GIUSEPPE CENTONZE
Il ponte delle Figlióle
(Dicembre 2006)
Amedeo Maiuri (1886-1963) non fu soltanto il grandissimo archeologo apprezzato in tutto il mondo per la sua intensa attività variamente esercitata con la direzione di scavi e musei, con l’insegnamento e con le numerose pubblicazioni riguardanti in notevole parte le antichità della Campania; fu anche un innamorato della nostra regione, che egli osservò e descrisse in bellissime pagine di alto e riconosciuto valore letterario, culturale e umano.
Per le sue Passeggiate campane, pubblicate per la prima volta da Hoepli a Milano in due serie (1938-1940), poi piú volte ristampate o aggiornate (citiamo le edizioni fiorentine di Sansoni a partire dal 1950 e quella milanese di Rusconi del 1990), ottenne anche il Premio Valdagno nel 1951.
Ho innanzi l’edizione Rusconi del 1990 (collana Orizzonti della storia). Nel capitolo XIX, intitolato Nell’agro pompeiano, compare l’articolo Il ponte delle «Figlióle», datato «maggio 1949», denso di notizie, di curiosità e di immagini, che qui si ripropone all’attenzione degli Stabiesi, soprattutto di quelli che, pur conoscendo il ponte sul Sarno cosí chiamato, forse non sanno il perché di un nome tanto singolare.
Maiuri inizia il suo fine scritto con l’immagine del ponte ricostruito nei «colori di fuoco acceso e di fuoco spento, che sono come la sintesi di questa terra», dopo essere stato distrutto durante il secondo conflitto mondiale, ma senza le quattro figlióle che prima ne adornavano le testate:
«Il ponte, fatto saltare dai tedeschi, è stato rifatto lucido e nuovo e, secondo le buone regole dell’architettura paesana, con l’arcata in mattoni rossi fiammanti e il prospetto e le céntine in pietrarsa: colori di fuoco acceso e di fuoco spento, che sono come la sintesi di questa terra. Ma le figlióle non ci sono piú: l’uragano della guerra le ha fatte fuggire via; forse le ha distrutte e sepolte per sempre».
L’annotazione richiamata al termine del brano riportato contiene amare considerazioni sui danni dello stesso genere provocati dalla guerra:
«Non è purtroppo il solo storico ponte in Campania dell’amabile trapasso fra ottocento e novecento, che la guerra ha distrutto. Anche il Ponte in ferro sul Garigliano non ha riavuto e non riavrà forse piú le sue Sfingi; né piú il bel ponte sospeso di Maria Cristina, alla stretta di Solopaca, valicherà le minacciose acque del Calore».
Segue la bella, efficace descrizione delle figlióle che ornavano il ponte, «quattro Sirenette» col «corpo terminante a coda» e col «volto gentile e sereno di giovanette costumate»:
«Erano quattro Sirenette che decoravano appaiate, due a due, le testate del vecchio ponte borbonico costruito sul Sarno in ricordo di due avvenimenti che non andrebbero dimenticati: la bonifica del Sarno, il vecchio fiume di Pompei e dell’agro pompeiano, e il passaggio della prima ferrovia napoletana tra Napoli e Castellammare. Con il torso nudo eretto poggiavano bellamente il corpo terminante a coda sul poggiolo del ponte; ma avevano il volto gentile e sereno di giovanette costumate, sicché quella procace nudità e quel corpo anguiforme nessuna grazia toglievano all’onesto comportamento delle quattro donzelle».
Il loro ricordo è necessariamente legato da Maiuri a quello del vecchio ponte, costruito con criteri e materiali allora nuovi, ma con agganci alla tradizione classica:
«Il ponte era a travate di ferro e tavolato di legno, grande ardimento per quei tempi, e gli architetti di allora avevano escogitato quell’amabile compromesso fra l’antico e il nuovo, fra il classico e il romantico: travate in ferro e Sfingi e Sirene a guardia delle testate, talvolta con gli anelli delle catene dei ponti sospesi raccolte fra le zampe delle Sfingi o fra le braccia delle Sirene in fraterno connubio: era un innocente modo per farsi perdonare quei primi peccati di novità».
Le quattro Sirene, che volevano richiamare il mondo pagano anche in omaggio alle mode neoclassiche e che erano tuttavia forgiate in una materia rozza o per lo meno inconsueta per le opere d’arte, non mancarono di suscitare sentimenti di simpatia o di empatia nelle donne del posto:
«Le Sirene sul Sarno erano di ghisa, di ferraccio fuso, prima concessione alle armature metalliche dei nuovi ponti, ma per quanto rugginose fossero, spiravano tale aria di bontà che massaie e colone avevano finito per chiamarle le figlióle, come se fossero anch’esse di casa e stessero vicino alle masserie, a un angolo della strada, in paziente attesa di collocamento. Ogni madre che passava sul ponte, vedeva venirsi incontro sorridenti e pazienti quei quattro volti aspettanti, e pensava sospirando alle sue figlióle da marito.
Non erano proprio un’opera d’arte quelle quattro Sirene poggiate alle testate del ponte allo stesso modo con cui le avrebbero poste, dorate e lucenti, alle quattro testate d’un letto matrimoniale, o alle angoliere d’un comò o d’uno scrigno foggiato alla maniera neoclassica del tempo. La moda era venuta da Pompei, da quando, nei primi scavi, era apparso alla luce il famoso tripode in bronzo con le zampe cesellate e foggiate elegantemente a cauli di acanto da cui spuntavano a mezzo il corpo ignude bellissime Sfingi; d’allora bronzisti, stuccatori e intagliatori s’erano dati a modellare, a cesellare e a tornire Sfingi e Sirene che sembrava si dovesse rivivere fra i mostri della favolosa età pagana».
A questo punto Maiuri allarga il suo sguardo al tratto finale del Sarno, quello sul quale affaccia il ponte delle Figlióle, tratto distinto da una serie di canali di irrigazione e paragonato in passato al delta del Nilo:
«Dal ponte si seguono le magre acque del fiume che arriva esausto alla foce, dopo essersi generosamente dissanguato nei canali d’irrigazione dai monti di Sarno al mare, di guisa che, dice un grave storico del tempo e senza tema d’apparire ampolloso, “le campagne irrigate dànno sembianza del Delta innaffiato dal Nilo”».
Non so a chi appartenga la citazione, ma l’immagine del delta dl Nilo non è unica; la ritrovo nel Viaggio pittorico nel Regno delle due Sicilie (1829 circa) di Raffaele Liberatore:
«Vedesi il piano da’ rami del fiume e da molti canali d’irrigazione ed altri maggiori cosí da ogni dove intersecato, che rende immagine dell’Egitto al tempo delle inondazioni del Nilo».
Il nostro archeologo passa quindi alla descrizione della fertile parte del territorio pompeiano e stabiano attraversata da quel tratto del Sarno, sulla quale affaccia il ponte:
«Siamo nel regno dei cavoli, della classica brássica pompeiana decantata da Catone e da Columella. Filari e filari di cavoli a perdita d’occhio tra casali rossi, ruote di norie gementi al passo di un malinconico ciuco a cui chissà quali tristi pensieri ispira quel lento movimento all’ingiro, e rivoletti di acqua convogliati, arginati, sorvegliati che, con la magra di quest’anno, sono un vero tesoro spillato a goccia a goccia dalle vene della terra. Sono gli Orti di Schito, il miglior dono fatto dal Vesuvio nell’eruzione che seppellí Pompei, Stabia ed Ercolano».
Quegli Orti avevano occupato l’antico lido e l’antico porto colmato da ceneri e lapilli e diventato «terra benedetta fatta di fuoco spento e a cui basta una stilla d’acqua a riaccendere un fuoco esplosivo di fecondità»:
«Il lido antico doveva arrestarsi qui, prima del gomito che fa oggi il letto del fiume tra il mulino Bottàro e il Ponte della Pérsica. Il porto con le banchine, i magazzeni per le derrate, un piccolo borgo marinaro, un’ancora di ormeggio, si son trovati poco discosto negli scavi ardimentosi di Matrone e di Fienga; e qui le navi che venivano dall’Africa e dall’Egitto, dopo aver doppiato la Petra Herculis, lo scoglio di Revigliano sacro ad Ercole invitto, drizzata la prua al tempio eminente sul colle di Pompei, abbassate le vele, superavano a forza di remi la barra della foce e, entrate nelle placide acque dell’estuario, libavano le ciurme ad Ercole e a Nettuno.
Un’enorme colata di ceneri e di lapilli colmò il porto, l’estuario e la rada, continuò a fluire con la corrente del fiume e creò questa distesa di campi con una cosí fitta trama di strade, di ferrovie e di canali, di case e di opifici, che a guardarla sulla carta non si sa come raccapezzarcisi. Ma la terra qua e là è scarsa; il piú dei canali è fittizio, scavati dai coloni per trarne terreno da rincalzare i solchi delle piantagioni, e tutti si attendono che gli scavi di Pompei compiano il resto del dono fatto dal Vesuvio; diano la fertile terra degli scarichi ammonticchiati all’esterno delle mura per altri lunghi filari di cavolaie e di carciofaie, e per una piú fitta distesa di verdure.
Se i nostri reggitori avessero la cocente passione che da Catone laziale a Virgilio mantovano e campano, è stata e sarà sempre la vera grande passione della nostra gente, comprenderebbero che cosa significa un metro quadrato di piú di questa terra benedetta fatta di fuoco spento e a cui basta una stilla d’acqua a riaccendere un fuoco esplosivo di fecondità».
Questa la conclusione di Maiuri sulle ultime Sirene del Sarno diventate delle buone figlióle da marito, poi scomparse dal ponte e dal ricordo, anche se il ponte è ancora detto delle figlióle:
«Ma sono scomparse le ultime Sirene anche dal sacro fiume di Pompei, senza canzoni lascive e senza avanzo di orridi pasti di umane ossa biancheggianti di naufraghi. Archeologi e storici continuano, fra il divino canto d’Omero e scolii di grammatici, a ricercare la Sirena Parténope da un capo all’altro del golfo, fra l’introvabile torre del Fálero e le ripe del Sebéto inquinato, piú del Flegetonte, dagli scarichi bituminosi e dalle esalazioni fumiganti e pestifere della zona industriale; e nessuno ricorda che Sirene sulle ripe del Sarno erano diventate ormai delle buone figlióle, oneste gentili e costumate, delle figlióle anch’esse da marito».
(Da «L'Opinione di Stabia», X 114 – Dicembre 2006, pp. 16-17).
(Fine)
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