GIUSEPPE CENTONZE
«Scene e costumi» di Pier Angelo Fiorentino
(Dicembre 2007)
Oggi non è molto conosciuto lo scrittore Pier Angelo Fiorentino, nato a Napoli nel 1809 e morto a Parigi nel 1864.
Eppure ebbe ai suoi tempi una sicura notorietà: prima a Napoli, dove ancor giovane scrisse poesie, novelle, un dramma, un racconto storico e dove fondò alcuni giornali (tra cui, nel 1831, l’Omnibus col Torelli e altri); poi a Parigi, dove acquistò fama per i suoi articoli su giornali come il Moniteur e soprattutto per la sua traduzione in francese della Divina Commedia. Fu anche importante collaboratore di Dumas padre: portava la sua firma la storia Nisida inserita nei Crimes Célèbres e a lui furono attribuite alcune opere di argomento italiano dello scrittore francese, come Le Corricolo e Le Speronare.
Di Pier Angelo Fiorentino c’è una raccolta di bozzetti, Scene e costumi (Napoli, Trani, 1835) scritti in gioventú e non privi di incertezze nella narrazione, eppure pieni della convinzione o perlomeno del desiderio di lanciare in patria un nuovo genere di «letteratura leggiera», anche se in forma di «disadorne e imperfette pitture», come affermava lo stesso autore nella dedica iniziale:
«Io ho qui abbozzato alcune scene, segnatamente del nostro popolo, che mi sembra aver tal’indole e tali usi che meritano d’essere studiati, ed ho imitato que’ pittori, i quali abbattendosi a gruppi che lor vadano a genio ne fanno cosí alla meglio un po’ di schizzo per poi servirsi di quelle fantasie in opere di maggior lena. è questo un piccolissimo cenno del molto che si potrebbe fare in un genere di letteratura leggiera del tutto nuovo tra noi».
E veramente sorprende la modernità della raccolta se si bada soprattutto alla scelta dei temi e al modo di concludere le piccole storie, certamente inconsueti nella narrativa italiana della prima metà dell’Ottocento.
Uno dei bozzetti, La ballerina e il diavolo, è ambientato a Quisisana, dove lo stesso Fiorentino villeggiava. La località è descritta subito, all’incipit, con entusiasmo:
«Tre miglia lontano dalle ruine della sepolta Pompei entra a mano destra una via amenissima in quel pezzo di terra a cui gli antichi dicevano Stabia. Il luogo è posto a filo del mare e si appoggia come ad una spalliera di montagne verdissime di una maravigliosa bellezza. Una tra queste di piú lieve salita ha l’arte fatta piú amena temperandone i dirupi, spianandone i cucuzzoli e vestendola di folti boschetti. E per la freschezza dell’aria che vi si respira, per la salubrità delle acque che ne sgorgano, per le incantevoli delizie del sito, il monte ha nome di guarir l’uomo da qualunque male gli possa mai prendere».
Vi si parla di un insolito, stranissimo personaggio, un giovane malaticcio che si incontrava per le svolte della collina:
«Piú volte i contadini tornando o da falciare l’erbe o da abbacchiare le castagne possono avere incontrato a tarda sera per le giravolte di Quisisana una figura di giovane molto singolare. O per l’ora del tempo o per la serietà de’ pensieri o per naturale stupidità, che tutto questo può essere, egli non pare avvedersi giammai né anche di chi lo saluta. L’estrema pallidezza del volto e un abbattimento di tutta la persona, qualità ben proprie d’un infermo, sembrano ismentire il vanto e il nome di quella salutare collina. E pure il poveretto lotta sempre contro la debolezza del suo corpo o perché ne ha sdegno o perché preso da qualche forte commozione la dimentica un tratto. Allora egli alza la voce e si sforza di cantare, corre per una spianata come un veltro uscito del guinzaglio, si arrampica per una vetta come una capra vagabonda. Cosí è un momento felice, ma ben tosto dee soggiacere alla breve fatica, i suoi deboli pori s’aprono in abbondevole sudore, manca la lena a’ polmoni, e stanco ed ansante è obbligato a sedersi o a sdraiarsi sul fogliame, ed a trovarsi di nuovo in compagnia de’ suoi pensieri ... De’ suoi pensieri ch’egli piú che cosa al mondo vorrebbe fuggire».
Del giovane è detto poi che era vissuto tra libri e studi, creandosi un mondo immaginario e finendo per sognare un amore che aveva creduto di trovare in Carmela, una bella fanciulla sola al mondo, da lui vista come un «angiolo»:
«Alberto l’amò ... le immolò tutti i suoi pensieri, tutti i suoi beni, tutta la riputazione, tutto il riposo dell’anima e della coscienza».
Ma era stato un inganno e un amico aveva avuto «la crudele pietà di trarlo d’errore». Il giovane si era recato incredulo da lei per manifestarle ancora il suo amore e Carmela, in compagnia di un vecchio «malvissuto», si era lanciata scomposta e scarmigliata dalla finestra. Alberto non aveva visto nemmeno il vecchio, invece aveva poi visto solo qualcosa di bianco giú sul prato del giardino.
«Ed altro non vide di questo mondo il misero Alberto per ben due anni. Alfine aveva ricoverato la ragione per intervalli e forse a spese della salute. Tutto infranto e disfatto della persona camminava a tardi passi per le discese di Quisisana. Alcuna volta alleviava con un canto malinconico ed incomposto la memoria de’ suoi affanni che gli pesava ancora sull’anima, ma ben tosto ricadeva nella sua follia».
Una sera vide una figura vestita di bianco che usciva dal bosco, la credette una «fantasima» e si gettò ai suoi piedi implorando di non fargli del male. Si udirono a quel punto le grida di aiuto di un povero mugnaio, ai cui piedi si era attaccato Alberto.
«Ora sí che i medici avranno pena a tornare in senno il giovane mal arrivato. Egli sarà pazzo per tutta la vita».
Di Carmela non s’era saputo piú niente, «perché non si trovò piú né corpo né traccia di lei». Ma ecco l’inatteso, sorprendente risvolto finale con la citazione di un articolo apparso su un giornale francese:
«Il conte di Y... ha sposato una ballerina famosa per la sua bellezza e per la immensa leggerezza della sua persona. Si racconta di lei che qualche anno fa colta in fallo da un suo giovane amante, temendone la giusta vendetta, si lanciò per la finestra e caduta sopra una macchia di lappole da una estrema altezza non si fece alcun male. Convien dire che il diavolo prenda cura delle ballerine».
C’è un secondo bozzetto, Il gioco, riguardante Castellammare, già allora (nel 1835, prima dell’apertura della strada ferrata) molto frequentata da spensierati villeggianti, che, tra gli altri divertimenti, amavano visitare le sale da gioco. Si tratta di un dialogo avvenuto nella carrozza che portava da Napoli a Castellammare, in presenza dell’autore narrante, tra due viaggiatori, i quali si recavano in villeggiatura, uno con la speranza dichiarata di «fuggire il romore delle brigate», l’altro invece per «trovarcelo», visto che «tutta la bella compagnia corre l’està a Castellamare»:
«– Questa è dunque la prima volta che andate a Castellamare?
– La prima volta. E voi pure vi ci ridurrete naturalmente per fuggire il romore delle brigate.
– Niente affatto. Vado al contrario per trovarcelo. Non sapete che tutta la bella compagnia corre l’està a Castellamare?
– Oh diavolo! potessi dismettermi dell’abitazione che ho presa in affitto! Io vado sempre fuggendo questa vostra bella compagnia ed ella mi vien sempre dietro. M’avviene come a quella famiglia che sgombrava della casa per paura degli spiriti, e si vide scendere appresso per la scala Farfarello che ajutava a portare i piatti. E che si fa la sera a Castellamare?
– Si gioca».
Basta questa risposta per provocare una invettiva contro la diffusa moda del giocare, con la descrizione mordace di scenette e figure:
«– Si gioca, si gioca, corpo della Luna, e da capo col gioco. Non sapete altro che giocare, non c’è altro bene, altro piacere, altro studio che il gioco. Tutte le sale sono divenute bische, tutti i deschi son tavolieri. Opera veramente leggiadra! Gentilissimo progresso del secolo! Altra volta pur si giocava, ma in luoghi appositamente mantenuti, si aveva quasi un rossore nel mettervi piede e molti se ne rimanevano o per timore o per vergogna. Camere segrete ed infernali illuminate da una fioca luce nascondevano altrui i gridi, la disperazione, la morte del figliuolo discolo, del padre di famiglia ruinato. E il vedere quelle facce pallide e allungate, que’ petti consunti, quegli occhi impietriti metteva ribrezzo. L’entrare in una casa di gioco era piuttosto una scuola che una tentazione. Ora il giocare è moda. E chi non gioca è tenuto per un miserabile, un ridicolo, un infelice, parola che dinota in compendio un uomo a cui le belle non debbono mai dirigere la parola, e che i giovani quando l’incontrano a’ teatri e ai diporti non debbono mostrar di conoscere. Ne’ tempi passati a voler esser presente a qualche opera o aver parte in un ballo, bisognava aver pure imparata a balbettar qualche parola, a distinguere qualche cosa, per applaudire o biasimare un attore, per rompere la testa a qualche poeta, per invitare una signora alla danza e trattenerla un pezzo. Bisognava avere un po’ di grazia, d’istruzione, di maniera. Ora niente di tutto ciò. Il teatro è una noja, il ballo è una cosa vieta e scaduta, i bei modi una goffagine. Entra a passi veloci in piena sala un cavaliero, puzzolente di fumo, questo è di rito, con un’aria di viso cupa ed affacendata. Urta de’ gomiti la folla, se fa inchino alla padrona di casa è un soprappiú, sgomina il circolo, afferra una sedia e scommette. Oh il grand’uomo! E perché tutti guardano in lui? Perché dimani tutti dovranno vestire alla sua foggia. E pur sembrerebbe a prima vista che la sollecitudine del guadagno e l’ansia del pericolo gli abbiano fatto deporre ogni cura del suo vestire. Quella cravatta messa in isbieco, quella camicia floscia e pesta, que’ capelli scomposti, que’ peli bruni non ben corretti dal rasojo. Non signore. Dimani barba lunga, cravatta rovescia, camicia scipata alla X... Quel signore è la figurina della moda. Ogni sera perde cento Napoleoni. Quando egli sarà al verde verrà un’altra figurina».
Persino le donne, continua il viaggiatore, hanno perduto ogni delicatezza e nobiltà e «il loro cuore batte alle palpitazioni del gioco e non piú dell’amore»:
«Il peggio è che le donne, la piú cara parte del mondo, dotate di belle anime, di fibre delicate, di squisito sentire, rendono ne’ crocchi moderni un tristo e malauguroso spettacolo. Il loro cuore batte alle palpitazioni del gioco e non piú dell’amore. è una dolorosa ironia il contemplare quei cari volti fatti oscuri da una ignobile agitazione, gli occhi impietriti, le labbra contratte, la persona inclinata; il vedere que’ caldi spiriti abbandonarsi alla gioja o al dolore, affetti suavi e celesti in una donna, per un poco di oro, e incoraggiare col sorriso e con l’esempio i mariti a rovinare in una sera la rendita della casa e la dote delle figliuole. E pure un tempo le donne facevano risonare di rimproveri le stanze a tarda sera quando sospettavano che le lor care metà tornassero dal gioco. Questo è un altro bel passo per la tranquillità domestica. La marchesa di K... diceva l’altra sera tre bestialità per ogni parola, una di senso, l’altra di grammatica e l’altra di pronuncia. Un fanciullo appenna divezzato che le serve d’amante, se le accostò di soppiatto e le disse all’orecchio
– Marchesina mia (la marchesa ha rotti i novant’anni) quella mezza gentildonna ha riso di voi con tutti que’ cavalieri che le stanno intorno, perché avete demandato se Guglielmo Tell era turco.
– Chi? quella infelice? rispose la marchesa raddoppiando per la bile il giallore della vecchiaja. Ora te la subisso. E cavata fuori la borsa cominciò a far ballare sul tavoliere le onnipotenti monete d’oro. Allora tutti gli eleganti che ronzavano intorno alla giovane, si affollarono intorno alla marchesa come uno sciame di mosche ad un bicchiere di latte, e quella poverina rimase sola in un canto come una condannata.
– E poi una piccola ruberia al gioco è una gentilezza in una sala quando si fa con grazia, e poi tante ruine, tante cabale, tanti intrighi, e poi, ... e poi ...
– E poi ... siamo giunti a Castellamare».
Anche qui la conclusione è sorprendente:
«Per allora ci congedammo. La sera io andava in una casa dove si riunisce il bel mondo a giocare. Per la scala fui urtato dal mio compagno di viaggio il quale riconosciutomi, e continuando il discorso
– E poi, mi disse, io avea ragione questa mattina. Ho perduto le ultime cento piastre che mi rimanevano.
Non seppi che rispondergli. La maraviglia mi tolse le parole».
(Da «L'Opinione di Stabia», XI 121 – Dicembre 2007, pp. 18-19).
(Fine)
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