GIUSEPPE CENTONZE
La Castellammare di
Ferdinando Petruccelli della Gattina
(1999)
Pochi forse oggi ricordano il nome del giornalista Ferdinando
Petruccelli della Gattina, che pur fu una delle figure interessanti e di
rilievo del nostro Ottocento e partecipò direttamente ad alcuni momenti
importanti della nostra storia [1].
Delle sue molteplici e intense esperienze egli lasciò cronache,
corrispondenze, memorie, ora ironiche, ora caricaturali, ora sferzanti ed anche
violente, che si fecero apprezzare per la vivacità, l’acutezza, la capacità di
cogliere il senso profondo dei fatti e dei fenomeni, per l’abilità di mettere a
nudo le complesse e sfuggenti personalità dei grandi personaggi politici
[2].
«Un de’ più efficaci, originali, vibranti e sfolgoranti scrittori del tempo, un
vero ingegno in una vorticosa anima ardente» lo definì nel 1903 Salvatore Di
Giacomo in Il Quarantotto [3].
La sua abilità di giornalista fu riconosciuta anche dopo la sua morte e tuttora lo è. Scrisse di lui nel 1923 Luigi Russo: «Rimane ancora oggi, insieme con Edoardo Scarfoglio, il nostro più grande giornalista, e l’unico giornalista italiano di tipo europeo. [...] I moribondi del palazzo Carignano [...] sono un piccolo capolavoro di arte e di critica politica, spesso ingiusta, ma sempre appassionata e ispirata da sentimenti elevati» [4]. E recentemente Indro Montanelli sul «Corriere della sera», nella sua rubrica La stanza di Montanelli, lo ha definito il «più brillante giornalista italiano dell’Ottocento», consigliando la lettura delle sue cronache che ancora «incanterebbero per la loro freschezza e modernità» [5].
Il Petruccelli fu anche scrittore di opere narrative che in parte
rispolverano il romanzo storico di Scott o quello di tipo avventuroso di
Richardson e in parte potrebbero rientrare
nella letteratura sociale e popolare o di forti tinte (sul tipo di
quella di Balzac e di Sue) che si espresse a Napoli nella seconda metà
dell’Ottocento [6].
Sui romanzi, tuttavia, i giudizi non sono altrettanto positivi.
Luigi Russo pose questa volta limiti alla loro arte, in quanto essi
«non hanno che a tratti un fine disinteressato di poesia; sono spesso
romanzi-discussioni, libelli in azione, autobiografia dissimulata, e accolgono
una strana miscellanea di indiscrezioni politiche, di motteggi, di riflessioni
argute e assennate, con giuochi brillantissimi di frasi
franco-italo-anglicizzanti, stramberie umoristiche, e rappresentazioni di
palpitanti realtà storiche» [7].
E Benedetto Croce nel 1933: «Chi può ora sostenere la lettura dei
romanzi dovuti alla penna del focoso giornalista-epigrammista che fu Ferdinando
Petruccelli della Gattina [...], che vorrebbero dare quadri della Napoli
borbonica e danno invece un cumulo di cose enormi, di delitti tenebrosi, di
stranezze, di scempiaggini, senza disegno e senza stile, con una disinvoltura e
un brio di maniera, meccanici e falsi?» [8].
Particolarmente quest’ultimo giudizio ha pesato sulla critica
successiva, tant’è che il nome del nostro immaginoso scrittore non è nemmeno
ricordato in molte importanti storie letterarie del nostro secolo, che
perseverano nel costume di dedicare enormi e ripetitivi spazi ai mostri sacri,
sui quali si dice troppo, contribuendo così a far dimenticare i cosiddetti
‘minori’, che invece andrebbero ricordati quando ebbero per qualche buon motivo
séguito e successo o quando furono per qualche aspetto singolari e originali e
comunque rispecchiarono mode, tendenze e necessità del loro tempo.
Anche il Petruccelli narratore non andrebbe dimenticato e non solo
perché fu un rilevante esponente di quella interessantissima letteratura
napoletana dal sentire prima romantico e poi realistico, che accettò
immediatamente e con entusiasmo le opere di Scott e che con molta originalità
adattò al suo mondo il ‘nero’ e l’avventura, fino a sfociare spontaneamente e
con grandi effetti nel sociale e nel naturalismo. Il Petruccelli, che, spinto
da forti ideali, aveva cercato e cercava di dare una nuova anima alla società
invecchiata e decaduta, sia con l’azione politica sia con la penna del
giornalista, e che aveva capito e approfondito certi meccanismi della politica
e certe regole del vivere sociale, si
servì anche del mezzo letterario per manifestare sentimenti, idee, analisi e
congetture; un mezzo, cioè, che gli consentiva senza troppi problemi l’uso di
tinte drammatiche (a cui ricorreva frequentemente anche il pubblicista, il
giornalista o il saggista che aveva bene appreso la lezione di antichi e grandi
storici come Tacito) e, in più, l’uso dell’invenzione. E lo fece anche grazie a
uno stile forse non sempre dello stesso livello e non sempre perfettamente
curato, ma divenuto man mano sempre più libero dalle regole antiche, sempre più
sciolto e leggero, certamente efficace per certe immediate, rapide e sicure
definizioni e modernissimo — oggi si direbbe sperimentale — se si pensa all’uso
di francesismi e inglesismi in un tempo segnato fortemente dal purismo,
soprattutto a Napoli; il dialogo fu quello della commedia, non senza evidenti
elementi plautini; il racconto fu animato dalla passione politica e avvivato da
un finissimo humour.
Ferdinando Petruccelli parlò di Castellammare in uno dei più interessanti tra i suoi romanzi, nel quale poté ben fondere le sue reali esperienze napoletane con le sue fantastiche visioni, Il sorbetto della regina, opera di successo, pubblicata per la prima volta nel 1875 e giunta già nel 1881 alla terza edizione per i tipi dei Fratelli Treves di Milano, che la inserirono nella loro Biblioteca Amena.
Il romanzo, secondo i gusti del tempo, è un intreccio tortuoso di
misteriose e strabilianti vicende che avvolgono e coinvolgono, durante il regno
di Ferdinando II, la storia di Bruto, un giovane lucano di Moliterno inviato —
un po’ come era capitato allo scrittore stesso — intorno al 1834 dal padre a
Napoli, presso uno zio sagrestano, per studiare medicina.
Ne indichiamo sommariamente l’orditura, anche per mostrare più
agevolmente la naturale collocazione della descrizione di Castellammare e
dell’azione che qui si svolge.
Nella capitale, Bruto si laurea e fa le sue prime esperienze professionali.
Intanto ha ricevuto per lettera dal compaesano Pietro Colini, ex-sergente
borbonico nonché ex-colonnello napoleonico, l’incarico di ritrovargli l’amante
di vent’anni prima. Egli la cerca aiutato da don Gabriele, un attore divenuto
suo inseparabile consigliere, e scopre che vive proprio di fronte a lui,
abbrutita da un passato torbido e dalla miseria, insieme con la figlia Lena
avuta dal Colini, bellissima ragazza di animo buono e con una voce
straordinaria, che egli ha frequentemente ammirato attraverso la finestra,
provando per lei un sentimento di pietà, forse anche di amore, ed essendo a sua
volta da lei segretamente amato. Chiama il Colini a Napoli, ma ormai le due
donne sono scomparse.
Gli capita un giorno l’occasione di curare Cecilia, figlia del
sedicente conte Ruitz, custode dei canarini della regina madre Urraca (con
questo nome l’autore copre la figura della regina madre di allora, Maria
Isabella Borbone di Spagna). L’avvenente Cecilia aspetta un figlio dal marchese
di Diano, un poco di buono, scapestrato e «guappo». Bruto se ne invaghisce ed
accetta l’equivoca proposta del conte Ruitz di sposarla di nascosto, anche se
non gradito a lei, che ama il marchese (nei patti il matrimonio non era da
consumarsi e nelle mire del conte doveva coprire anche un’altra situazione).
Il prepotente marchese ha anche rapito Lena con la complicità della
stessa madre, ne ha fatto con l’inganno la sua amante e tuttavia le fa studiare canto offrendole
indirettamente la grande occasione di sostituire la protagonista nella Linda di Chamounix di Donizetti al S.
Carlo. A teatro, al debutto di Lena, trovatosi a sedere a fianco del Colini,
ignaro padre di lei, con insolenza lo provoca fino ad inseguirlo dopo la
rappresentazione e a costringerlo a battersi; ma è ferito e portato in ospedale
dove è curato da Bruto, per il quale si verifica così anche l’occasione di
incontrare l’accorsa Lena, conoscerne la storia recente e rivelarle il nome del
padre.
Le conseguenze del duello sono che il Colini viene arrestato, mentre il
marchese riesce a fuggire grazie ad alte protezioni e a nascondersi in una
villa del fratello del re: «in una casa di campagna — parco di dissolutezze —
del principe di Caserta, a Quisisana, vicino a Castellamare. Che la polizia osi
dunque di andarlo a cercare in quella amabile fortezza!» [9].
Qui si recano in vettura («Non c’erano ancora le strade ferrate nel
felice regno di Napoli» [10])
sia Lena, accompagnata da don Gabriele travestito da lord inglese per
disorientare la polizia, sia Bruto, ognuno dei due all’insaputa dell’altro,
entrambi chiamati dal marchese «presso il suo letto per ragioni diverse;
l’amante per alleviare, il medico per guarire la ferita» [11].
è a questo punto che — seguendo Lena e don Gabriele —
la narrazione e l’azione toccano Castellammare, cui è dedicato l’intero VIII
capitolo della Parte seconda.
L’autore intende presentare direttamente al lettore
la città, che al tempo dell’azione (intorno al 1838? [12])
era un rinomatissimo e frequentatissimo centro turistico, e che tuttavia al
tempo della stesura dell’opera, cioè poco prima del 1875, cominciava a cedere
il posto da una parte ad Ischia, apprezzata da chi amava i confortevoli luoghi
di piacere e alla moda, dall’altra a Sorrento, apprezzata dagli amanti delle
tranquille bellezze naturali. Lo fa con il suo tono abituale, deciso e nello
stesso tempo teso a meravigliare non foss’altro che per la chiarezza o, se si vuole, la stranezza delle
affermazioni. Esordisce infatti così:
è impossibile che alcuno dei nostri lettori non sia mai stato a Castellamare.
Pel momento l’è Ischia, luogo di bagni e di ritrovo di piacere nel medesimo
tempo che tiene il campo della moda.
Comunque sia, gli è nei mesi
di luglio e agosto che bisogna visitare Castellamare, rinomata per la bellezza
dei suoi asini, e la bruttezza delle sue donne. Castellamare è l’anticamera di
Sorrento, cantata da Lamartine e da lord Byron, patria del buon vitello... e
degli aranci profumati (p. 195).
In verità, anche Castellammare era stata cantata più
volte da Lamartine ed aveva i suoi aranci profumati, ma Sorrento, che non aveva
allora folle di turisti, finiva per essere caratterizzata proprio e solo dalle
suggestive e romantiche atmosfere che il Petruccelli sentiva in modo
particolare [13].
Quanto al confronto Castellammare-Sorrento, in
relazione alla villeggiatura estiva, vale la pena registrare la testimonianza
di Matilde Serao, che, in Cuore infermo
del 1881 (romanzo solo di qualche anno più tardo rispetto al Sorbetto della regina e coevo della sua
terza edizione), mette in rilievo la monotonia della vita sorrentina rispetto a
quella che si conduceva a Castellammare, nel cui frequentatissimo Stabia Hall si divertiva tutta la
spensierata aristocrazia napoletana. Il Petruccelli, invece, non è dello stesso
avviso circa i divertimenti stabiesi. Per lui, che forse non ha conosciuto o
non ha apprezzato quegli stessi ambienti, o forse ha un ricordo, se non
l’animo, più antico rispetto al tempo in cui scrive e più vicino a quello
dell’azione, inutilmente si cercheranno divertimenti e conforti in questa
cittadina, dove pur accorrono da tutto il Sud gli ammalati o i buongustai che
vanno a scontare le indigestioni dei dieci mesi passati, ma dove si conduce una
vita noiosa, quasi da «zoccolante», senza mai una festa che non fosse la
processione di S. Catello:
In questa stagione
dell’anno, le acque richiamano gli ammalati da tutti i punti dell’ex-regno,
i gastronomi, che vengono a scontare le indigestioni di dieci mesi, i
disgraziati cui la medicina abbandonò.
Voi che avete visitato le
città ed acque della Germania e dei Pirenei, e le città da bagni della Francia
e dell’Inghilterra, non vi aspettate di trovare a Castellamare ridotti da
giuoco, saloni da conversazione, balli e musica, passeggiate, boschetti, restaurant, alberghi, divertimenti, dame, i lions dello sport e del turf, un teatro, un
caffè cantante od anche un semplice caffè, — una festa qualunque infine, tranne
la processione di san Catiello. — Dio vi abbia in guardia, se vi recate con
queste idee diaboliche del mondo incivilito, che non è il mondo della Chiesa, e
non era quindi neppur quello dei Borboni. La vita a Castellamare è più
casalinga, più santa, quasi una vita di zoccolante. La noia non vi segna mai
meno dei 94 ai 97 gradi centigradi (pp. 195-196).
Per l’autore, anche il clima è brutto; ma, a parte questo, la
disposizione, la via principale e i vicoli, gli edifici, lo stesso
«stabilimento» termale, costruito nel 1833 (pertanto recente al tempo
dell’azione) ed affiancato da un trascurato giardinetto dove si bevevano le
acque, sono il segno visibile di come l’uomo abbia potuto deturpare l’ambiente:
Castellamare non è che una
lunga e sporca via in riva del mare, ove il sole vi cuoce durante il giorno, e
l’umidità vi bagna durante la notte. Ovunque il fango o la polvere. Poi alcuni
orribili chiassuoli, una dozzina di case di campagna perdute sulla montagna, a
perpendicolo sul borgo, ed un equivoco di strada lambe i piè di codesta
montagna, e vi si nuota in ondate convulse di polvere. Finalmente un piccolo
sito, chiuso da inferriate, detto lo stabilimento,
ed una sembianza di giardino, ove l’ortica e la malva si beano nella loro
vegetazione spontanea. Non parlo degli insetti, prodotto naturale del paese.
Ecco ciò che l’uomo ha fatto
di Castellamare (p. 196).
Nonostante ciò, l’immensa e potente natura rivela ed esibisce tutte le
sue bellezze e il Petruccelli, proprio come aveva fatto venticinque anni prima,
nella pagina indicata de La rivoluzione
di Napoli nel 1848, non riesce a nascondere la sua commozione, questa
volta, tuttavia, senza manifestare sentimenti di ribellione, ma solo di incanto
e di entusiasmo:
Ciò che ne ha fatto la
natura è incomparabile.
Quel mare, quel cielo,
quella montagna, quei paesaggi, quei spuntar dell’aurora, quei tramonti, quelle
feste di stelle la notte, tutto è delizioso, inebbriante, incantatore (p.
196).
Lena e don Gabriele vi giungono di sera, dopo aver
visitato le città attraversate nel percorso; volendo essere sicuri di trovare
una sistemazione per la notte, si recano ad un albergo di lusso, che il
Petruccelli chiama «albergo dell’Europa»:
Si recarono all’albergo
dell’Europa, ove si è sicuri di trovar sempre alloggio, poiché l’è troppo caro
per gli avventori ordinari di questa città di bagni. Costoro si alloggiano in
camere mobigliate (p. 196).
Castellammare era allora caratterizzata dalla
presenza ossessiva, in alcuni punti, dei ciucciari
che assediavano i viaggiatori e i turisti per accompagnarli con le loro bestie
negli ameni dintorni, come monte Coppola e Quisisana, o all’albergo,
all’alloggio, allo «stabilimento», in qualsiasi altro luogo [14].
Nel romanzo si narra di un giovane ciucciaro
che arriva al punto di introdursi nella camera di Lena. L’episodio è davvero
singolare e, se lascia trapelare un po’ troppo la mano dell’autore, che si
diverte a caricare la figura di questo astuto ciucciaro-predicatore soprattutto
attraverso il tono e le argomentazioni del dialogo, non meraviglia certo la
situazione, sia perché gli asinai di Castellammare erano davvero
intraprendenti, sia perché poteva benissimo verificarsi che si accordassero
asinai e albergatori e si facesse in modo da non lasciare alternative ai
clienti:
Lena dormì bene e si svegliò
tardi la mattina susseguente. Dico che si risvegliò. Dovrei dire fu
risvegliata. Si picchiò alla sua porta: scese dal letto in accappatoio da
notte, ma al momento stesso la porta s’aprì, ed un monello, dorato al sole come
un dattero, il petto ignudo, senza scarpe, in maniche di camicia, il berretto
alla mano, si presentò fissando sulla giovane donna due occhi come due áncore
di cristallo. Egli si avanzò liberamente e le chiese:
— Come lo vuole, vostra
eccellenza?
— Chi sei tu? cosa vuoi?
gridò Lena spaventata. Va via, via subito: non vedi che non posso riceverti in
questi arnesi?
— Cosa importa? I miei sono
alla grazia di Dio. Sono venuto per domandarvi se lo volete calzato o no?
— Esci, ti dico, o chiamo, e
ti fo gettare dalla finestra.
— Sarebbe la via la più
corta. E vostra eccellenza sa che per la via più corta, come dice il padre
Sillario, non si va in paradiso.
— Ma finalmente cosa vuoi?
di che parli?
— Ma, Signor Dio benedetto,
parlo dell’asino, dunque. Di che volete che vi parli?
— Esci, ti replico.
— Signora principessa, manca
poco che mi prendiate per un ladro. Me ne vado: se vostra eccellenza ha bisogno
di un asino o due, che faccia chiamare Antonio, conosciuto nelle quattro parti
del mondo. Le milady inglesi non vogliono che me. Mi hanno ficcato persino nei
libri. E non lo dico per piaggiarvi, ma ho un asino tanto bello quanto vostra
eccellenza. Se lo vedeste! si alza sulle due zampe di dietro e recita il
panegirico di santa Filomena. E poi, ha una voce, una voce... Sfido i canonici
della cattedrale di farne udire di più deliziose. Mi consigliarono di esporlo
al concorso pel posto di cantore al coro di Massa. Sì, l’udrete come esso
gorgheggia l’Ite
missa est! E poi come galoppa, come bacia
le mani con grazia e buona creanza... In una parola, che vostra eccellenza non
dimentichi il suo Antonio, e la vedrà. Balaam non fece un sogno quando
profetizzò la sua somara: me lo disse un giorno il curato.
— Hai finito?... Vattene ora
a tutti i diavoli.
— Vado ad aspettare vostra
eccellenza.
Per dire la verità, Antonio
aveva un po’ esagerato le qualità della sua cavalcatura comparandola alla
bellezza di sua eccellenza. Il suo somaretto era magro, lungo, ossoso,
sciancato. Ma Antonio, da ragazzo astuto, da uomo che dava la metà del suo
guadagno al padrone dell’albergo, fece trovare la sua bestia ed una compagna di
mangiatoia alla porta dell’albergo, ogni concorrenza messa da banda.
Lena e don Gabriele furono
quindi obbligati di contentarsi di quei due asini per recarsi allo stabilimento
(pp. 197-198).
Ma appena arrivati, non hanno nemmeno il tempo di
scendere sulla ‘terra ferma’ e subito devono sostenere la ressa di venditori,
mendicanti ed altro, che di solito si faceva intorno ai malcapitati
viaggiatori:
Arrivati dinanzi al
cancello, pagarono Antonio e scesero. Quella ginnastica asinaria dava il mal di
mare a Lena. Furono allora circondati da una folla di mendicanti, di
postulanti, di mercanti, di curiosi, da una mob
malsana, direbbero gli Inglesi
(p. 198).
Si accavallano lanciando offerte in modo curioso e
goffo rozze e insolenti figure, tra cui un altro asinaio geloso di Antonio, una
sudicia venditrice di tarallucci, un
venditore di libri non certo aggiornato o informato e che non lesina enormità,
anche un venditore di anelli rubati, anche un venditore di numeri al lotto e
tanti altri. Il Petruccelli forse riporta a modo suo le proposte di questa
gente, caricandole di ironia fino alla comicità, attribuendo in qualche caso
affermazioni inventate per divertire i suoi lettori, comunque puntando su
caratteristiche vere o non lontane dal vero; e non si può dire che la pagina
non sia di effetto:
— Eccellenza, volete degli
asini? domandava un altro asinaio a don Gabriele. Un milord come vostra
eccellenza non può cavalcare che una gazzella come la mia. Lasciate codesta
etica carogna di Antonio, che s’inginocchia ad ogni cinque passi, e porta la
testa bassa come un seminarista. Vi darò un animale degno d’essere bipede come
vostra eccellenza.
— Fátti via di là,
rispondeva Antonio punto nell’onore del suo somaro; il tuo struzzo ha più
guidaleschi alla schiena, che un confessore non ha peccati nelle orecchie.
— Eccellenza, guardatevi
bene da quell’uomo, egli ha la rogna.
— Vostra eccellenza, vuol
ella accettare un rasoio per la barba? diceva un mercante a Lena; è dei più
perfetti inglesi, fabbricati a Campobasso.
— Eccellenza, diceva un
altro a don Gabriele, ecco della Wagram, della fabbrica di Piedimonte a
Manchester. Ve la vendo a prova di limone. Me la pagherete quando l’avrete
adoperata! Non vi chiedo che un acconto di sette lire al metro, per ricordo
dell’onore di avervi servito.
— Freschi, freschi! gridava
una donna dalla faccia e dalla persona orribilmente sudice; vengono fuori or
ora dal forno, i biscottini. Vedete, sentite, ci ho messo del finocchio.
Andiamo, zio canonico, prendete il mio taralluccio.
Vostra reverenza ne sarà contenta.
— Cose belle a leggere,
urlava un libraio che aveva spalancato qualche dozzina di volumi sopra una
tavola. Tutta roba venuta a luce mo’ mo’, ed a che prezzo ancora! Ecco un
romanzo per le signorine: Trattato delle ipoteche del
signor Pothier. Ecco un libro per vostra reverenza, signor canonico, un
trattato sull’indigestione, e l’Uomo dai tre calzoni, compendio di teologia morale del professore della Sorbonne, signor
Paolo di Kock. Volete un libro d’educazione per le vostre figliuole, signor
sindaco? Eccovi Lelia, Spiridione del signor Giorgio Sand, professore d’etica
al collegio di Francia. Il signor abate può terminare le sue devozioni nelle Novelle dell’abate Casti — abate casto se ve ne fu
mai! E poi, libri ancora più nuovi, arrivati la settimana scorsa da Liverpool e
da Marsiglia: Le Favole d’Esopo, l’Eneide
travestita, il Cuoco milanese, l’Almanacco dell’anno scorso... Ma leggete dunque! leggete! [15]
— Ecco degli occhiali per la
vista del signor sindaco. Vengono dalla Baviera, signore: gli è Sacco che li ha
fabbricati.
— Signora sindachessa,
eccole dei cavastivali.
— Volete dei numeri sicuri
per il lotto? susurrava misteriosamente un bietolone a don Gabriele.
— Signor giudice, prenda
questo anello che ho rubato; glielo lascio a buon prezzo.
— Signora milady, ecco uno
specifico contro le pulci, diceva un altro a Lena (pp.
198-200).
Liberarsi dai venditori ed entrare nello
«stabilimento» non significa guadagnare pace e tranquillità. Anche qui folla e
gente in conversazione o che si avvicina per parlare, conoscere, confidarsi,
scambiarsi notizie sulle cure. Attaccano discorso con Lena, prima il vescovo di
Policastro, che vede nel fenomeno delle acque di Castellammare un grande
prodigio della natura, poi l’ingenuo sindaco di Aratusa costretto alla fine a
scappare per l’effetto delle acque, mentre intorno si forma un capannello di
persone:
I nostri viaggiatori non
ascoltarono il resto: avevano varcata la porta dello stabilimento.
La folla non era meno grande
dentro che fuori. Si udiva dire da ogni punto:
— Buon giorno, compare. Hai
bevuto?
— Quindici bicchieri, e tu?
— Ah! madama, diceva il
vescovo di Policastro a Lena, che si era avvicinata ad una vasca; bisogna
convenirne, la natura è prodigiosa. Metter tanti gusti differenti in una sola
spaccatura... d’acque!
Infatti, dall’istessa
fessura della roccia, appiedi della montagna, sgorgano cinque sorta differenti
di acque minerali [16].
— Dio è grande, monsignore,
rispose Lena.
— Principalmente nella
varietà delle acque e nell’immensa quantità delle bestie! soggiunse don
Gabriele.
— Ho sempre abbisognato di
lassativi, io, signora, confidava il sindaco di Aratusa a Lena, mischiandosi
alla conversazione ed al capannello che si formava intorno a Lena ed al
vescovo. Mia moglie perdeva la pazienza, le mie figlie brontolavano, ed ecco
che quest’acqua...
— Siete
cattolica, milady? chiese il vescovo.
— Credo,
almeno...
— To’! avrei giurato che
foste romana, milady, osservò il sindaco. Quella statura... e poi parlate il
napoletano a perfezione... Fareste arrossire mio nipote, che studia da sette
anni il latino e l’italiano al seminario. E’ dice che io sono un imbecille: e
gli altri lo ripetono. E bisogna che ci sia qualcosa di così, poiché son tutti
del medesimo parere. Malgrado ciò, senza matematiche e senza lingua italiana,
ho raggruzzolato una fortuna di 30,000 ducati. Ora, ella mi capisce,
monsignore?
— Parola per parola.
— Anche l’intendente mi capisce, quantunque non faccia mai quello che io gli dico, e che io sia obbligato a fare ciò che egli ordina. Ma chi comanda è sempre a tre quarti sordo; la è vecchia. Non è vero, monsignore?
— Voi avete delle opinioni
democratiche, signor sindaco, fate attenzione.
— Ah! ah! non sente nessun
moto nel suo ventre, monsignore? Col permesso delle loro signorie... se posso
esser utile in qualche cosa... Don Michele Cupola, sindaco d’Aratusa. Vengano ad
Aratusa... Col loro permesso (pp. 200-201).
I nostri personaggi si spostano, cercano di
raggiungere il giardinetto, ma poi siedono sulla terrazza vicino ad un
arciprete. Anche questi attacca discorso nel mentre cerca di recitare le sue
ore, parla del suo concorso per diventare arciprete, di un suo nipote che lo
impensierisce molto, finché non è costretto anch’egli a scappare per l’effetto
delle acque. L’episodio, pur nella sua brevità, ci rivela tutta l’abilità
narrativa del Petruccelli, che non disprezza come si vede le tecniche del
teatro comico:
Lena e don Gabriele andarono
a passeggiare nel giardino; ma vi erano a percorrere tante giravolte, montando
e discendendo, che Lena s’appigliò al partito di sedere sulla terrazza, vicino
ad un arciprete che recitava le sue ore.
— Ad te, Domine, clamavi... Che caldo, signora! Non ho mai sudato tanto
in vita mia, neppure quando concorsi per essere arciprete. Un concorso famoso,
signora... Monsignore ne restò stupito... Ad te, Domine, clamavi... Come vi chiamate, signora? Di che paese
siete? Vorrei solamente sapere se nel vostro paese incontraste mai mio nipote. Ad
te, Domine, clamavi... Non lo credereste,
signora? egli è andato a Londra per pagare una ghinea un piatto di maccheroni,
e vedere come i cani strozzano i topi, e come si beccano fra loro i galli, per
la conquista d’una gallina. Noi vediamo ogni giorno tutto ciò nelle nostre
strade. Ad te, Domine, clamavi...
— L’è un uomo prodigioso,
vostro nipote, signor arciprete, osservò don Gabriele, che studiava i tipi ed i
caratteri pel suo teatro.
— Ad te, Domine, clamavi... prodigioso! A chi lo dite? s’imbacucca il
tabarro l’estate, ho veduto ciò a Saragozza — e porta calzoni di tela
l’inverno. Ha la rabbia di comprar roba vecchia. Corre dietro a tutto ciò che è
archeologico, perfino le donne! Ad te, Domine, clamavi... Non parla che di Parigi. Credo che quel
paese ha inventate la luna e le anime del purgatorio... Vorrebbe fare un Parigi
del nostro borgo. Ad te, Domine, clamavi... Clamavi... Clamavi... L’è arrivato. Col vostro permesso, signora,
sono obbligato di assentarmi... Gloria in excelsis (pp.
201-202).
In questa figura di arciprete il nostro irriverente
e scherzoso Petruccelli fonde — se ci è consentito — l’escatologia con la
scatologia, il fine della vita dell’uomo o della storia con il fine di una
passata d’acque stabiesi. Il Petruccelli, va da sé, inventa, ma vorrei far
rilevare che l’invenzione non si allontana dalla realtà in quanto situazioni di
questo tipo (nel caso, preti che recitavano le ore in attesa dell’effetto delle
acque) dovevano essere normali. Anche la presenza di prelati e notabili era
normale nello stabilimento di
Castellammare. Una testimonianza relativa proprio ai tempi dell’azione del
romanzo, degna di fede e precisa al punto da indicare o fare qualche nome delle
personalità religiose e civili presenti nella cittadina termale, fu quella di
Luca De Samuele Cagnazzi: «Dopo la lunga malattia sofferta mi fu precettato da’
medici di portarmi in Castellammare (anno 1840) a prendere l’acqua medica. Mi
ci portai al primo di luglio, e ritornai il 31 di questo. Molto mi divagò
quella dimora, ove moltissime accoglienze trovai non solo da cittadini che da
forestieri ivi dimoranti per lo stesso oggetto di far uso di quelle acque. Vidi
ivi l’Arcivescovo di Salerno, uomo di ottima condotta negli affari. Vidi
l’Intendente di Salerno il quale parla bene, ma mi dicevano che non era poi
conseguente nell’agire. Molto trattai l’Arcivescovo di Cosenza mio antico
amico. Trattai anche Monsignor Lanzetta, Vescovo di Lacedonia, uomo di
santissimi costumi. Moltissimi preti ed altri forestieri delle vicine provincie
ebbero premura conoscermi e trattarmi, ed io fui compiaciuto della loro
prevenzione per me» [17].
Ma torniamo al Sorbetto
della regina. Fattasi finalmente l’ora di andare dal marchese, i due si
recano a Quisisana, naturalmente sugli asini. Il luogo è pittoresco, il
paesaggio è stupendo, i giochi di luce e l’atmosfera sono da sogno. Non si può
restare insensibili:
L’ora di andar a trovare il
marchese essendo giunta, i nostri viaggiatori uscirono dallo stabilimento, e
ripresero gli asini per ascendere ad uno dei poggi della montagna, ove il
casino del principe di Caserta era situato.
Questa montagna è molto pittoresca, coperta di una bella vegetazione, e presenta una superba varietà di paesaggi, a misura che la strada tagliata su’ suoi spaldi, guarda la campagna –ove si rizza il Vesuvio, e si vedono le città di Nocera, di Lettere, di Gragnano– e il mare con i suoi flutti indago, ove si cullano in mezzo ai vapori violetti Capri, Nisida, Ischia, la punta di Sorrento e di Massa e il fondo di Napoli che appare come una candida striscia. Tutto ciò sembra un sogno a traverso quel velo leggero di molecole dorate che nuotano nell’aria, prodotte dal calore, attratte dalla luce. Lena ed il suo compagno, malgrado la loro ansietà al momento di raggiungere il loro destino, non poterono restar insensibili ad uno spettacolo così vago (pp. 202-203).
Giungono infine alla casa dov’è rifugiato il
marchese, da identificare attraverso la descrizione con il casino reale, ma
prima di entrare nel viale di accesso, si accorgono della presenza della
carrozza di Bruto e poi, più su, di un’altra carrozza:
Un lungo e tortuoso viale a
diversi piani, chiuso da un cancello sulla strada, precedeva la casa. Una
vettura attendeva alla porta.
— Giuro a Dio! disse don
Gabriele, mi pare di conoscere quel cocchiere. Sarebbe curiosa... Aspettatemi
qui...
Scese dall’asino, fece
fermare Lena a un tiro di fucile dal castello, e si avanzò verso il cocchiere.
Dopo pochi minuti di conversazione, don Gabriele ritornò, fece scendere Lena,
pagò e rimandò gli asinai. Poi si avanzarono verso la vettura, varcarono la
porta, e principiarono a montare su pel viale.
In una piazzuola che
precedeva la casa, un’altra vettura, ma non da nolo questa, aspettava dietro un
boschetto di acacie. Rimpetto alla casa si alzava un kiosque di caprifogli,
bossi e mirti. La porta della casa era aperta, ed una vecchia spezzava qualche
granello di sabbia che gli stivali dei visitatori avevano lasciati sul
lastrico.
— Fermiamoci all’ombre di
questi alberi, disse don Gabriele. Quando uscirà, voi salirete dal marchese, io
vi aspetterò qui. Egli ci aspetterà nella vettura, secondo le istruzioni che ho
date al cocchiere, e tutti insieme partiremo per Napoli allegramente (p.
203).
Non riusciranno a far visita al marchese.
All’improvviso sentono due spari, vedono Bruto fuggire e con lui fuggono anche
loro, dalla casa e da Castellammare.
Era successo che Bruto, arrivato prima di loro
presso il marchese, accortosi della presenza anche di Cecilia, ormai sua
moglie, si era scagliato contro di lui che, a sua volta, lo aveva colpito e
ferito alla testa con due colpi di pistola.
Ma vediamo il séguito. Bruto, scampato alla morte,
racconta la sua storia ad una bella dama sui quarant’anni la quale si reca
spesso e di nascosto in un appartamentino collegato con la casa del conte Ruitz
ed è morbosamente interessata al giovane medico che l’ha frequentata spinto da
Ruitz: la principessa di Kerson, così è conosciuta, conduce una vita misteriosa
ed ha una straordinaria, «meravigliosa» [18]
somiglianza con la regina madre; il marchese se ne va a Parigi; Cecilia
sparisce con lui, ma poi sarà uccisa presso Sorrento dal conte di Altavilla,
secondo il racconto che quest’altro avventuroso personaggio inserito
nell’intreccio farà più tardi; Lena va a cantare anch’essa a Parigi;
l’ex-colonnello è ancora in prigione, ma il suo caso si trasforma in un vero e
proprio casus belli, motivo di forte
tensione fra le nazioni: contro di lui il re di Napoli appoggiato da Russia e
Austria, a suo favore la Francia che ne formalizza lo status e invoca le leggi internazionali.
Questi risvolti inducono Lena a tornare a Napoli in aiuto del padre, ma
qui inaspettatamente riceve l’invito della regina madre a recarsi a corte per
cantare. Ella prima è incerta; poi accetta, va, canta, narra anche la sua
storia, svela anche che il colonnello è suo padre, parla del suo fortissimo
amore per Bruto. La regina a questo punto è turbata, si fa rossa, chiede al
conte Ruitz di portare dei sorbetti, quelli che i Napoletani chiamavano ‘acqua
di amarena’, offre con le sue stesse mani anche a Lena il sorbetto, dopo però
aver fatto qualche strana operazione con il bicchiere. Lena beve e
improvvisamente si sente di morire, viene chiamato il dottor Bruto, gli muore
fra le braccia.
Bruto non potrà che rassegnarsi, qualche mese più
tardi il colonnello Colini sarà graziato («Era così clemente, re Bomba!» [19]),
ma da allora in poi i Napoletani chiameranno quella bibita di amarene «il
sorbetto della regina».
è questa la storia che a
fatica si riesce a dipanare da un intrico fittissimo di vicende e situazioni
che toccano un po’ tutti gli strati della società e che offrono un quadro
spietato della Napoli di metà Ottocento: tra i vizi e i delitti dei Borbone e
la miseria degli umili, nel mondo narrato dal Petruccelli, c’è spazio solo per
la prepotenza, la corruzione, la degradazione, e la vita finisce per essere un
viaggio oscuro e impossibile tra cattiverie, inganni, tradimenti, umiliazioni, soprusi.
Per tale motivo il passaggio per Castellammare, sia
pure disturbato dalle piccole molestie o furberie di asinai e venditori e da
calche o intrusioni, costituisce una delle poche parentesi di serenità, di humour e di divertimento che la vita e
il narratore concedono ai nostri personaggi e ai lettori, in una cornice
naturale di incanto.
NOTE
[1] Nato a Moliterno, in Basilicata, nel 1815, studiò medicina a Napoli, ove si addottorò nel 1836, ma esercitò per poco tempo la professione, perché sentì prepotente il richiamo verso il giornalismo, la politica e la letteratura.
Già nel 1840 apparvero sul «Raccoglitore fiorentino» e sul napoletano «Salvator Rosa» delle sue coloritissime corrispondenze dalle città visitate durante un viaggio fuori del Regno. E già nel 1843 vide la luce a Napoli Malina di Taranto e quattro anni dopo a Milano Ildebrando, particolarissimi romanzi ‘storici’ non senza il sapore del romanzo ‘nero’ inglese; e nello stesso 1847 partecipò con il racconto Antonio a quella felicissima Napoli in miniatura ovvero il popolo di Napoli ed i suoi costumi, «opera di patrii autori» pubblicata a cura di Mariano Lombardi.
Attratto dalla politica e dagli ideali liberali, fu cospiratore. Nel 1848 a Napoli, dopo l’elargizione della costituzione, fu deputato al parlamento e vivacissimo e battagliero direttore del giornale «Mondo vecchio e mondo nuovo», quindi esule dopo il 15 maggio. Rieletto nel 1849, preferì per sicurezza rifugiarsi a Parigi; ma anche qui fu coi repubblicani contro Luigi Bonaparte nel 1851, per cui dovette riparare a Londra, dove frequentò Giuseppe Mazzini. Chiamato nel 1860 a Napoli da Garibaldi, partecipò come deputato alla vita parlamentare italiana dal 1861 al 1865 e dal 1874 al 1882, vivendo tuttavia spesso a Parigi, da cui ancora si fece espellere dal 1872 al 1875 per aver preso le parti dei comunardi e dove morì nel 1890.
[2] Citiamo: La rivoluzione di Napoli del 1848 (1850); I moribondi di Palazzo Carignano (1862), che segnò subito l’insofferenza nei confronti della nuova classe politica italiana; Gli incendiari della Comune (1872); Memorie del colpo di stato del 1851 a Parigi (1880); I fattori e i malfattori della politica europea contemporanea (1881-84); Storia d’Italia dal 1866 al 1880 (1881); Storia dell’idea italiana (1882); Memorie di un ex deputato (1884). Inoltre, sulla chiesa di Roma e sul papato: Storie arcane del pontificato di Leone XII, Gregorio XVI e Pio IX, con documenti diplomatici (1861); Histoire diplomatique des conclaves (1864-66); Pie IX, sa vie, son règne, l’homme, le prince, le pape (1866); II concilio (1869).
[3] S. Di Giacomo, Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, Roma 1995, p. 150.
[4] L. Russo, I narratori, Palermo 1987, p. 51.
[5] «Corriere della sera», 6 marzo 1999.
[6] Oltre ai due citati romanzi storici, si ricordano: II Re dei Re (1864), rifacimento dell’Ildebrando; Le memorie di Giuda (1870), romanzo storico redatto prima in francese e poi in italiano e considerato la sua migliore prova narrativa; Le notti degli emigrati a Londra (1872); II re prega (1874); II sorbetto della regina (1875); I suicidi di Parigi (1876); Le larve di Parigi (1878); Giorgione (1879), romanzo storico; Imperia (1880), romanzo storico; I pinzoccheri (1892), romanzo costruito come «scene della rivoluzione francese».
[7] L. Russo, Op. cit., p. 52.
[8] B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Vol V, Roma-Bari 1974, p. 300. è da considerare che il giudizio del Croce si inserisce in una considerazione di principio, chiara e coerente con il suo pensiero sull’arte, fatta a proposito dei giornalisti-autori della “nuova Italia”: «Si vuole, invece, semplicemente discorrere di alcuni scrittori, fondamentalmente giornalisti, che si provarono a comporre cose d’arte; e in ciò accadrà forse di riconfermare il convincimento, che è nell’opinione comune, di una sorta di contrarietà tra la disposizione al giornalismo e quella all’arte e alla scienza. / Cosa naturale, perché il giornalista s’indirizza e si addestra a cogliere la fortuna del momento, a vincere il punto, a far effetto sul suo pubblico, e questa, se non è già in lui natura, gli diventa una seconda natura, una disposizione spontanea: laddove l’artista, ed analogamente l’uomo di scienza e di critica, cerca unicamente di veder chiaro in sé stesso e di soddisfare sé stesso nell’immagine o nel pensiero che forma; e questa soddisfazione e gioia interiore è quel che si comunicherà, se si comunicherà e quando si comunicherà, agli altri che vorranno parteciparvi. / Quale delusione nello sfogliare i volumi di giornalisti che ebbero un tempo gran numero di lettori ammiranti e che parvero fontane zampillanti di vivacissimi spiriti; quale contrasto tra la pomposa risonanza del loro nome e l’effettiva povertà delle loro parole stampate!» (Ibid., pp. 299-300).
[9] F. Petruccelli della Gattina, Il sorbetto della regina. Terza edizione, Milano 1881, p. 188.
[10] Ibidem, p. 194.
[11] Ibidem, p. 187.
[12] Avanziamo l’ipotesi di questa incerta data, ricostruita sulle imprecise indicazioni fornite dall’autore: ad esempio, tra l’altro, si sa che la Linda fu rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1842, che la strada ferrata Napoli-Portici è del 1839 e che il tratto fino a Castellammare è del 1842; eppure egli dice categoricamente che i due personaggi vanno a Castellammare dopo la rappresentazione dell’opera a Napoli e quando nel Regno non c’erano ancora le strade ferrate! Intanto devono essere passati alcuni anni dall’arrivo di Bruto a Napoli (nel 1834, vent’anni dopo che il Colini aveva lasciato la sua amata), durante i quali aveva studiato, si era laureato sia pure con qualche aiuto, aveva esercitato per qualche tempo, aveva chiamato Colini a Napoli che vi aveva passato un anno fino al duello. E tuttavia, se non l’anno, gli anni son quelli, il che non fa una grande differenza a meno di non superare il 1842 che, per la costruzione della strada ferrata Napoli-Castellammare e della carrozzabile Castellammare-Sorrento, segnò un svolta notevolissima per il turismo e l’economia, e di Castellammare e di Sorrento.
[13] Si legga, a questo proposito, una parte della bellissima pagina in cui egli descrisse la notte del 14 dicembre 1847, una notte che spinse a meditare anche sui destini dell’uomo e a ritrovare, nella commozione e nell’entusiasmo, la «fierezza dell’individualità umana messa faccia a faccia con l’immensità della natura»: «quando un vulcano è là a due passi per rischiarare di una luce fantastica la variopinta città che stende, come Ero, le sue braccia per istringersi al seno le onde innamorate le quali le portano i profumi degli aranceti di Sorrento ed i misteri della luce della grotta azzurra di Capri; quando infine si contempla tutta quella scena sotto il prestigio dei colori della notte, l’anima si apre alle commozioni, il pensiero diventa un’ardente poesia, l’entusiasmo l’inebria» (F. Petruccelli, La rivoluzione di Napoli nel 1848. Nuova edizione a cura di F. Torraca, Milano-Roma-Napoli 1912, pp. 45-46).
[14] Cfr. G. Centonze, Ciucci e ciucciari nella Castellammare dell’Ottocento, in «Cultura e territorio», nn. 12-13-14, pp. 67-93.
[15] Forse il grosso pubblico non sapeva che Robert-Joseph Pothier fosse stato autore di trattati giuridici e non di romanzi, che Paul de Kock fosse autore non certo di opere teologiche, che George Sand fosse scrittrice e non scrittore né professore di etica, anche se indossava abiti maschili, così come non fossero certo adatte a terminare le devozioni le licenziose Novelle dell’abate Casti; inoltre, che le altre opere citate non fossero certo recenti, se pure si trattase di un Almanacco... dell’anno prima. Ma il libraio stabiese, questo Frassica di centocinquant’anni fa, non sapeva per niente quel che vendeva o, purché vendesse, ci provava, così come ci provavano coi loro espedienti tutti gli altri venditori?
[16] Si confronti questo passo con quanto scrisse nel 1842 Catello Parisi: «Le Acque minerali dello stabilimento nel largo del Cantiere con bella proprietà conservate in fondo di una graziosa villetta cui annesso vedesi un doppio ordine di eleganti bagni. Di varie specie esse sono — La Media che ha due distinte sorgenti nello stesso luogo — la Solfureo-Ferrata che nello stesso canale confondesi appena uscita dalla propria sorgente — la Ferrata del Pozzillo che in distinta vaschetta sorge ed attingesi — e la Ferrata-Nuova che ha pure la sua particolare vaschetta. I rispettivi nomi nel marmo impressi te ne danno la indicazione; e però molte altre specie di acque minerali, che pur nello stesso stabilimento si trovano, restano tuttora anonime — Ammirevole è invero il vedere in così ristretto spazio tante diverse acque nascere di diverso sapore — di diversa composizione — di diversa facoltà medicinale. La mente dell’idiota non meno che del Filosofo naturalista con ammirazione il medita — ne stupisce ed i sublimi venerandi arcani della natura con rispetto ne attesta» (C. Parisi, Cenno storico-descrittivo della città di Castellammare di Stabia, Firenze [ma: Napoli] 1842, pp. 38-39).
[17] L. De Samuele Cagnazzi. La mia vita. Memorie inedite a cura di A. Cutolo, Milano 1944, p. 256.
[18] F. Petruccelli della Gattina, Il sorbetto della regina, op. cit., p. 205.
[19] Ibidem, p. 275.
(Da "Cultura e Territorio", XV-XVI-XVII - 1998-1999-2000 [2001], pp. 103-124)
(Fine)
Questo studio ora appare —riveduto,
aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da
Nicola Longobardi Editore
G. Centonze,
Stabiana. Castellammare di Stabia e
dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte
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