GIUSEPPE CENTONZE
A Castellammare nell'estate del 1879
(Aprile 2006)
All’estate, precisamente al luglio del 1879 ci riporta un brioso articolo apparso in prima pagina sul numero 198 dell’Anno X (mercoledí 23 luglio 1879) del Fanfulla.
Questo noto quotidiano, fondato nel 1870 a Firenze e trasferito nel 1871 a Roma, divenuto giornale di opposizione dal 1876, da quando cioè la sinistra era andata al potere, fu pubblicato fino al 1899, rimanendo tuttavia attivo fino al 1919 il suo piú famoso supplemento letterario, Il Fanfulla della Domenica, a cui collaboravano le migliori voci della nostra letteratura. Si distinse per il tono scherzoso, anche se la sua posizione politica attirò le critiche della parte avversa: un crispino come Carlo Dossi ne evidenziò nelle Note azzurre lo «stilaccio», specificando inoltre che «falsamente è dato il nome di ‘umoristico’ allo stile di alcune gazzette burlesche, quali il Pasquino, il Fanfulla ecc. Non è che ‘comico’ e di bassissima lega».
L’articolo di cui ci occupiamo è spiritoso e divertente, senza esagerazioni o cadute di stile, e ci offre una insolita e perciò interessante descrizione della vita di Castellammare, anche se limitata a pochi e particolari aspetti.
Il suo estensore, che si firma Aristo, fa intendere di non essere del Sud (forse è toscano visto che richiama per confronto le chiese toscane) e di essere in villeggiatura nella nostra città da quindici giorni. Non so chi si nasconda dietro il quasi certo pseudonimo, ma una vena toscana è rivelata anche dal forte umorismo che riecheggia un po’ certi atteggiamenti mostrati da Renato Fucini in Napoli ad occhio nudo pubblicato un anno prima.
Egli descrive prima un ballo di beneficenza tenutosi qualche giorno prima nello Stabia Hall a favore delle popolazioni colpite dalle inondazioni del Po nelle provincie di Mantova e Ferrara e dalla eruzione dell’Etna in Sicilia (manifestazioni di questo tipo si stavano tenendo in Italia e all’estero, anche al Covent Garden di Londra ci fu un concerto il 23 luglio). Castellammare non volle essere da meno ed anzi non fece gravare le spese organizzative, ancora una volta con l’animazione del principe di Moliterno, capace di coinvolgere anche personalità come l’ambasciatore di Francia a Roma.
Bella la descrizione del ballo e delle dame al centro degli sguardi. E divertente la rievocazione del curioso episodio dell’invadenza degli operai del cantiere desiderosi di ballare, che solo il citato principe di Moliterno, novello Menenio Agrippa, seppe tenere a bada.
Poi Aristo osserva e annota alcune caratteristiche locali: il ricorso continuo —anche allora!— ai fuochi di artificio, alcuni modi popolari di manifestare la fede, l’affezione dei cittadini verso il loro stimato vescovo, Vincenzo Maria Sarnelli, da pochissimi mesi alla guida della diocesi, la mancanza di opere d’arte nelle chiese.
Si fa notare che l’espressione «Viva Gesú morto», che lo colpí —cosí come colpí in quanto «ridicolissima» un altro descrittore della vita di Castellammare, il giornalista suo contemporaneo Nicola Lazzaro— si leggeva lungo la strada subito dopo Gragnano; ma viene il dubbio che forse l’ingenuità popolare avesse colto in qualche misura il senso di uno degli eventi fondamentali della religione cristiana, quello della resurrezione di Cristo.
Forse Aristo avrebbe potuto citare qualche importante dipinto che pur compare nella Chiesa del Gesú da lui visitata, ma alla fine il discorso si fa affrettato per comprensibili ragioni di spazio. Resta il fatto che ci ha lasciato l’immagine di un intenso luglio stabiese, dominato da seducenti manifestazioni e voglie di festa a tutti i livelli, a cominciare dalle belle donne del bel mondo fino agli animosi operai del cantiere, vissute intorno al mare, sotto le stelle e i fuochi d’artificio, quasi a compensare il gusto decisamente popolare e la quotidianità amorfa e ossequente rivelati piú chiaramente di giorno, quando il sole illuminava gli edifici e le cose, nonché le facce delle persone.
«Curioso paese questo mezzogiorno! quali contrasti di vita esuberante e di mollezza indolente!», egli dice.
Di séguito è riportato il piacevole articolo, datato “Castellammare, 21 luglio” e intitolato “Bagni”, senza però la breve parte finale, dove si parla di Vico e della costiera.
Bagni
Allo Stabia’s Hall la serata a beneficio degli inondati e dei vulcanizzati è riuscita perfettamente: le vetture non hanno scavalcato il recinto, come pare sia successo alla vostra villa Borghese, e l’incasso ha corrisposto al numero dei biglietti venduti: si è ottenuto con 1200 persone il doppio che a Roma con quarantamila.
L’ambasciatore di Francia, marchese di Noailles, rappresentava il corpo diplomatico: il conte Gabardi (il degno sotto prefetto di questa seducente sotto-prefettura) non ha avuto niente da reprimere e preveniva tutti colla sua cortesia.
Il comitato organizzatore ha avuto un’idea che prevale in pochi comitati, cioè di rifondere del proprio tutte le spese; cosicché l’incasso lordo è risultato piú netto che qualunque candore logismografico.
Non nomino nessuna signora: siccome sono venute, hanno brillato e hanno ballato per beneficenza, la mano destra non deve sapere della sinistra. Però vi posso assicurare che prendendo a questa la maestà, a quella le candide braccia, a una terza la crânerie quasi marinaresca, a una quarta gli occhi vellutati, e il resto un po’ da tutte, se fossi Zeusi, potrei fabbricarne una Venere stabiana.
Hanno ballato fino al tocco con orchestra in terra e musica in mare alla veneziana, con fuochi artificiali che facevano impallidir le stelle e la fiammella del Vesuvio. Ballavano le signore, ballavano le gambe, ballavano le anime, ballavano i cuori, ballavano i lumi, ballavano le barche e i battelli in mezzo alla cheta danza delle aure notturne e delle onde marine.
Allo spuntare dell’alba le comitive che tornavano a Napoli dopo una gita a Sorrento erano lietissime di aver soppresso una notte cenando sotto le tende dello Stabia’s Hall.
Ci fu un momento di emozione fra le signore quando gli operai del cantiere manifestarono il desiderio di intrecciare le loro coppie maschili alle contraddanze di rito. Ma il principe di Moliterno (che non istudia invano la sapienza degli antichi) con senno ed eloquenza da Menenio Agrippa li seppe persuadere a restare sul Monte Sacro finché le matrone e le giovinette dell’ordine patrizio e dell’ordine equestre non avessero compiuto il loro sacrifizio a Tersicore. Cosí fu mantenuto l’ordine, salva la libertà.
Curioso paese questo mezzogiorno! quali contrasti di vita esuberante e di mollezza indolente!
Noi difficilmente si resiste alla seduzione di una sensualità contemplativa, dell’ozio beato, del riposo indefinito. Eppure quali scoppi di energia anche nelle feste e nel piacere!
Da quindici giorni, a tutte le ore, spari e detonazioni; tutte le notti razzi e candele romane che rompono l’azzurro cupo del cielo e del mare, si sprigionano come slanci di poesia lirica, da Castellammare, da Torre Annunziata, da Torre del Greco, da tutta la costa. Palloni aerostatici, palloncini, illuminazioni, archi di trionfo segnalano in ogni paese le novene, gli ottavari, le antivigilie, le vigilie, le feste, la messa, i vesperi di Madonne dai titoli i piú diversi, di santi a noi sconosciuti.
Nelle chiese si affastellano i candelabri, i fiori d’argento, le palme dorate, i miracoli, gli ex-voto, le statue dipinte, i simulacri, i simboli.
Qui un san Giovanni armato e corazzato come un san Giorgio, là un Ecce Homo coronato di spine, ma in un bosco di rose e di fiori; poi un san Catello (nativo, vescovo e protettore di Castellammare) con una mitra piú grande della sua persona; sull’altare delle anime purganti fra un candeliere e l’altro le rozze immagini di un imperatore, di un re, di un papa, di un vescovo, di un prete e di un frate immersi nelle fiamme di legno dipinto.
Sul tabernacoletto d’un villaggio questa iscrizione azzurra: Viva Gesú Morto.
Ai Cappuccini tutta una via crucis in maiolica con figure grandi al vero colle note strofe del Metastasio. E in una lunetta il gallo coi seguenti versi, che non sono del Metastasio: «Tosto che il gallo canta / Il Galileo fallito / Fassi di sé pentito / E dàssi a lagrimar. // E tu perché non piangi / Al rimirar del gallo / Se piú di Pietro il fallo / Si annida nel tuo cor».
La persona piú baciata di Castellammare è monsignor vescovo, il successore di san Catello.
Il segretario e il caudatario cercano invano difenderlo dalla folla che lo assale: e monsignore deve passeggiare colle mani stese a destra e a sinistra, come l’Immacolata Concezione, ripetendo: Sinite Castellonicos venire ad me. — Quelli di Castellammare si dicono Castellonici.
Tutto qui prende una tinta calda, appassionata.
Il cartellone del teatro ieri sera portava scritto: «Le ultime ore di Torquato Tasso nel convento di Sant’Onofrio in Roma — sublime lavoro del senatore signor Giovanni Prati».
E sul frontone di una graziosa villetta Longobardi, leggo: Morituro satis.
Ma se nelle chiese sovrabbonda ciò che parla al piú volgare senso religioso, il monumentale non ci si trova punto.
In Toscana qualunque umile chiesetta vi offre o un buon dipinto, o una brava scoltura dei maestri fiesolani, o un buon Della Robbia. Un briciolo d’arte qui si cerca invano.
Nella chiesa del Gesú c’è un busto al Longobardi, bibliotecario di Carlo VI, favorito di tre imperatori e di due imperatrici (dice l’incisione), sepolto a Santo Stefano di Vienna. Per Castellammare, ecco tutto.
(Da «L'Opinione di Stabia», X 107 – Aprile 2006, pp. 23-24).
(Fine)
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