UGO CRISCUOLO
Castellammare nel decennio francese
(2007)
Il decennio francese comprende, com’è noto, gli anni dal 1806, quando nel gennaio la corte borbonica abbandonò definitivamente Napoli per la Sicilia, al giugno del 1814, allorché re Ferdinando IV di Borbone –dal 1816, a seguito del trattato di Casalanza e del Congresso di Vienna, Ferdinando I del Regno delle Due Sicilie– rientrò trionfalmente a Napoli avviando così l’ultima fase di vita dell’antico Regno. Questa mia conversazione sarà di necessità limitata ai primi due anni del decennio, cioè al regno di Giuseppe Bonaparte, che il fratello Napoleone, imperatore dei Francesi dal 1804 e poi nel 1805 re d’Italia, insediò al vertice delle Due Sicilie dapprima come suo luogotenente generale e poi, dal maggio 1806, come re. Giuseppe Bonaparte, creato re di Spagna nel 1808, fu sostituito sul trono di Napoli da Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, grazie al suo matrimonio con Carolina Bonaparte.
Come si vede, il ‘rivoluzionario’ Napoleone, accanto alla ‘ripresa’ della regalità di Carlo Magno, faceva rivivere il ‘sistema’ di potere di Casa Borbone in Francia e in Europa.
È bene avvertire che il problema storiografico degli eventi che abbiamo sommariamente delineati è ancora aperto. A lungo ha dominato l’interpretazione crociana, di matrice liberal-sabauda, di esaltazione del decennio, fatta propria, mutatis mutandis, da quella d’impronta marxiana. La questione riguarda non solo il decennio, ma anche l’interpretazione dei fatti del 1799, su cui ebbi occasione di intrattenere il Club nell’anno delle celebrazioni del bicentenario. Va chiarito che, nell’uno e nell’altro caso, il regno napoletano fu sovvertito da un’occupazione straniera, occupazione che fu particolarmente dura, anche per il suo più lungo protrarsi nel tempo, negli anni dei due sovrani francesi. All’occupazione fu opposta nell’una e nell’altra circostanza una tenace resistenza dai napoletani (ci riferiamo con questo termine alla grande maggioranza dei sudditi della monarchia borbonica nella sua parte continentale): questa resistenza fu violenta nel 1799, allorché i soli giorni dell’ingresso nel gennaio delle truppe francesi produssero migliaia di morti fra i ‘resistenti’ armati; fu più silenziosa ma non meno sanguinosa nel decennio.
Le cronache del tempo, e in primo luogo il Diario Napoletano di Carlo De Nicola, segnano pressoché giornalmente la notizia di esecuzioni capitali per motivi a volta molto futili o di eccidi nelle città di provincia, fra i quali quello consumatosi nel 1799 ad Andria ad opera di Ettore Carafa, che alla restaurazione della monarchia lasciò la vita sul patibolo ed è annoverato già dal Cuoco fra i ‘martiri’ del 1799. Per quanto riguarda il decennio, la situazione migliorò alquanto negli anni di Gioacchino Murat per la maggiore simpatia che quest’uomo cavalleresco e miles gloriosus con pose da ‘guappo’ riscosse fra gli abitanti della capitale e delle città circostanti, fra le quali Portici, favorita dalla nuova regina, Torre Annunziata che fu denominata in quegli anni Gioacchinopoli, e la nostra Castellammare, ma divenne ancora più aspra nelle zone periferiche del regno, così in Lucania e nella Calabrie, che non furono mai pacificate. Si aggiunga che la dinastia borbonica, la cui mente pensante era la regina Maria Carolina, non fu mai rassegnata alla perdita del regno continentale e operò ininterrottamente per il suo recupero, e che alcuni punti strategici, quali le isole di Capri e di Procida –e in primo tempo la ben munita Gaeta– furono o difese o occupate dai ‘signori dei mari’, cioè dagli Inglesi, col supporto di contingenti siciliani. Ma è tempo di venire al nostro tema.
Dalle notizie che attingiamo dalle cronache quotidiane, si può porre a Castellammare e nella zona sorrentina negli anni 1806-1808 un forte partito di resistenza antifrancese alimentato anche dalla presenza anglosicula nell’isola di Capri. Infatti occupare Capri –che sarà poi sottratta agli Inglesi da Gioacchino– significava il controllo di tutta la linea costiera fra Sorrento, Castellammare e Napoli; questo tratto di mare era affidato, all’epoca dei fatti di cui riferiamo, alla responsabilità di un tal Monglas, poi allontanato e trasferito come commissario di gendarmeria a Nola, dove venne per oscure ragioni assassinato (cfr. Diario Napoletano, 15 ottobre 1807: “Il nome di Monglas era di un uomo capace di tutto il peggio, essendo comandante del littorale di Sorrento e Castellammare si è detto di lui tutto il male possibile tanto che era stato dimesso da quel posto e forse degradato col mandarsi in Nola a comandare i gendarmi”). Da Capri, le scorrerie sul litorale stabiese-sorrentino erano pressoché quotidiane: già il 10 maggio 1806, giorno in cui s’attendeva l’ingresso in Napoli di Giuseppe Bonaparte in veste di re, il Diario Napoletano annota: “Cinque vascelli inglesi si fanno vedere bordeggiare non più in là di Castellammare e all’imboccatura del Capo”, e in una postilla serale si aggiunge: “Si è in grande agitazione ed è dubio [sic] se segua domani l’ingresso del novello monarca a causa dei legni inglesi. Questi si sono accostati a Castellammare e hanno fatto fuoco con essere stati corrisposti dall’artiglieria di quel cantiere”. Il giorno 31 maggio è annotato un cannoneggiamento accaduto nella notte trascorsa fra il 29 e il 30: “Il cannoneggiamento della notte precedente il giorno di ieri [si noti che il 30 maggio veniva tradizionalmente festeggiato il giorno onomastico di re Ferdinando] è ancora un arcano, si dice che furono i nostri fortini che fecero fuoco contro alcune barche di carboni uscite da Castellammare, credendoli lancioni. Quanto sia verosimile che un tale abbaglio abbia causato un fuoco continuato per due ore nol so. è sicuro che anche alle barche pescherecce è proibito uscire di notte”. Il 12 agosto sono ancora legni inglesi che si accostano a Castellammare: “Questa mattina si sono veduti accostare i legni inglesi verso Castellammare, ove hanno fatto del fuoco. Si è inteso che vi era il Re di ritorno da Vietri, essendo rimasto a pranzo a Quisisana, luogo di delizia fattovi dal passato Re”. Il cannoneggiamento fu avvertito anche da Napoli, suscitando l’attenzione del ‘lazzari’, nostalgici di Ferdinando: “Mi si dice che la polizia ha questa mattina arrestati due lazzari che discorrevano fra loro del fuoco che facevano gli Inglesi verso Castellammare; e l’uno diceva all’altro: “Ne siente e nuje che facimmo?” al che l’altro aveva risposto: “io so lesto””. In quei giorni di agosto –si aggiunga– re Giuseppe era a Quisisana, il che rendeva la provocazione ‘patriottica’ ancor maggiore: “Sua Maestà continua a trattenersi a Castellammare, ma vi è chi lo crede a Vietri. Il 31 agosto gli Inglesi tentano uno sbarco al piano di Sorrento, “ove propriamente dicesi Meta. Il Monitore dice che furono respinti ed obbligati ad imbarcarsi con perdita”. Intanto Giuseppe approfittava della sua regalità per darsi alla bella vita, mentre a Napoli si succedevano ininterrotte fucilazioni e impiccagioni a danno non solo di elementi del ceto dei ‘lazzari’, ma anche di rappresentanti della borghesia e dell’aristocrazia. Il 26 settembre il buon De Nicola scrive: “La verità si è che non si fa manco uso di un poco di grossolana politica per affezionarsi almeno il grosso della Nazione [...] Il peggio è che sento essersi dato alla deboscia sopra Capodimonte, ove sta in mezzo alle sue belle, e profitta di tutte quelle che gli càpitano, non ricordandosi che sta in Italia ed in Napoli, ove per quanto sia libertinaggio, l’indole gelosa non è del tutto estinta”. Il riferimento è a re Giuseppe. Il 30 ottobre v’è ancora cannoneggiamento verso Castellammare: “Questa sera poi circa le ore tre d’Italia si è cominciato a sentire un continuato cannoneggiamento verso Castellammare, che circa le ore quattro è di molto avanzato, indi è cessato. Per quanto potesse scorgersi dal lampo dei cannoni è sembrato da Napoli che da mare si tirasse verso terra: sentiremo domani. Si accosta la festa di tutti i Santi che il popolo disegna per uno sbarco di considerazione”. L’episodio restava poco chiaro anche il giorno dopo: “Non è ancora appurato che fu il cannoneggiamento di ieri sera. Si dice che il vascello inglese fosse stato che diede la caccia ad un legno mercantile che si salvò sotto i fortini di Castellammare, che fecero poco e furono corrisposti dal vascello che vedendo non poter più riuscire nel far preda se ne andò via”. Il 9 gennaio 1807 è addirittura una fregata napoletana colla bandiera di Ferdinando IV ad ancorarsi “in faccia a Castellammare per effetto della tempesta”. E (8 aprile 1807) “alle ore 10 e mezza circa d’Italia questa mattina si è inteso un grande cannoneggiamento verso Castellammare ed è durato fino alle ore 11. Si è detto nel corso della giornata di essersi accostati due vascelli inglesi a battere i fortini di quel cantiere”.
In questo contesto si inserisce l’attentato –restato, a quanto pare, solo allo stato, benché avanzato, di progetto– di Agostino Mosca, stabiese che pare essersi riparato a Messina all’avvento di Giuseppe. Il Mosca si ritrovò inserito in un complotto più ampio, partito dalla Sicilia, che indubbiamente vi fu, ma che fu ingigantito dalla polizia di Giuseppe. Il Monitore Napoletano ne dava la prima notizia in data 6 giugno 1807. Leggiamo nella Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta: “Così stando le cose di Europa nel finir dell’anno 1806, cominciò per noi più mesto il 1807; perciocché le congiure contro il Governo, ingrandite di numero e di forza, cagionavano opere inique, castighi acerbi, timori e pericoli. né come per lo addietro ad uomini bassi, de’ quali è soppresso il lamento, ma agli elevati per nobiltà e condizione. Il magistrato Vecchioni, consigliere di Stato di Giuseppe, scoperto reo, fu confinato in Torino; Luigi La Giorgi, ricco e nobile, straziato morì in carcere; il duca Filomarino ebbe il capo mozzato; il marchese Palmieri, colonnello, fu appiccato alle forche, e mentre l’infelice saliva la scala del palco, si levò nel popolo voce di salvezza, che generò tumulti infruttuosi a quel misero, ma esiziali ad altri, puniti con la morte nel vegnente giorno. Si tenevano prigioni il capitan generale Pignatelli, il principe Ruffo Spinoso, il maresciallo di campo Micheroux, i conti Bartolazzi e Gaetani; e donne patrizie Luisa de Medici, Matilde Calvez; e donne di onesta fama, preti e frati in gran numero; il vescovo di Sessa monsignor de Felice. I luoghi più chiusi e più sacri, come i claustri, davano ricetto a’ congiurati; e perciò furono viste monache professe uscir dal vietato limitare, e sedere con abito religioso in pubblico giudizio sulla panca de’ rei. In quel mezzo fu imprigionato Agostino Mosca, perché sopra i monti di Gragnano, dove era atteso il re Giuseppe, stava in agguato ed armato per ucciderlo. Aveva in tasca una lettera della regina di Sicilia, scritta di suo pugno, istigatrice velatamente al delitto, ed altra più scoperta della marchesa Villatranfo, dama di lei; portava sul nudo braccio destro una maniglia di capelli legati in oro, dono della stessa regina, fattogli, ei diceva, per mano del Canosa, ad impegno de’ promessi servigi. Convinto del tentato misfatto, fu condannato a morte e giustiziato con orribili pompe nella piazza del Mercato, in mezzo a popolo spaventato e muto”. È notevole rilevare che il Colletta collaborò a vari livelli con i re francesi e che negli anni di Giuseppe era componente dei tribunali speciali. Ma di particolare interesse sono le notizie che si hanno dal Diario Napoletano. In data 27 giugno 1807 leggiamo: “Dopo qualche altra esecuzione di giustizia per delitti comuni non si è sparso altro sangue, ma si teme che se ne spargerà, anche perché in una corsa che il Re ha fatto per Castellammare e tutta la costiera d’Amalfi, si è scoverto un nuovo complotto che si dice tendesse ad ammazzarlo; e tra gli arrestati si dice capo un tale di cognome Mosca, già colonnello o tenente colonnello delle masse del 1799”. La cronaca del 1° luglio è la seguente: “La sentenza contro Mosca fu di dover uscire dal castello con una veste di pena addosso e una torcia accesa in mano. Al largo del Gesù nuovo doveva amputarseli il braccio, e condursi poi al supplizio sostenendo con la torcia l’altro, per dover con quella accendere egli stesso il rogo, ove dovesse vivo gittarsi. Ma non così poi si è eseguita; e si dice per le premure in contrario dei Bianchi, i quali girarono tutto l’altr’ieri per ottenere che così non si eseguisse, dicendo, che non si fidavano essi di assistere un uomo che dovea per necessità morire disperato. La sentenza dunque sento essersi eseguita in questo modo. Uscì il paziente col suo uniforme di colonnello di Ferdinando IV e cappello con coccarda rossa, innanzi alla chiesa del Gesù gli fu posta la veste ed attaccata la torcia al braccio, che non avrebbe altrimenti sostenuta. Condotto al Mercato, ove il rogo era preparato; fu semplicemente afforcato coi stessi abiti e cappello; se il cadavere sia stato bruciato non lo so. Si dice che sia morto con coraggio, essendosi prima stordito bevendo molto spirito di vino. Si dice aver detto che lasciava molti compagni come l’antico Scevola; e si dice finalmente che nello steccato avesse ritrattata la sua confessione, mercé la quale altre diciotto persone erano arrestate; avendo detto di aver ciò fatto per salvarsi. Tra questi arrestati perché da lui denunziati dicesi esservi il consigliere Vollaro”.
Il processo e l’esecuzione del Mosca furono in violazione di ogni diritto; la modalità barbara dell’esecuzione superò ogni precedente del ‘Terrore’ e dei patiboli del 1799. Quel che emerge anche dalle pagine su riportate del filofrancese Colletta è illuminato dalla annotazione del De Nicola, che da buon avvocato scrisse nel suo Diario in data 5 luglio, a proposito del citato Vollaro, arrestato nella notte fra il 18 e il 19 giugno, risultato poi per sua fortuna vittima di calunnia e scarcerato: “Il consigliere Vollaro è uscito come innocente calunniato. Domando, un governo forte e giusto deve permettere che, non dico un cittadino costituito in dignità, ma qualunque soffra ingiustamente un carcere, perché un birbone lo nomina o lo denunzia senza prova? La risposta non la darò io. Si dice che sia uno di coloro che Mosca aveva denunziato a suggestione di Monglas comandante del littorale di Sorrento”.
Sul caso Mosca De Nicola ritorna anche in giorni successivi alla barbara esecuzione. Nell’annotazione del 3 luglio scrive: “Si è pubblicata la sentenza della condanna di Mosca, che non era nei termini che si disse, come si vedrà nel dettaglio che ne scrivo al margine”. Ed ecco il testo della sentenza riportato nel Diario: “Agostino Mosca, qualificato come sopra, accusato di essere passato al nemico, di aver portate le armi contro lo stato, di aver ricevuta la missione di attentare alla vita di S. M. il Re Giuseppe Napoleone, di essere stato latore delle carte suddette, e di essere stato preso armato di fucile carico a palle, fornito di 50 cartuccie, sulla montagna di S. Angelo di Sorrento. La Commissione ecc. condanna il nominato Agostino Mosca a fare pubblica ritrattazione innanzi alla chiesa del Gesù nuovo, vestito d’una camicia rossa, con torcia accesa nella mano dritta, e ad essere quindi condotto al Mercato per essere impiccato ad una forca piantata sulla detta piazza. Ordina inoltre che dopo l’esecuzione della sentenza il suo corpo sia consegnato alle fiamme, e le sue ceneri disperse al vento”. E leggiamo ancora: “Nel processo di costui reso pubblico giusta il costume francese si leggono due lettere; una della Regina di Palermo, l’altra della marchesa di Villatranfo del tenore seguente: “Agostino Mosca voi farete con zelo ed attività tutto quello che al buon servizio del Re avete promesso; e riuscendovi potete contare sulla mia protezione. Il 28 febbraio 1807, Carolina”. Il carattere è stato riconosciuto da due notai Cinque e Corso. – “Palermo 20 aprile 1807. Vi prego di essere obbediente ai giusti voleri di d. Vincenzo Scagliotti (agente in Capri), e vi assicuro che io e lui vi abbiamo levato da una gran vergogna. Esso è venuto a Capri con voi per consigliarvi ad eseguire presto gli ordini che vi diede la nostra cara Sovrana fino dal mese di febraro, e voi prometteste di eseguire. Voi sapete quanto ella è generosa, vi manterrà la parola di farvi colonnello e vi darà beni in quantità, se vi fidate liberare la vostra patria dall’usurpatore. Ricordatevi quanto ha fatto per voi, e pensate a farvi onore”. Queste lettere li furono trovate addosso allorché fu arrestato e queste promesse lo hanno portato alla forca”. La “gran vergogna” di cui parla la marchesa di Villatranfo era evidentemente l’indugio del Mosca a mettere in atto l’attentato commissionatogli da Maria Carolina.
E infine, nella annotazione addì 7 luglio leggiamo: “Il Monitore ha pubblicata la confessione di Mosca fatta pochi momenti prima di andare al patibolo, ed è nei seguenti termini: “Io qui sottoscritto Agostino Mosca per discarico di mia coscienza, volendo dire la verità, dichiaro con giuramento innanzi a Dio, essere io stato incaricato dall’ex regina Carolina, dalla marchesa di Villa-Tranfo, e dal principino di Canosa, di rendermi a Castellammare, di riunire in quel luogo il maggior numero di cospiratori ed amici della Corte di Palermo, per appostare il Re ed ammazzarlo. Il luogo indicato come il più opportuno era il ponte della Persica, dove era facile mettersi in imboscata, giacché il Re vi dovea in ogni conto passare nel ritorno che avrebbe fatto da Castellammare a Napoli. Era stato io assicurato che un tale assassinio formava lo scopo principale della vasta cospirazione che erasi ordita nella capitale. Mi era stato promesso da Carolina e confermato dalla marchesa Tranfo e principino di Canosa, che sarei stato creato colonnello di un reggimento di linea, se avessi compiuto l’impresa di cui mi ero compromesso”. Ha pubblicato pure le varie lettere di felicitazioni che il Re ha ricevute dai comuni di Castellammare, di Sorrento, di Pozzuoli e di Procida per la scoverta della cospirazione”.
Orbene, possiamo a conclusione affermare che l’attentato al ponte della Persica non vi fu mai, essendo il Mosca stato arrestato sul Monte S. Angelo (Faito) prima di poterlo mettere in atto. Va ritenuto probabile che la zona stabiese fosse stata ritenuta la più idonea per un gesto del genere non solo perché percorso obbligato del ritorno di Giuseppe da Quisisana a Napoli, ma anche per la ‘copertura’ che il mancato attentatore avrebbe potuto trovarvi nel partito lealista.
A questo punto si arresta il nostro discorso su Castellammare e il regno di Giuseppe Bonaparte. Dovere dello storico, aggiungiamo, non è un’esaltazione dei vincitori, a loro volta destinati a essere vinti, ma anche quello di farsi carico dell’umiliazione e della sofferenza dei vinti.
(Relazione
tenuta al Rotary Club Castellammare di Stabia, presso l'Hotel Stabia, il 18
maggio 2007,
pubblicata sul Bollettino del Club, A. 2006-2007, N. 3 : marzo-giugno
2007, pp. 13-15).
(Fine)
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