GIUSEPPE CENTONZE
Il Sarno dei poeti, dei miti e delle fiabe
(Gennaio 2007)
Se si considerano i danni ambientali che ha subíto e di conseguenza ha creato il Sarno, soprattutto nell’ultimo cinquantennio, si stenta a credere che questo fiume sia stato cantato in passato come il luogo proprio dei poeti, oltre che dei miti e delle fiabe.
Tralascio le fonti antiche e medievali, delle quali parlai nell’articolo Dal Sarno all’Arno del 1989 (aggiornato nel volume Stabiana del 2006), e riprendo il discorso dal punto in cui lo lasciai, e non per continuare ad analizzare il curioso ed equivoco rapporto del fiume abitato dai Sarrastri con quello degli Etruschi dal simile nome, ma per mostrare il suo nobile e rispettabile passato anche attraverso importanti testimonianze letterarie napoletane dell’Umanesimo e del Rinascimento (a partire dal Pontano e dal Sannazaro, ai quali allora già accennai) e del Seicento.
Con raffinata eleganza, alla fine del Quattrocento, il Pontano nel De amore coniugali invocava in latino l’aiuto dei giocondi e teneri Lepori, figli di Dulcidia, abitanti fra le dolcezze delle case e dei campi di Partenope, del golfo di Stabia, dei recessi del Sarno e delle coste sorrentine, perché alitassero sui suoi canti e li addolcissero col loro soffio:
«E voi, figli di Dulcidia, che abitate tra le dolci case di Partenope, tra i campi felici per il dolce suolo, tra le insenature di Stabia e i recessi del Sarno e tra le coste note per i colli di Sorrento, alitate su questi canti, o scherzosi e teneri Lepòri, e una lieve aura addolcisca con nuovo alito, come quello che spirava dal niveo seno la divina Melissa quando dava il latte ai teneri figli».
Invece in Lepidina (1496 circa) egli si riferiva, ancora in latino, all’aspetto orrido dei piú interni e rocciosi luoghi sarrastri (noti come Foci) raggiunti da uno dei due fiumi di lava simili a due zanne che uscivano dalla bocca di uno spaventoso, figurato Vesuvio:
«Ho paura, sorella, ma lo dico: dalla sua bocca si incurvano due zanne, una che raggiunge, nera, il mare e solleva feroce flutti e rive, l’altra le foci sarastre, le orride pietre del Sarno».
Jacopo Sannazaro, che già nell’Arcadia aveva citato le onde del «freddissimo Sarno» che irrigano Pompei, successivamente, nelle Eclogae (Proteus), spinto dall’amore «a cantare convenientemente le antiche glorie della cara terra», parlava delle «correnti del Sarno» da celebrare in versi:
«e canta vincendo il fragore degli scogli del Faro e celebra le balze dirupate dei Telebi e le correnti del Sarno ed i campi opulenti».
Nei Salices, poi, riportava una bella storia sul fiume e sulle divinità che lo frequentavano:
«Per caso tra le verdi ginestre, se è vera la fama, i Satiri dai piè di capra e qua e là i Pani, divinità agresti, con i Fauni e i Silvani, che vagano per i monti, mentre il sole affaticava le roche cicale per i campi, evitavano la calura, dove il Sarno irriga poco profondo le fertili campagne e con placido corso cerca il mare - è grata la quiete dei boschi, mentre sgorgano da ogni parte le acque e gli Zefiri crepitano tra i folti ontani - e mentre provano i suoni con le dita premute, e con la morbida cera chiudono i fori, modulando canzoni con vario suono, le Ninfe dai capelli d’oro spiano dal verde leccio aprendo la bocca con risate squillanti.
Alla fine si fermano tremanti presso le onde e si strappano dal capo i biondi capelli con lacrime, gemiti e penosi lamenti, e invocano il Sarno e le sorelle Ninfe delle fonti. E mentre invocano, dalle parti piú profonde accorre in fretta tutto il coro delle Naiadi; accorre il cerulo re della limpida onda, il Sarno, e solleva con le onde una inesauribile massa di acque, con voce cupa. Ma che cosa possono o il Sarno o le schiere delle Naiadi nuotanti, quando si oppone il ferreo fato e le leggi come il duro acciaio sono inflessibili?».
Nei primi decenni del Cinquecento anche l’umanista Pomponio Gaurico celebrava in greco la corrente del Sarno nell’Inno a Fabrizio Brancia:
«Non un solo pesce ti porterà oro nei suoi lombi, ma tutti insieme quanti nuotano nel mare etrusco, quanti popolano gli scogli delle Sirene e il promontorio di Atena, il promontorio che ora i mortali chiamano “divina costiera”, [...] Sorrento, Massa, Vico, l’amabile Stabia e la corrente del Sarno e la dimora dei Teleboi, Capri, un tempo solamente regale sede di grandi signori, ora dimora di poche capre e umili uomini».
Nelle sue liriche Luigi Tansillo cantava il Sarno come uno dei luoghi ideali e cari, anche se non illustri, presso cui poteva felicemente vivere e comporre i suoi versi in volgare.
In un sonetto al «chiaro Ruscelli» (Son. 7) egli affermava:
Lodan vostra inclit’opra il Tebro, e l’Arno,
L’Apennin, l’Alpe, il mar d’Adria, e ’l Tirreno;
Ma piú che l’acque illustri, e ’l bel terreno,
Il mio Vesevo, il buon Sebeto, e ’l Sarno.
In un altro (Son. 46), rivolgendosi ad un poeta dall’«altera tromba», era esplicito sulle proprie preferenze di «umile» poeta:
Fate voi risonar per ogni lido
la vostra altera tromba [...]
A me fia assai, lungo il Sebeto, e il Sarno,
Gonfiar l’umil sampogna.
E nel Son. 59 raccomandava il «cener» suo, essendosi ammalato in terra toscana, lontano dalla sua terra:
Mentre lunge dal ricco e nobil piano,
Ch’adombra il gran Vesevo, e bagna il Sarno,
Di regno in regno io corro il mondo, e indarno
Cerco al crin di fortuna gettar mano.
Nel Son. 188 ammetteva le sue debolezze:
E sol pensai scherzar fra il Liri, e ’l Sarno,
Non già che ’l Tebro l’ascoltasse, e l’Arno.
E nel Son. 219 cosí descriveva il suo «bel regno»:
Or quando uom pensò mai, che ’l mio bel regno
Vedesse, ov’entra al mar Sebeto e Sarno,
Liri e Volturno, e ’l Tebro, ch’ho sí a sdegno.
Nel poemetto Il Vendemmiatore indicava i campi bagnati dal Sebeto e dal Sarno come degni di essere onorati:
Dal mar d’Adria al Tirren, da Leuca a i monti
Che fan siepe tra noi e Alemagna,
Non trovò luoghi ad onorar piú pronti,
Che i lieti campi sua persona magna,
Dove Sebeto e Sarno han foci e fonti.
Nel Podere cosí confessava il suo desiderio di condurre gli ultimi anni della sua vita «tra Sebeto e Sarno»:
Cosí potess’io, tra Sebeto e Sarno,
menar omai la vita che m’avanza
con le ninfe del Tevere e de l’Arno,
da le quai fei sí lunga lontananza;
e, de’ signor sgannato di qua giuso,
fondar nel Re del cielo ogni speranza!
Deh sarà mai, pria che giú cada il fuso
degli anni miei, che a’ piè d’una montagna
mi stia, tra colti e arbori rinchiuso;
e con la mia dolcissima compagna,
qual Adamo al buon tempo in paradiso,
mi goda l’umil tetto e la campagna,
or seco a l’ombra, or sovra il prato assiso,
or a diporto in questa e ’n quella parte,
temprando ogni mia cura col suo viso?
E ponga in opra quel ch’han posto in carte
Cato e Virgilio e Plinio e Columella,
e gli altri che insegnar sí nobil arte;
e di mia mano innesti, e pianti, e svella
la spessa de’ rampolli inutil prole,
che fan la madre lor venir men bella;
e con le care figlie e, se ’l ciel vòle,
spero coi figli, a tavola m’assida,
la state ai luoghi freschi, il verno al sole;
e di mia man fra lor parta e divida
l’uva e le poma; e, s’io mi desti o corche,
con loro io mi trastulli e scherzi e rida?
Alla fine del secolo, a fronte degli elogi dei poeti, suscita invece curiosità quel che diceva Giordano Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante del 1584, e cioè che non è un posto adatto per il «protoparente de li agnelli» quello intorno al Sarno, dove gli ovini sono «macilenti»:
«mi par convenientissimo ch’egli si trove circa il Tamisi, dove ne veggio tanti belli, buoni, grassi, bianchi e snelli. E non son smisurati, come nella regione circa il Nigero; non negri, come circa il Silere ed Ofito; non macilenti, come circa il Sebeto e Sarno».
Nel Seicento troviamo citato il fiume nell’Adone (1623) di Giovan Battista Marino mentre il famosissimo poeta della «maraviglia» dichiarava la vena partenopea del suo «foco poetico», alimentato in particolar modo presso il «bel Sebeto», che andava «pomposo e lieto» tra il Sarno e gli altri fiumi campani:
Posciaché quindi le lombarde arene
ha tutte scorse e quanto irriga l’Arno
e quinci di Clitunno e d’Aniene
e d’altri frati lor le rive indarno,
a visitar dal Gariglian ne viene
Crati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno
e vede irne tra lor pomposo e lieto
degli onori di Bacco il bel Sebeto.
Quivi tra ninfe amorosette e belle
trovommi a conquistar spoglie e trofei.
E seben tempo fu ch’io fui di quelle
già prigionier con mille strazi rei,
alme però non ha sotto le stelle
che sien piú degni oggetti a’ colpi miei,
né so trovar altrove in terra loco,
dove piú nobil esche abbia il mio foco.
(IV 31-32)
Nello stesso secolo il Sarno compariva ne Lo cunto de li cunti (1630 circa) di Giambattista Basile; è infatti uno dei luoghi abitati da fate citati ne Lo scarafone, lo sorece e lo grillo:
«Ma non fu arrivato all’acque de Sarno che, drinto no bello voschetto d’urme, a pede na preta che pe remmedio de no rettorio perpetuo d’acqua fresca s’era ‘ntorneiata de frunne d’ellera, vedde na fata che se iocoliava co no scarafone, lo quale sonava de manera na chitarrella che se l’avesse sentuto no spagnuolo averria ditto ch’era cosa sopervosa e granniosa».
Alla fine del secolo, il poeta gesuita Niccolò Partenio Giannettasio cantava, di nuovo in latino, la caratteristica vegetazione intorno al Sarno. Nei Nautica si leggeva delle verdi canne con cui il fiume donava ombra alle sue rive (viridi praetexit arundine ripas):
«Appaiono i campi che col vago corso il Sarno bagna e le rive ombreggiate colle verdi canne».
E negli Autumni Surrentini ancora compariva il Sarno coi suoi canneti verde-azzurri (glauca praecinctus arundine).
Negli stessi anni Gabriele Fasano ne Lo Tasso napoletano (1689) esaltava invece la quantità delle sue acque potabili quando affermava che nemmeno la sua foce sarebbe bastata agli assetati cristiani intorno al Siloè seccatosi per il gran caldo:
Né la foce de Sarno llà - ssentite -
nce vastarria a ffarele ccontïente.
Qui ci fermiamo. Un’altra volta spigoleremo tra scrittori e viaggiatori del Settecento e dell’Ottocento, cogliendo elogi inaspettati, ma anche i primi segni di una realtà che sarebbe cambiata in peggio per colpa dei novelli e non piú rispettosi Sarrastri viventi sulle sue rive.
(Da «L'Opinione di Stabia», XI 115 – Gennaio-Febbraio 2007, pp. 20-21).
(Fine)
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