centro del golfo (infatti il mare s’insinua dolcemente in coste curvate ad arco); lí, quantunque il pericolo non fosse ancora imminente ma tuttavia evidente e, nel suo accrescere, prossimo, [Pomponiano] aveva caricato sulle navi le masserizie, determinato a fuggire se si fosse calmato il vento contrario. Portato invece da un vento a lui molto favorevole, mio zio abbracciò lui trepidante, lo confortò, gli fece coraggio e, per calmare la sua paura con la propria sicurezza, si fece portare nel bagno; lavato, prese posto a tavola e cenò, o lieto o (cosa ugualmente grande) simile a chi è lieto.
Nel frattempo sul monte Vesuvio risplendevano in parecchi punti larghissime strisce di fuoco e alti incendi, il cui fulgore e la cui luce erano messi in risalto dalle tenebre della notte. Egli, come rimedio al terrore, ripeteva che si trattava di fuochi lasciati dai contadini in agitazione e di cascinali abbandonati in luoghi disabitati. Poi andò a riposare e riposò con un sonno profondissimo; infatti il respiro, che a causa della sua corpulenza era piuttosto pesante e rumoroso, era sentito da quelli che passavano continuamente davanti alla soglia. Ma il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempito di ceneri e lapilli, si era talmente innalzato di livello che, se l'indugio in camera fosse stato piú lungo, sarebbe stata impossibile l'uscita. Svegliato, venne fuori e si ricongiunse a Pomponiano e a tutti gli altri, i quali erano rimasti sempre svegli. Insieme discussero se starsene al coperto o vagare all'aperto. Infatti per frequenti e fortissime scosse i caseggiati traballavano e, quasi divelti dalle loro fondamenta, si vedevano ondeggiare ora da una parte ora dall'altra e poi ritornare in quiete. D'altra parte all'aperto si temeva la caduta dei lapilli, anche se leggeri e corrosi, e tuttavia ciò fu scelto nel confronto dei rischi: in lui una ragione prevalse sull'altra, negli altri una paura sull'altra. Si misero sul capo dei cuscini e li legarono con panni; questa fu la loro difesa contro ciò che cadeva dall'alto.
Altrove era già giorno, lí una notte piú nera e piú fitta di tutte le notti, anche se la rischiaravano numerose fiaccole e varie luci. Fu deciso di recarsi sulla spiaggia e vedere da vicino se ormai il mare consentisse un imbarco; ma si manteneva ancora terrificante e ostile. Lí, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese una prima e una seconda volta dell'acqua fresca e la bevve. Poi delle fiamme e un odore di zolfo annunciatore di fiamme spinsero gli altri in fuga e lo ridestarono. Sorreggendosi su due schiavi si mise in piedi, ma subito stramazzò, come io desumo, per la caligine troppo densa che gli ostruí il respiro e gli otturò la gola, che per natura era debole, angusta e spesso infiammata. Quando ritornò il giorno (era il terzo da quello che aveva visto per ultimo) il suo corpo fu ritrovato intatto, illeso e vestito com’era stato: l'aspetto del corpo era piú simile a uno che dorme che a un morto.
Frattanto a Miseno io e mia madre... ma ciò non riguarda la storia e tu non hai voluto sapere altro che la sua morte. Perciò concluderò. Aggiungerò solo questo: che ti ho esposto tutti i fatti ai quali ero stato presente e quelli che avevo udito immediatamente dopo, quando soprattutto le cose vere si ricordano. Tu sceglierai gli elementi piú importanti; altro è infatti scrivere una lettera altro una storia, altro per un amico altro per tutti. Stammi bene».
La bellissima lettera è importante per la descrizione della storica eruzione (definita per questo “pliniana”) e della morte del grande erudito, che in un primo momento aveva deciso di «conoscere piú da vicino» il fenomeno, ma che poi «ciò che aveva incominciato con l'animo dello studioso affrontò con l'animo dell'eroe».
Ma per gli Stabiesi lo è particolarmente. L’antica Stabiae (e di conseguenza la moderna Castellammare di Stabia) fu proprio per essa famosa in tutto il mondo, secoli prima che i settecenteschi scavi borbonici la riscoprissero e facessero conoscere i suoi affreschi ed altri eccezionali reperti.
È proprio vero che una città deve essere memore e riconoscente non soltanto nei confronti degli illustri personaggi che vi sono nati, ma anche nei confronti di quelli che vi hanno trovato la morte; anche quando sia stato il caso o il destino a determinarne il momento e il luogo, come per l’antico scienziato di Como, che ha dato piú lustro e notorietà a Castellammare di qualsiasi altro personaggio, anche nativo.
Ancor piú una città deve essere memore e riconoscente nei confronti degli illustri personaggi non originari che deliberatamente abbiano scelto di finirvi la propria esistenza.
A ben rifletterci, morire per scelta in un determinato luogo ha piú valore che esservi nati. Infatti veniamo al mondo senza saperlo e volerlo e non siamo noi a stabilire quando e dove nascere; ma se preferiamo un posto per attendere la conclusione della nostra esistenza terrena, allora la nostra volontà è palese.
Sono davvero tanti i personaggi che amarono la nostra città e scelsero di passarci parte della loro esistenza o di venirci addirittura a morire. Soprattutto nell’Ottocento, quando importanti famiglie italiane e straniere vi soggiornavano o villeggiavano.
Vogliamo qui ricordare, fra i molti, il caso della nota e amata duchessa Elena d’Aosta (Hélène d’Orléans sposata a Emanuele Filiberto d’Aosta), che visse dal 1919 nella Reggia di Capodimonte a Napoli, dove Vittorio Emanuele III aveva voluto che risiedessero gli Aosta, e che, sloggiata dal nuovo stato repubblicano, ma rimasta legata al territorio partenopeo, volle ritirarsi a Castellammare, nella tranquillità dell’ex reggia borbonica di Quisisana convertita in Hôtel, dove morí il 21 gennaio 1951.
Non è nostra intenzione evocare un’atmosfera quale quella di Morte a Venezia per la nostra città, ma solo evidenziare come alcuni potessero un tempo pensare di concludervi l’esistenza.
Non pochi in passato lo decisero, come dicevo, e non manca neppure qualche episodio clamoroso e straordinario.
Vale, anzi, la pena riportare un caso di suicidio avvenuto nel 1863 davvero singolare, che attirò allora l’attenzione della stampa internazionale, nel quale mi sono imbattuto per caso, tra le pagine di un vecchio numero (20 giugno 1863) del Living Age. Generalmente interessata a opere letterarie e caratterizzata soprattutto dal proporre una selezione dei migliori articoli apparsi sui periodici stranieri, la rivista newyorkese riportava un breve articolo apparso poco prima sul Times.
Non ho fatto nessun riscontro della notizia sul Times o su altri giornali del tempo, ma certamente lo straordinario suicidio preparato per piú di un anno fu molto discusso e studiato. In Suicides et crimes étranges del 1899 Moreau de Tours lo citò tra i casi esemplari di fanatismo per dementia religiosa.
Ripropongo la pagina del Living Age in traduzione:
«A Napoli, dice il corrispondente del Times, un francese di buone condizioni economiche ha per un anno o piú affittato una piccola casa nei pressi dell’hotel La Gran Brettagna, sulla strada per Quisisana, a Castellammare. Singolare nelle sue abitudini, era opinione comune che la sua mente fosse malata. Nei giorni di astinenza egli insisteva perché gli servissero pesci di una particolare lunghezza; negli altri giorni un pollo di una dimensione e di una misura particolari. Guai al proprietario se i suoi ordini non fossero stati rispettati alla lettera. Passava la maggior parte del suo tempo in rigoroso isolamento, dedicandosi a costruire un macchinario, ma di che genere lo si ignorava, perché a nessuno era stato consentito di entrare nella sua stanza. Nella notte del 24 aprile un forte rumore si era sentito nella casa, ma non aveva indotto a nessuna indagine poiché il signor Couvreux era un uomo di tali abitudini particolari. Il giorno seguente, tuttavia, un certo allarme era stato generato perché non lo si era visto ed era stata chiamata la polizia. Alle ripetute bussate non c’era stata nessuna risposta, alla fine era stato aperto un varco attraverso la parete e si era entrati nella stanza, quando si presentò la scena seguente: una ghigliottina perfettamente realizzata era sistemata al centro della porta che conduceva in un'altra stanza; la lama era caduta e da questo lato vi era un corpo, mentre nell'altra stanza vi era la testa della povera vittima della pazzia. Sul tavolo vi era una lettera diretta a suo fratello a Parigi, con espressa la volontà, tra altre disposizioni, di lasciare 1.000 franchi al suo proprietario e 1.000 franchi a un abitante di Castellamare. Regolare nei suoi pagamenti e nel comportamento, sembra avere avuto soltanto uno scopo nella vita, quello di costruire lo strumento della sua morte, il quale viene descritto essere della piú raffinata costruzione. Non vi è niente da aggiungere a questo racconto triste e straordinario, salvo che l'uomo sfortunato si era evirato prima della sua auto-decapitazione».
Anche cosí si andava a morire a Castellammare!
(Da «L'Opinione di Stabia», XII 125 – Lug.-Ago. 2008, pp. 18-19).
(Fine)
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