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GIUSEPPE CENTONZE

I melloni di Castellammare

(Giugno 2006)

 

 

Abbiamo già ricordato la rotta della neve. Continuiamo il discorso parlando dei cocomeri (a Napoli si chiamano meloni o melloni o melloni d’acqua per distinguerli da quelli di pane); naturalmente di quelli di Castellammare che seguivano quello stesso percorso, cosí come continuamente ripetevano le voci e i gridi dei mellonari:

 

«Castiellammare! che maraviglia!  So de Castiellammare! Mo so benute da la rotta della neve, e so de fuoco!».

 

Nell’Ottocento, le guide per viaggiatori accennavano spesso a questa ricchezza dell’agro stabiese.

Raffaele Liberatore nel primo volume (1829 circa) del Viaggio pittorico nel Regno delle due Sicilie diceva che a Castellammare v’era «di frutta squisite cocomeri specialmente, e d’ogni sorta di latticinio dovizia». E l’Alvino nel Viaggio da Napoli a Castellammare (1845), a proposito dell’agricoltura stabiese:

 

«La qualità del suolo in Castellammare è di natura argillosa mista a sabbia vulcanica. In alcuni luoghi è piú o meno grassa, ed è atta generalmente a qualunque coltivazione de’ nostri prodotti. Sono molto in pregio le sue frutte e specialmente le pere, le pesche, le susine, le uve, i fichi e i cocomeri. Rendono queste terre, libere da ogni spesa di coltura, da 12 a 40 ducati annui per ogni moggio».

 

Il cocomero costituiva un nutrimento essenziale per la povera gente di Castellammare. Il pittore Lancelot-Théodore Turpin de Crissé nei Souvenirs du Golfe de Naples (1828) ricordava con disagio il misero vitto destinato ai viaggiatori prima che nella cittadina il turismo e l’ospitalità si sviluppassero:

 

«Si può facilmente trovare una sistemazione fittando in anticipo una casa o facendosi ospitare da qualcuno del luogo; ma allora l’avventato artista rischia di trovare un letto scomodo e di avere come vitto solo qualche pesciolino fritto giú al porto, un cocomero e frutti di mare».

 

I melloni si offrivano in vendita, su banchi o in baracche, soprattutto nei posti piú accorsati della strada della marina e del porto; ma la Fontana Grande (incisa all’acquaforte da Achille Gigante nel citato Viaggio dell’Alvino) doveva essere il luogo piú adatto per tenerli facilmente in fresco, tant’è che in un’altra nota incisione, fatta su disegno di Antonio Ciuli, essa è denominata proprio Fontana de’ Meloni in Castellamare.

 

 

 

 

Anche nella capitale questo alimento era essenziale. Vi sono interessanti testimonianze sui cocomeri di Castellammare, che sfamavano i Napoletani, e sui mellonari partenopei, sulle loro voci e i loro dialoghi.

Alessandro Dumas padre, nel Corricolo (1835), riferiva sulla diffusione e anche sul caro prezzo raggiunto dai melloni:

 

«La pizza è l’alimento invernale. Il primo maggio cede il posto al cocomero [...]. I bei cocomeri vengono da Castellammare; hanno un aspetto festoso e stuzzicante insieme; sotto la loro verde scorza presentano una polpa in cui i semi fanno risaltare di piú il rosa acceso. Ma un buon cocomero costa caro: un cocomero della grandezza di un proiettile da ottanta vale da cinque a sei soldi. Vero è che un cocomero di tale grandezza, nelle mani di un bravo scalco, può essere diviso in mille e piú pezzi».

 

Emmanuele Bidera, nella Passeggiata per Napoli e contorni (1844), descriveva le pittoresche botteghe e le voci dei mellonari, in un tempo in cui l’alimento arrivava in maggiori quantità grazie anche all’uso della nuova ferrovia:

 

«Quelle botteghe che l’inverno servono per magazzini di castagne, nell’estate divengono conserve di cocomeri, de’ quali i piú famosi per grandezza sono quelli di Castellammare. Nascono fra questi venditori delle gare incredibili; ciascuno si studia di superar l’altro, e trovar modo di sorprendere e dilettare la curiosità della plebe. E chi su la rustica parete di sua bottega fa dipingere a guazzo un D. Nicola e Pulcinella che segano uno smisurato mellone; chi un grosso cannone, che per mitraglia scarica scarde di melloni; o l’areonauta Comaschi che vola in alto, tratto da un ingente mellone; e dove si vedono sbucciare dal delizioso frutto cento pulcinelluzzi; dove il Vesuvio, che erutta melloni interi o tagliati a grandi fette; e dove in fine vien dipinta la strada di ferro con numerosi vagò carichi di melloni che da Castellammare si trasportano in Napoli. [...] Quando il sole è al tramonto, e quella riviera è piú popolata, costoro per invitare la gentaglia cominciano a gridare con voce stentorea: Castiellammare! che meraviglia!... So de Castiellammare. A cui contrappone l’altro: Mo so benute da la rotta della neve, e so de fuoco!».

 

Nella diffusa opera di Karl Stieler, Eduard Paulus, e Woldemar Kaden, Italia. Viaggio Pittoresco dall’Alpi all’Etna (1875), si insisteva sugli accesi dialoghi e sulla teatralità dei venditori:

 

«Ecco qui che strepitano due venditori di cocomeri; essi hanno posto l’uno presso all’altro le loro variopinte baracche, e ambedue gridano selvaggiamente alla folla che passa. Questa va pazza pei cocomeri, cosí dolci, cosí pieni di succo, e che per giunta uniscono i tre colori italiani; con poca moneta essa soddisfa, come dice bellamente il proverbio lazzarone, a tre bisogni: Cu nu rano magno, vevo e me lav’a faccia. Udite: con voce tonante grida l’uno: Castiellamare! che maraviglia!... So de Castiellamare! / Ma l’altro, gridando ancora piú forte: Mo so benute de la rotta de la neve e so de foco! / E qui comincia la gara. / Oh! oh! che bellezza! che rrobba! che rrobba è chesta! È un sole che mo esce! / No no ! ccà stannu le mellune veraci, chisse lloco è la luna, lu veru sole beditela ccà. Otto suoldi tutto, quatu miezzu, e chi lu magna ccà parzi tre suoldi! / L’emulo spacca allora sul capo di un fanciullo uno de’ cocomeri da lui portati alle stelle con un solo taglio abilmente eseguito ed esclama come sorpreso: Uh l’ottava meraviglia de lu munnu; bidite, si avite uocchi, bidite! fuoco! fuoco! / Vesuvio! Vesuvio! grida allora l’altro. / Etna e Mongibello! replica il primo. Ma anche con ciò non è ancora raggiunto il grado massimo di eccitamento, perchè l’avversario di lui giuoca l’ultima carta, strillando: È lu infiernu cu tutti li diavoli! Qui il collega mette giú coltello e cocomero, lascia cascare le braccia e dice pieno di astiosa meraviglia: Vedimmo mo che cci hai da dicere cchiú! / E con queste parole le ostilità ricominciano da capo».

 

Cesira Pozzolini Siciliani in Napoli e dintorni (1879) nella sua lunga e dettagliata descrizione di Castellammare ci presentava il mellonaro coi suoi melloni nel loro luogo di origine:

 

«Avanti ancora. La strada della marina è tutta costeggiata da un viale, e lí che distesa di melloni d’acqua! che apparato di melloni di pane! che cumuli di grossi peperoni, diavolilli, pomidori, marangiane, frutta d’ogni specie, ceste piene d’ogni ben di Dio!... / —  Come mai tanta roba a quest’ora? / — Quel che non s’è venduto oggi si venderà domani, e la gente veglia qui tutta la notte a guardia della mercanzia.... / — Ma que’ cocomeri tagliati, a metà e ben disposti in linea su quei carretti, come son rossi!.... Possibile rossi a quel modo? saranno finti, saranno di carta trasparente, messi lí per richiamo.... / — Tutt’altro! son veri, son freschi, son cocomeri di Castellammare, mi capite? piú grossi e piú gustosi di cosí non ce n’è.  Costano pochi centesimi e nell’estate la povera gente che vive di melloni, è solita dire: Cu nu rano magno, vevo e me lavo la faccia... / — Quante cose cu nu rano!... / — E poi che ridere quando un mellonaro ritto là sul suo bancone in mezzo alla via, tra rami verdi e lampioni accesi, armata la destra d’un coltellaccio e sollevando per aria con la sinistra un bel cocomero grida a squarciagola per fermare la gente: Castiellammare! che maraviglia!  Mo so benute da la rotta della neve, e so de fuoco!... Vidite, vidite, si avite uocchi!... È no sole che mo esce!... Otto ranella tutto, quatto ranella miezo, e chi lo magna ccà purzí tre grana... Fuoco! fuoco!... Vesuvio! Vesuvio!... È lu nfierno cu tutti li diavoli!..».

 

I mellonari continueranno ancora con le loro voci caratteristiche. Ce ne offrirà una ulteriore testimonianza l’inglese Arthur H. Norway in Naples. Past and present (1901), che vorrà anche far capire al lettore straniero il perché di certe espressioni:

 

«Per un altro mese o due il suo banco sarà molto piú allegro, per i fichi e i melloni che ci saranno, e il mellonaro passerà la giornata gridando Castiellamare! che maraviglia! so’ di Castiellamare! mellune verace! cu’ ‘no sordo vevo e me lavo ‘a faccia! Con un mellone d’acqua uno può bere e lavarsi la faccia nello stesso momento! Chi non ha visto i monelli di strada mordere una fetta di rosso mellone, mentre l’acqua scorre fuori tra i neri semi, e fa fare in verità striature di nettezza almeno sulle loro facce; perché anche la bocca piú larga non può trattenere tutto il succo che scorre giú».

 

Ma già nella seconda metà del secolo la produzione del frutto andava diminuendo, se si può riferire particolarmente a Castellammare ciò che piú in generale Giuseppe Orgitano diceva nel secondo volume degli Usi e costumi di Napoli e contorni (1866 circa):

 

«Le fertili pianure di Castellammare, Nocera, Pantano, Capua, rigogliose di cocomeri e di poponi, vanno di mano in mano a sostituire ad essi il Dio Cotone, per modo che l’ultima ora del mellonaro è già suonata».

 

Oggi, se pure non nelle forme pittoresche e teatrali dell’Ottocento, i mellonari ci sono ancora. Ma i melloni non sono quelli di Castellammare.

 

 

 Post fata resurgo

 

(Da «L'Opinione di Stabia», X 109 – Giugno 2006, pp. 16-17).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

per Stab...Ianus

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