GIUSEPPE CENTONZE
I pellegrinaggi al Faito
e il miracolo di S. Michele
(Luglio-Settembre 2006)
Anche Castellammare, spesso descritta come una piccola Napoli, con i pregi e i difetti del capoluogo, ha visto nella sua storia religiosa un miracolo paragonabile a quello di S. Gennaro, ossia la sudorazione dell’antichissima statua marmorea di S. Michele, situata nella chiesetta sul Faito edificata da S. Catello e dedicata all’Arcangelo.
Il prodigio si ripeteva soprattutto in occasione degli annuali pellegrinaggi che vi si facevano per la ricorrenza della dedicazione della chiesa (1° agosto) e per la festa del Santo (29 settembre) e che cominciavano già prima delle due date. La tradizione sembra molto antica, anche se il primo caso conosciuto è quello verificatosi il 13 giugno 1558, quando erano accorsi sul monte alcuni Sorrentini invocando e ottenendo l’aiuto dell’Arcangelo perché i Turchi avevano saccheggiato e volevano distruggere completamente la loro città.
Sullo straordinario fenomeno, la cui memoria appare oggi affievolita, e sui pellegrinaggi proponiamo alcune significative testimonianze.
Cominciamo dall’Anonimo Sorrentino (la fonte medioevale che parla di S. Antonino e S. Catello), secondo il quale già nella prima provvisoria costruzione lignea, fatta sul Faito in onore di S. Michele Arcangelo dai due santi prima che S. Catello venisse accusato e imprigionato, si recavano moltissimi fedeli e ne ricevevano “benefici straordinari”:
«Accorrono da parti vicine e lontane e sciogliendo i voti promessi in cambio delle tribolazioni, ricevuta la consolazione, gioiosi ritornano alle proprie case».
Riportiamo poi quanto autorevolmente affermava sul miracolo il vescovo mons. Milante, nella sua fondamentale opera De Stabiis, Stabiana Ecclesia, et Episcopis ejus (Napoli 1750):
«Mentre dai Canonici ed Ebdomadari della Cattedrale della Chiesa stabiana il 31 luglio sono cantati i primi Vespri della dedicazione della nominata chiesetta in onore del santo Arcangelo, all’intonazione del cantico Magnificat la statua marmorea di S. Michele diventa pallida, poi terrea e la si vede col volto variato, poi comincia a grondare un sudore come manna o meglio acqua limpidissima, che scorre in gocce ed è deterso da un sacerdote vicino con ovatta, e subito dopo ritorna al proprio colore».
Il Milante richiamava i molti casi citati nelle fonti d’archivio e, anche per fugare ogni dubbio che potesse essere il caldo dell’estate e la molta folla a causare il prodigio, ne elencava tre –nel 1690, nel 1734 e nel 1748– in cui esso non si era verificato, pur essendo accorsa moltissima gente e facendo molto caldo, mentre invece la statua aveva sudato il 29 settembre dello stesso 1748, quando erano pochi i presenti, e alla metà di giugno del 1558, quando erano accorsi i Sorrentini. Continuava poi coi pellegrinaggi che si facevano il 1° agosto e il 29 settembre:
«Spinti dunque da questi prodigi, non solo gli Stabiesi, ma anche i Sorrentini, gli Agerolesi, i Nocerini e tutte le popolazioni vicine e altre molto distanti ogni anno in massa sono soliti confluire al detto monte e, in numero di giorno in giorno accresciuto, per devozione salgono là, offrono i voti, portano le offerte e bagnati di lacrime, rinfrancati dai Sacramenti, lodano Dio».
Ma non sempre i pellegrinaggi si poterono fare, perché in vari e a volte lunghi periodi l’edificio fu reso impraticabile per il clima sfavorevole, che lo danneggiava gravemente, o per altre circostanze. Catello Parisi, ad esempio, nel Cenno storico-descrittivo della città di Castellammare di Stabia (1842), nel descrivere la spianata del Faito dove per lo piú si raccoglievano i pellegrini, lamentava l’interruzione della festa dopo il 1820 (ma pare che la chiesa fosse stata distrutta da un incendio nel 1818):
«Da remotissima epoca sino al 1820 sparsa vedeasi in ogni anno nel luogo la Conocchia nominato d’innumeri tende e capanne che la idea davano di una colonia errante o di una città silvestre durante i giorni della festività di S. Michele sul monte Aureo, e tutto v’inspirava la gioja ed il diletto. Una popolazione a gara vi accorreva di oltre a sei mila persone di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione, di ogni paese. I festivi fuochi i musicali concerti e gli amichevoli inviti ne rallegravano quell’aria dolcissima. Quanto desiderati or sono quei tempi dilettosi!».
Nell’Appendice dello stesso Cenno, rievocando il miracolo ed auspicando il recupero della festa nella chiesa da poco ricostruita, egli aggiungeva:
«Nella festa di S. Michele tutti ne sospiravano il miracolo ché mentre dai canonici ed eddomadarî della cattedrale s’inalzava nel Vespro il canto della Magnificat vedevasi la statua cambiare in pallido colore ed abbondante sudore versare che in fervoroso zelo veniva dai fedeli religiosamente col cottone raccolto. Siffatto miracolo era la gioja di tutti e la speme dei loro voti [...].
Di presente la cappella del monte Aureo ristaurata non à guari tempo dopo il danno recatole da un fulmine o da altra imprevveduta cagione è con ispeciale permesso della nostra curia vescovile aperta soltanto al religioso zelo del fedele che chiede visitarla. E però il pio desiderio della festa di S. Michele sul monte Aureo è nel cuore di tutti».
La chiesa ricostruita fu consacrata il 29 luglio 1843 dal vescovo mons. Scanzano e già il 31 luglio, dopo la messa e le preghiere, si verificò la sudorazione. Qualche giorno dopo, lo stesso vescovo presentò parte della bambagia che era servita per asciugare il sudore al re che soggiornava a Quisisana.
Furono cosí ripresi i pellegrinaggi, anche se con minore partecipazione di popolo. Cosí l’Alvino nel Viaggio da Napoli a Castellammare del 1845:
«Solevasi una volta accorrere in gran folla su questo monte da’ fedeli, ed era una gran festa il 29 luglio e 1 agosto. Oggi vi si va, ma non è piú quella gran gente ch’era una volta. Pure se i miei viaggiatori son padroni del loro tempo scelgano quella notte per una tal peregrinazione. Farà loro un bell’effetto il monte illuminato da mille fiaccole e falò».
Col tempo si tornò a partecipare in massa come prima e il rinnovato fenomeno della folla di pellegrini e del prodigio di S. Michele suscitò curiosità o attenzione tra i viaggiatori e villeggianti stranieri. La marchesa Elisabetta Rosalia di Sassenay, che visse quindici anni a Napoli a partire dal 1855, soggiornando per lungo tempo anche a Castellammare, ci ha lasciato la sua interessante testimonianza sul pellegrinaggio fatto un 29 settembre (da porre presumibilmente tra il 1856 e il 1857) e sulla sudorazione della statua, da lei considerata un tipico segno della superficiale religiosità del popolo napoletano, il quale mai avrebbe tollerato dubbi o obiezioni in proposito:
«Sulla cima di una montagna di Napoli (il monte Sant’Angelo) c’è una cappella dedicata a San Michele che si apre solo il 29 settembre, giorno della festa del santo. In questo anniversario memorabile migliaia di pellegrini si arrampicano durante la notte sulla montagna per assistere all’apertura della cappella, dove si dice la messa solamente quel giorno.
Con un gruppo di amici facemmo un anno, di giorno, quest’ascensione. Le funicolari non esistevano ancora, montammo prosaicamente su degli asini, con le provviste. Raccomandati al canonico titolare della cappella, il quale anche lui non veniva che per questa festa, fummo accolti molto gentilmente. Egli ci offrí ospitalità nella sua piccola sacrestia e cenò con noi. Venuta la notte, si divise la stanza in due: lato degli uomini, lato delle donne. Inutile dire che nessuno dormí, ma le ore passarono rapidamente. Si rideva, si chiacchierava fino al momento in cui fummo in piedi per assistere al levar del sole. A questo punto un meraviglioso spettacolo si offrí al nostro sguardo: il cielo limpido e tutto tinto di rosso illuminava l’atmosfera; sembrava che le nuvole stessero per prenderci per trasportarci nel cielo d’oro e, nostro malgrado, noi cadevamo in ginocchio, quando il sole essendo spuntato, apparve ai nostri occhi abbagliati.
Ma intanto le ore scorrevano e dovemmo raggiungere la chiesa in fretta. Per nostra fortuna, il nostro nuovo amico canonico ci aveva riservato dei posti nella piccolissima cappella, riempita oltre il possibile, e quelli che non avevano potuto entrare nella parte inferiore gridavano e spingevano. Una grande statua in marmo di San Michele si ergeva nel fondo della navata. La messa incominciò e man mano che i minuti passavano si vedevano grosse gocce apparire lungo il corpo del santo. Tutti i pellegrini si prosternavano e s’inginocchiavano emettendo grida di gioia : “Hosanna, ecco il miracolo!”. Mi sembrava che fossimo in una gabbia di matti. Il caldo era estremo e noi fummo molto felici, finita la messa, di lasciare la chiesa. Il canonico divise il nostro pranzo. Io gli chiesi la spiegazione di questo miracolo: “Non lo è affatto, egli mi rispose; poiché la cappella resta sempre chiusa e in ragione dell’altezza la volta interna è molto fredda, il giorno dell’apertura si produce un forte vapore dovuto alla presenza dei devoti che invadono la chiesa e ne riscaldano l’aria; questo vapore, condensandosi sulla statua, fa credere che San Michele traspiri”. “Come voi potete assecondare un simile errore?”, gli dissi. “Noi non abbiamo scelta, questo preteso miracolo non fa male a nessuno e noi avremmo una sommossa se volessimo disingannare la folla”».
Dunque, se si dà credito al racconto della marchesa di Sassenay, il clero stabiese o, se si vuole, parte di esso (compreso il canonico titolare della chiesetta) aveva fondati dubbi sulla autenticità del miracolo e tuttavia lo tollerava per non deludere o turbare la ferma devozione dei numerosi fedeli.
* * *
Il canonico Matteo Maria Rispoli, nel suo godibilissimo anche se datato romanzo o «racconto» del 1859, Generosa ossia Stabia al secolo IX (opera scritta «per lo bene delle anime» e tuttavia ricca di riferimenti alla storia, ai luoghi, alla realtà di Castellammare), ci offre una bella e particolareggiata descrizione della folla dei pellegrini che di nuovo si raccoglievano numerosissimi alla Conocchia e delle cerimonie religiose in onore di S. Michele:
«Tra l’enorme macigno del Gauro alla cui sommità è situato il piccol tempio, e la bassa collinetta della Conocchia, vi è praticato un passaggio che dalla forma d’una porta e dalla sua altezza in cui è collocato, fu sin dagli antichi tempi chiamato Portacèli [...].
Alla destra di chi entra v’è, come diceva, la collina della Conocchia, la quale si distende da levante a ponente, e domina tutte le altre circonvicine, menoché la rupe di S. Michele.
Nel giorno 30 luglio in ogni anno essa è coperta da una immensità di capanne formata da rami e foglie di alberi, da tende di bastimenti ivi portate, da coverte e finanche da lenzuoli. Tutta la collina brulica di piú migliaia di persone.
Dopo l’ora di Vespero, i Canonici ed il Clero seguito da immenso popolo, discendono processionalmente portando le statue di S. Catello e S. Antonino, dall’alto del monte, e si fermano in mezzo di queste capanne, ove uno dei canonici fa il discorso di apparecchio alla festa del giorno 31 in onore di S. Michele. Allora sbucano da tutte le capanne, e si concentrano d’intorno all’oratore tutti quei divoti, ed ascoltano le sue parole con sommo raccoglimento, commozione e profitto. Dipoi tutti accompagnano le statue dei santi sul monte, e ricevuta la Benedizione col SS. i preti si ritirano in un tetto coverto di legno dalla parte meridionale della chiesa; le donne in una grande barracca dalla parte settentrionale chiudendone l’ingresso a chiave, la quale è ritenuta da una di loro piú proba ed anziana. Gli uomini ritornano sulla conocchia nelle loro boscherecce abitazioni.
Sul far della sera si mirano sulla collina fuochi in tutti i punti per riscaldarsi e difendersi dal forte freddo, che quantunque nel tempo canicolare pure là si soffre a cagione dell’elevatezza del clima. Ogni capanna è ornata con lanternini anche al di fuori, in mezzo dei quali sventolano delle bandiere. Fuochi di artifizio di bengala, granate e razzi serpeggiano per l’aria, e mille voci di allegrezza ne accompagnano gli scoppi. Poscia siegue un silenzio, e le diverse piccole compagnie recitano le loro preghiere, chi a voce piú alta e chi piú sommessa.
Nel giorno 31 di buon ora tutti ascendono al sacro tempio con altri sopraggiunti nella stessa notte. Ivi assistono alla Messa a’ divini uffici, alle preci, a’ diversi discorsi e sentimenti che si danno dai sacerdoti dal sacro pergamo, per implorare sulle famiglie la protezione dell’Arcangelo, ed alla fine della funzione a tutti si dispensa un poco di bambagia che si fa toccare la statua di S. Michele. Molta fede e divozione si ha per quella bambagia benedetta dal contatto dalla statua, per la quale si ha gran fede.
Nel giorno primo agosto si canta la Messa solenne della Dedicazione della chiesa, e poi si porta il SS. precessionalmente fuori per il piccolo atrio, dal quale alle undici del mattino si fa benedizione da tre lati della chiesa cioè da settentrione da mezzodí e da occidente. Si canta l’inno Ambrosiano e si compie la sacra liturgia.
Questa santa pratica e questo divoto pellegrinaggio che si fa in ogni anno, quantunque in qualche tempo interrotto, dura da piú di dieci secoli, continuazione di ciò che ivi praticava, quantunque in altre forme il vescovo stabiano Catello. Se mancassero altri titoli e monumenti per comprovare la santità del suo operare sul monte Gauro, basterebbe solo questo argomento parlante da mille anni!».
Si ha quasi l’impressione che il Rispoli, che pur si è soffermato dettagliatamente sul pellegrinaggio, sul rito e sulla distribuzione dell’ovatta passata sulla statua del Santo, ma non altrettanto sulla sudorazione, ci abbia testimoniato in qualche misura il momento del passaggio verso la definitiva fine di un prodigio accettato senza riserve dai fedeli ma forse messo in discussione da parte dello stesso clero, momento in cui probabilmente non avveniva piú la sudorazione o non le si dava importanza (in quanto ritenuta un fenomeno naturalmente spiegabile) e tuttavia si continuava a passare la bambagia sulla statua e a distribuirla come reliquia.
È vero che lo stesso Rispoli aveva parlato in un precedente capitolo della sudorazione, ma la descrizione non si discostava da quella del Milante ed era riferita come un evento passato (lo lascia pensare l’uso dell’imperfetto «si vedeva») e, per di piú, oggetto di «disputa» fra opinioni opposte:
«Sul maggiore altare avvi una nicchia, ove mirasi una statua del S. Arcangelo in marmo. La vecchia tradizione e costante ne assicura che questa statua nella vigilia della festività del detto Arcangelo nell’ufficiare i Canonici e propriamente all’intuonarsi del magnificat, d’un tratto si vedeva il volto del Santo cambiar colore, e tutta la statua trasudare da capo a piedi. Di questo portentoso avvenimento oltre alla tradizione, vi ha ancora qualche documento autentico che lo compruova; come allorquando nel 14 giugno 1558, un’orda numerosa di turchi saccheggiavano Sorrento; pochi abitanti della desolata città si rifuggiarono nella cappella del Gauro, ed ivi pregando S. Michele furono racconsolati colla vista di quel segno di protezione, ed il di vegnente Sorrento fu miracolosamente salvata da’ turchi e restituiti gli schiavi.
Di tuttociò io lascio il mio lettore a consultare chi ne scrisse di proposito, mentre la mia meta è di raggiungere i fatti di Generosa senza entrare in disputa alcuna. Oltre di che a me non va a genio quella parte della letteratura, nella quale, dopo lungo competere fra due opinioni, ciascuno resta sempre piú confermato nella sua, ed hanno amendue torto, e ragione».
Ad ogni modo, se pure la nostra impressione non fosse giusta, dopo due o tre anni avvenne realmente qualcosa che segnò la sorte del prodigio e dei pellegrinaggi insieme.
Vediamo come monsignor Francesco Di Capua, in S. Catello e i suoi tempi (conferenza del 1928 pubblicata con varie appendici storiche nel 1932), registrava nostalgicamente una successiva ancor piú lunga interruzione, nel rievocare indirettamente, attraverso il ricordo paterno trasmessogli da piccolo, gli ultimi pellegrinaggi a Faito, terminati a partire dal 1863, da quando la chiesa, a causa del brigantaggio che infestava la montagna, era stata abbandonata e lasciata rovinare e dopo che la statua di S. Michele, colpita da un fulmine e poi restaurata era stata traslata il 20 dicembre 1862 nella Cattedrale:
«Nei bei pomeriggi estivi mio padre mi soleva condurre a passeggio lungo il lido del mare che, leggermente incurvandosi, va dalla nostra città alla foce del Sarno. Di qui egli mi additava l’ermo tricuspide cocuzzulo del Monte Aureo, dove sorgeva il tempietto dedicato a S. Michele, e mi descriveva le feste, che ivi si celebravano specialmente negli ultimi giorni di luglio e nei primi di agosto. Fino al 1863, quando la statua dell’Arcangelo fu rimossa dal luogo dove l’aveva collocata S. Catello e fu portata nella Cattedrale, decine e decine di migliaia di pellegrini accorrevano da Stabia e da tutti i paesi della Campania, e si accampavano sui due versanti del monte, sul pianoro di Faito e sulla spianata della Conocchia. Costruite delle capanne di frasche, vi rimanevano chi cinque, chi dieci, chi quindici e piú giorni. Nella voce commossa di mio padre, quando ricordava quei pellegrinaggi, si sentiva l’eco nostalgica di quei bei giorni passati sulla sacra montagna in comunione con Dio e con la natura, in un pieno, misterioso benessere fisico e morale. Di giorno il sole dardeggiava alto, di notte il monte brillava per migliaia e migliaia di fuochi accesi dai sacri pellegrini per allontanare il freddo notturno».
Nell’Appendice Il culto di S. Michele nel territorio di Stabia durante il Medioevo egli specificò le motivazioni per cui i pellegrinaggi cessarono e precisò le date:
«I pellegrinaggi cessarono nel 1863, quando, per l’infierire del brigantaggio, quei monti divennero poco sicuri [in nota: «In una conclusione capitolare del tempo si legge che ora i briganti ora i carabinieri s’installavano nella cappella sul monte»]. Si aggiunse che un fulmine colpì la vetusta statua di S. Michele, frantumandola. Ricomposta alla meglio, il 20 dicembre 1862 venne trasportata nella Cattedrale di Castellammare, dove oggi si trova». A questo punto inserí la nota: «Il tempietto sul M. Aureo, rimasto abbandonato, presto ruinò per l’azione del gelo e del disgelo; ed oggi non si scorgono che pochi ruderi».
Nel 1950 la chiesa è stata ancora ricostruita, anche se non nello stesso posto della precedente, ma dal dicembre 1862 la statua di S. Michele è rimasta nella Cattedrale. Da allora, sembra che il miracolo non si sia piú verificato, cosí come non si son fatti piú i pellegrinaggi di migliaia di persone, e il tutto è stato quasi completamente dimenticato dagli Stabiesi.
È vero che nel tempo molti miracoli simili sono svaniti (lasciando tuttavia spazio a quello di S. Gennaro), forse perché crediamo in miracoli diversi. È anche vero che gli odierni veloci e comodi mezzi di trasporto, che ci avvicinano a luoghi remoti e prima irraggiungibili, forse ci allontanano da noi stessi.
Un tempo, l’accorrere in massa, a piedi o a cavallo o sull’asino, il pernottare sul monte, sotto tende o all’aperto, tra fuochi notturni, attendendo l’alba, tra disagi e difficoltà, il partecipare accorati alla cerimonia e al miracolo erano di per sé testimonianze di una semplice, corale, umana religiosità popolare. Oggi abbiamo l’auto e la funivia e non sappiamo guadagnare le altezze.
(Da «L'Opinione di Stabia», X 110 – Luglio 2006, pp. 16-17; X 111 – Agosto-Settembre 2006, pp. 16-17).
(Fine)
Questo articolo, già accresciuto
con altre testimonianze nell'omonima relazione tenuta al Rotary Club
Castellammare di Stabia il 9 marzo 2007,
apparsa sul Bollettino del Club n. 3 dell'anno 2006-2007 (marzo-giugno
2007) e riportata tra gli Studi (Letteratura e Territorio) di
Stabiana.it, alla pagina
studi13sanmichele.htm,
ora appare —ulteriormente riveduto,
aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2008 a Castellammare di Stabia da
Nicola Longobardi Editore per il Santuario di San Michele Arcangelo sul Faito
G. Centonze,
I pellegrinaggi sul monte Faito e il miracolo di San Michele
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