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GIUSEPPE CENTONZE

La Castellammare di 
Ferdinando Petruccelli della Gattina

(1999)

 

 

Pochi forse oggi ricordano il nome del giornalista Ferdinando Petruccelli della Gattina, che pur fu una delle figure interessanti e di rilievo del nostro Ottocento e partecipò direttamente ad alcuni momenti importanti della nostra storia [1].

Delle sue molteplici e intense esperienze egli lasciò cronache, corrispondenze, memorie, ora ironiche, ora caricaturali, ora sferzanti ed anche violente, che si fecero apprezzare per la vivacità, l’acutezza, la capacità di cogliere il senso profondo dei fatti e dei fenomeni, per l’abilità di mettere a nudo le complesse e sfuggenti personalità dei grandi personaggi politici [2]. «Un de’ più efficaci, originali, vibranti e sfolgoranti scrittori del tempo, un vero ingegno in una vorticosa anima ardente» lo definì nel 1903 Salvatore Di Giacomo in Il Quarantotto [3].

La sua abilità di giornalista fu riconosciuta anche dopo la sua morte e tuttora lo è. Scrisse di lui nel 1923 Luigi Russo: «Rimane ancora oggi, insieme con Edoardo Scarfoglio, il nostro più grande giornalista, e l’unico giornalista italiano di tipo europeo. [...] I moribondi del palazzo Carignano [...] sono un piccolo capolavoro di arte e di critica politica, spesso ingiusta, ma sempre appassionata e ispirata da sentimenti elevati» [4]. E recentemente Indro Montanelli sul «Corriere della sera», nella sua rubrica La stanza di Montanelli, lo ha definito il «più brillante giornalista italiano dell’Ottocento», consigliando la lettura delle sue cronache che ancora «incanterebbero per la loro freschezza e modernità» [5].

 

 

 

 

Il Petruccelli fu anche scrittore di opere narrative che in parte rispolverano il romanzo storico di Scott o quello di tipo avventuroso di Richardson e in parte potrebbero rientrare  nella letteratura sociale e popolare o di forti tinte (sul tipo di quella di Balzac e di Sue) che si espresse a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento [6].

Sui romanzi, tuttavia, i giudizi non sono altrettanto positivi.

Luigi Russo pose questa volta limiti alla loro arte, in quanto essi «non hanno che a tratti un fine disinteressato di poesia; sono spesso romanzi-discussioni, libelli in azione, autobiografia dissimulata, e accolgono una strana miscellanea di indiscrezioni politiche, di motteggi, di riflessioni argute e assennate, con giuochi brillantissimi di frasi franco-italo-anglicizzanti, stramberie umoristiche, e rappresentazioni di palpitanti realtà storiche» [7].

E Benedetto Croce nel 1933: «Chi può ora sostenere la lettura dei romanzi dovuti alla penna del focoso giornalista-epigrammista che fu Ferdinando Petruccelli della Gattina [...], che vorrebbero dare quadri della Napoli borbonica e danno invece un cumulo di cose enormi, di delitti tenebrosi, di stranezze, di scempiaggini, senza disegno e senza stile, con una disinvoltura e un brio di maniera, meccanici e falsi?» [8].

Particolarmente quest’ultimo giudizio ha pesato sulla critica successiva, tant’è che il nome del nostro immaginoso scrittore non è nemmeno ricordato in molte importanti storie letterarie del nostro secolo, che perseverano nel costume di dedicare enormi e ripetitivi spazi ai mostri sacri, sui quali si dice troppo, contribuendo così a far dimenticare i cosiddetti ‘minori’, che invece andrebbero ricordati quando ebbero per qualche buon motivo séguito e successo o quando furono per qualche aspetto singolari e originali e comunque rispecchiarono mode, tendenze e necessità del loro tempo.

Anche il Petruccelli narratore non andrebbe dimenticato e non solo perché fu un rilevante esponente di quella interessantissima letteratura napoletana dal sentire prima romantico e poi realistico, che accettò immediatamente e con entusiasmo le opere di Scott e che con molta originalità adattò al suo mondo il ‘nero’ e l’avventura, fino a sfociare spontaneamente e con grandi effetti nel sociale e nel naturalismo. Il Petruccelli, che, spinto da forti ideali, aveva cercato e cercava di dare una nuova anima alla società invecchiata e decaduta, sia con l’azione politica sia con la penna del giornalista, e che aveva capito e approfondito certi meccanismi della politica e certe regole del vivere sociale,  si servì anche del mezzo letterario per manifestare sentimenti, idee, analisi e congetture; un mezzo, cioè, che gli consentiva senza troppi problemi l’uso di tinte drammatiche (a cui ricorreva frequentemente anche il pubblicista, il giornalista o il saggista che aveva bene appreso la lezione di antichi e grandi storici come Tacito) e, in più, l’uso dell’invenzione. E lo fece anche grazie a uno stile forse non sempre dello stesso livello e non sempre perfettamente curato, ma divenuto man mano sempre più libero dalle regole antiche, sempre più sciolto e leggero, certamente efficace per certe immediate, rapide e sicure definizioni e modernissimo — oggi si direbbe sperimentale — se si pensa all’uso di francesismi e inglesismi in un tempo segnato fortemente dal purismo, soprattutto a Napoli; il dialogo fu quello della commedia, non senza evidenti elementi plautini; il racconto fu animato dalla passione politica e avvivato da un finissimo humour.

Ferdinando Petruccelli parlò di Castellammare in uno dei più interessanti tra i suoi romanzi, nel quale poté ben fondere le sue reali esperienze napoletane con le sue fantastiche visioni, Il sorbetto della regina, opera di successo, pubblicata per la prima volta nel 1875 e giunta già nel 1881 alla terza edizione per i tipi dei Fratelli Treves di Milano, che la inserirono nella loro Biblioteca Amena.

 

 

 

Il romanzo, secondo i gusti del tempo, è un intreccio tortuoso di misteriose e strabilianti vicende che avvolgono e coinvolgono, durante il regno di Ferdinando II, la storia di Bruto, un giovane lucano di Moliterno inviato — un po’ come era capitato allo scrittore stesso — intorno al 1834 dal padre a Napoli, presso uno zio sagrestano, per studiare medicina.

Ne indichiamo sommariamente l’orditura, anche per mostrare più agevolmente la naturale collocazione della descrizione di Castellammare e dell’azione che qui si svolge.

Nella capitale, Bruto si laurea e fa le sue prime esperienze professionali. Intanto ha ricevuto per lettera dal compaesano Pietro Colini, ex-sergente borbonico nonché ex-colonnello napoleonico, l’incarico di ritrovargli l’amante di vent’anni prima. Egli la cerca aiutato da don Gabriele, un attore divenuto suo inseparabile consigliere, e scopre che vive proprio di fronte a lui, abbrutita da un passato torbido e dalla miseria, insieme con la figlia Lena avuta dal Colini, bellissima ragazza di animo buono e con una voce straordinaria, che egli ha frequentemente ammirato attraverso la finestra, provando per lei un sentimento di pietà, forse anche di amore, ed essendo a sua volta da lei segretamente amato. Chiama il Colini a Napoli, ma ormai le due donne sono scomparse.

Gli capita un giorno l’occasione di curare Cecilia, figlia del sedicente conte Ruitz, custode dei canarini della regina madre Urraca (con questo nome l’autore copre la figura della regina madre di allora, Maria Isabella Borbone di Spagna). L’avvenente Cecilia aspetta un figlio dal marchese di Diano, un poco di buono, scapestrato e «guappo». Bruto se ne invaghisce ed accetta l’equivoca proposta del conte Ruitz di sposarla di nascosto, anche se non gradito a lei, che ama il marchese (nei patti il matrimonio non era da consumarsi e nelle mire del conte doveva coprire anche un’altra situazione).

Il prepotente marchese ha anche rapito Lena con la complicità della stessa madre, ne ha fatto con l’inganno la sua amante e tuttavia  le fa studiare canto offrendole indirettamente la grande occasione di sostituire la protagonista nella Linda di Chamounix di Donizetti al S. Carlo. A teatro, al debutto di Lena, trovatosi a sedere a fianco del Colini, ignaro padre di lei, con insolenza lo provoca fino ad inseguirlo dopo la rappresentazione e a costringerlo a battersi; ma è ferito e portato in ospedale dove è curato da Bruto, per il quale si verifica così anche l’occasione di incontrare l’accorsa Lena, conoscerne la storia recente e rivelarle il nome del padre.

Le conseguenze del duello sono che il Colini viene arrestato, mentre il marchese riesce a fuggire grazie ad alte protezioni e a nascondersi in una villa del fratello del re: «in una casa di campagna — parco di dissolutezze — del principe di Caserta, a Quisisana, vicino a Castellamare. Che la polizia osi dunque di andarlo a cercare in quella amabile fortezza!» [9].

Qui si recano in vettura («Non c’erano ancora le strade ferrate nel felice regno di Napoli» [10]) sia Lena, accompagnata da don Gabriele travestito da lord inglese per disorientare la polizia, sia Bruto, ognuno dei due all’insaputa dell’altro, entrambi chiamati dal marchese «presso il suo letto per ragioni diverse; l’amante per alleviare, il medico per guarire la ferita» [11].

è a questo punto che — seguendo Lena e don Gabriele — la narrazione e l’azione toccano Castellammare, cui è dedicato l’intero VIII capitolo della Parte seconda.

L’autore intende presentare direttamente al lettore la città, che al tempo dell’azione (intorno al 1838? [12]) era un rinomatissimo e frequentatissimo centro turistico, e che tuttavia al tempo della stesura dell’opera, cioè poco prima del 1875, cominciava a cedere il posto da una parte ad Ischia, apprezzata da chi amava i confortevoli luoghi di piacere e alla moda, dall’altra a Sorrento, apprezzata dagli amanti delle tranquille bellezze naturali. Lo fa con il suo tono abituale, deciso e nello stesso tempo teso a meravigliare non foss’altro che per la chiarezza  o, se si vuole, la stranezza delle affermazioni. Esordisce infatti così:

 

è impossibile che alcuno dei nostri lettori non sia mai stato a Castellamare. Pel momento l’è Ischia, luogo di bagni e di ritrovo di piacere nel medesimo tempo che tiene il campo della moda.

Comunque sia, gli è nei mesi di luglio e agosto che bisogna visitare Castellamare, rinomata per la bellezza dei suoi asini, e la bruttezza delle sue donne. Castellamare è l’anticamera di Sorrento, cantata da Lamartine e da lord Byron, patria del buon vitello... e degli aranci profumati (p. 195).

 

In verità, anche Castellammare era stata cantata più volte da Lamartine ed aveva i suoi aranci profumati, ma Sorrento, che non aveva allora folle di turisti, finiva per essere caratterizzata proprio e solo dalle suggestive e romantiche atmosfere che il Petruccelli sentiva in modo particolare [13].

Quanto al confronto Castellammare-Sorrento, in relazione alla villeggiatura estiva, vale la pena registrare la testimonianza di Matilde Serao, che, in Cuore infermo del 1881 (romanzo solo di qualche anno più tardo rispetto al Sorbetto della regina e coevo della sua terza edizione), mette in rilievo la monotonia della vita sorrentina rispetto a quella che si conduceva a Castellammare, nel cui frequentatissimo Stabia Hall si divertiva tutta la spensierata aristocrazia napoletana. Il Petruccelli, invece, non è dello stesso avviso circa i divertimenti stabiesi. Per lui, che forse non ha conosciuto o non ha apprezzato quegli stessi ambienti, o forse ha un ricordo, se non l’animo, più antico rispetto al tempo in cui scrive e più vicino a quello dell’azione, inutilmente si cercheranno divertimenti e conforti in questa cittadina, dove pur accorrono da tutto il Sud gli ammalati o i buongustai che vanno a scontare le indigestioni dei dieci mesi passati, ma dove si conduce una vita noiosa, quasi da «zoccolante», senza mai una festa che non fosse la processione di S. Catello:

 

In questa stagione dell’anno, le acque richiamano gli ammalati da tutti i punti dell’ex-regno, i gastronomi, che vengono a scontare le indigestioni di dieci mesi, i disgraziati cui la medicina abbandonò.

Voi che avete visitato le città ed acque della Germania e dei Pirenei, e le città da bagni della Francia e dell’Inghilterra, non vi aspettate di trovare a Castellamare ridotti da giuoco, saloni da conversazione, balli e musica, passeggiate, boschetti, restaurant, alberghi, divertimenti, dame, i lions dello sport e del turf, un teatro, un caffè cantante od anche un semplice caffè, — una festa qualunque infine, tranne la processione di san Catiello. — Dio vi abbia in guardia, se vi recate con queste idee diaboliche del mondo incivilito, che non è il mondo della Chiesa, e non era quindi neppur quello dei Borboni. La vita a Castellamare è più casalinga, più santa, quasi una vita di zoccolante. La noia non vi segna mai meno dei 94 ai 97 gradi centigradi (pp. 195-196).

 

Per l’autore, anche il clima è brutto; ma, a parte questo, la disposizione, la via principale e i vicoli, gli edifici, lo stesso «stabilimento» termale, costruito nel 1833 (pertanto recente al tempo dell’azione) ed affiancato da un trascurato giardinetto dove si bevevano le acque, sono il segno visibile di come l’uomo abbia potuto deturpare l’ambiente:

 

Castellamare non è che una lunga e sporca via in riva del mare, ove il sole vi cuoce durante il giorno, e l’umidità vi bagna durante la notte. Ovunque il fango o la polvere. Poi alcuni orribili chiassuoli, una dozzina di case di campagna perdute sulla montagna, a perpendicolo sul borgo, ed un equivoco di strada lambe i piè di codesta montagna, e vi si nuota in ondate convulse di polvere. Finalmente un piccolo sito, chiuso da inferriate, detto lo stabilimento, ed una sembianza di giardino, ove l’ortica e la malva si beano nella loro vegetazione spontanea. Non parlo degli insetti, prodotto naturale del paese.

Ecco ciò che l’uomo ha fatto di Castellamare (p. 196).

 

Nonostante ciò, l’immensa e potente natura rivela ed esibisce tutte le sue bellezze e il Petruccelli, proprio come aveva fatto venticinque anni prima, nella pagina indicata de La rivoluzione di Napoli nel 1848, non riesce a nascondere la sua commozione, questa volta, tuttavia, senza manifestare sentimenti di ribellione, ma solo di incanto e di entusiasmo:

 

Ciò che ne ha fatto la natura è incomparabile.

Quel mare, quel cielo, quella montagna, quei paesaggi, quei spuntar dell’aurora, quei tramonti, quelle feste di stelle la notte, tutto è delizioso, inebbriante, incantatore (p. 196).

 

Lena e don Gabriele vi giungono di sera, dopo aver visitato le città attraversate nel percorso; volendo essere sicuri di trovare una sistemazione per la notte, si recano ad un albergo di lusso, che il Petruccelli chiama «albergo dell’Europa»:

 

Si recarono all’albergo dell’Europa, ove si è sicuri di trovar sempre alloggio, poiché l’è troppo caro per gli avventori ordinari di questa città di bagni. Costoro si alloggiano in camere mobigliate (p. 196).

 

Castellammare era allora caratterizzata dalla presenza ossessiva, in alcuni punti, dei ciucciari che assediavano i viaggiatori e i turisti per accompagnarli con le loro bestie negli ameni dintorni, come monte Coppola e Quisisana, o all’albergo, all’alloggio, allo «stabilimento», in qualsiasi altro luogo [14]. Nel romanzo si narra di un giovane ciucciaro che arriva al punto di introdursi nella camera di Lena. L’episodio è davvero singolare e, se lascia trapelare un po’ troppo la mano dell’autore, che si diverte a caricare la figura di questo astuto ciucciaro-predicatore soprattutto attraverso il tono e le argomentazioni del dialogo, non meraviglia certo la situazione, sia perché gli asinai di Castellammare erano davvero intraprendenti, sia perché poteva benissimo verificarsi che si accordassero asinai e albergatori e si facesse in modo da non lasciare alternative ai clienti:

 

Lena dormì bene e si svegliò tardi la mattina susseguente. Dico che si risvegliò. Dovrei dire fu risvegliata. Si picchiò alla sua porta: scese dal letto in accappatoio da notte, ma al momento stesso la porta s’aprì, ed un monello, dorato al sole come un dattero, il petto ignudo, senza scarpe, in maniche di camicia, il berretto alla mano, si presentò fissando sulla giovane donna due occhi come due áncore di cristallo. Egli si avanzò liberamente e le chiese:

— Come lo vuole, vostra eccellenza?

— Chi sei tu? cosa vuoi? gridò Lena spaventata. Va via, via subito: non vedi che non posso riceverti in questi arnesi?

— Cosa importa? I miei sono alla grazia di Dio. Sono venuto per domandarvi se lo volete calzato o no?

— Esci, ti dico, o chiamo, e ti fo gettare dalla finestra.

— Sarebbe la via la più corta. E vostra eccellenza sa che per la via più corta, come dice il padre Sillario, non si va in paradiso.

— Ma finalmente cosa vuoi? di che parli?

— Ma, Signor Dio benedetto, parlo dell’asino, dunque. Di che volete che vi parli?

— Esci, ti replico.

— Signora principessa, manca poco che mi prendiate per un ladro. Me ne vado: se vostra eccellenza ha bisogno di un asino o due, che faccia chiamare Antonio, conosciuto nelle quattro parti del mondo. Le milady inglesi non vogliono che me. Mi hanno ficcato persino nei libri. E non lo dico per piaggiarvi, ma ho un asino tanto bello quanto vostra eccellenza. Se lo vedeste! si alza sulle due zampe di dietro e recita il panegirico di santa Filomena. E poi, ha una voce, una voce... Sfido i canonici della cattedrale di farne udire di più deliziose. Mi consigliarono di esporlo al concorso pel posto di cantore al coro di Massa. Sì, l’udrete come esso gorgheggia l’Ite missa est! E poi come galoppa, come bacia le mani con grazia e buona creanza... In una parola, che vostra eccellenza non dimentichi il suo Antonio, e la vedrà. Balaam non fece un sogno quando profetizzò la sua somara: me lo disse un giorno il curato.

— Hai finito?... Vattene ora a tutti i diavoli.

— Vado ad aspettare vostra eccellenza.

Per dire la verità, Antonio aveva un po’ esagerato le qualità della sua cavalcatura comparandola alla bellezza di sua eccellenza. Il suo somaretto era magro, lungo, ossoso, sciancato. Ma Antonio, da ragazzo astuto, da uomo che dava la metà del suo guadagno al padrone dell’albergo, fece trovare la sua bestia ed una compagna di mangiatoia alla porta dell’albergo, ogni concorrenza messa da banda.

Lena e don Gabriele furono quindi obbligati di contentarsi di quei due asini per recarsi allo stabilimento (pp. 197-198).

 

 

Ma appena arrivati, non hanno nemmeno il tempo di scendere sulla ‘terra ferma’ e subito devono sostenere la ressa di venditori, mendicanti ed altro, che di solito si faceva intorno ai malcapitati viaggiatori:

 

Arrivati dinanzi al cancello, pagarono Antonio e scesero. Quella ginnastica asinaria dava il mal di mare a Lena. Furono allora circondati da una folla di mendicanti, di postulanti, di mercanti, di curiosi, da una mob malsana, direbbero gli Inglesi (p. 198).

 

 

 

Si accavallano lanciando offerte in modo curioso e goffo rozze e insolenti figure, tra cui un altro asinaio geloso di Antonio, una sudicia venditrice di tarallucci, un venditore di libri non certo aggiornato o informato e che non lesina enormità, anche un venditore di anelli rubati, anche un venditore di numeri al lotto e tanti altri. Il Petruccelli forse riporta a modo suo le proposte di questa gente, caricandole di ironia fino alla comicità, attribuendo in qualche caso affermazioni inventate per divertire i suoi lettori, comunque puntando su caratteristiche vere o non lontane dal vero; e non si può dire che la pagina non sia di effetto:

 

— Eccellenza, volete degli asini? domandava un altro asinaio a don Gabriele. Un milord come vostra eccellenza non può cavalcare che una gazzella come la mia. Lasciate codesta etica carogna di Antonio, che s’inginocchia ad ogni cinque passi, e porta la testa bassa come un seminarista. Vi darò un animale degno d’essere bipede come vostra eccellenza.

— Fátti via di là, rispondeva Antonio punto nell’onore del suo somaro; il tuo struzzo ha più guidaleschi alla schiena, che un confessore non ha peccati nelle orecchie.

— Eccellenza, guardatevi bene da quell’uomo, egli ha la rogna.

— Vostra eccellenza, vuol ella accettare un rasoio per la barba? diceva un mercante a Lena; è dei più perfetti inglesi, fabbricati a Campobasso.

— Eccellenza, diceva un altro a don Gabriele, ecco della Wagram, della fabbrica di Piedimonte a Manchester. Ve la vendo a prova di limone. Me la pagherete quando l’avrete adoperata! Non vi chiedo che un acconto di sette lire al metro, per ricordo dell’onore di avervi servito.

— Freschi, freschi! gridava una donna dalla faccia e dalla persona orribilmente sudice; vengono fuori or ora dal forno, i biscottini. Vedete, sentite, ci ho messo del finocchio. Andiamo, zio canonico, prendete il mio taralluccio. Vostra reverenza ne sarà contenta.

— Cose belle a leggere, urlava un libraio che aveva spalancato qualche dozzina di volumi sopra una tavola. Tutta roba venuta a luce mo’ mo’, ed a che prezzo ancora! Ecco un romanzo per le signorine: Trattato delle ipoteche del signor Pothier. Ecco un libro per vostra reverenza, signor canonico, un trattato sull’indigestione, e l’Uomo dai tre calzoni, compendio di teologia morale del professore della Sorbonne, signor Paolo di Kock. Volete un libro d’educazione per le vostre figliuole, signor sindaco? Eccovi Lelia, Spiridione del signor Giorgio Sand, professore d’etica al collegio di Francia. Il signor abate può terminare le sue devozioni nelle Novelle dell’abate Casti — abate casto se ve ne fu mai! E poi, libri ancora più nuovi, arrivati la settimana scorsa da Liverpool e da Marsiglia: Le Fa­vole d’Esopo, l’Eneide travestita, il Cuoco milanese, l’Almanacco dell’anno scorso... Ma leggete dunque! leggete! [15]

— Ecco degli occhiali per la vista del signor sindaco. Vengono dalla Baviera, signore: gli è Sacco che li ha fabbricati.

— Signora sindachessa, eccole dei cavastivali.

— Volete dei numeri sicuri per il lotto? susurrava misteriosamente un bietolone a don Gabriele.

— Signor giudice, prenda questo anello che ho rubato; glielo lascio a buon prezzo.

— Signora milady, ecco uno specifico contro le pulci, diceva un altro a Lena (pp. 198-200).

 

 

Liberarsi dai venditori ed entrare nello «stabilimento» non significa guadagnare pace e tranquillità. Anche qui folla e gente in conversazione o che si avvicina per parlare, conoscere, confidarsi, scambiarsi notizie sulle cure. Attaccano discorso con Lena, prima il vescovo di Policastro, che vede nel fenomeno delle acque di Castellammare un grande prodigio della natura, poi l’ingenuo sindaco di Aratusa costretto alla fine a scappare per l’effetto delle acque, mentre intorno si forma un capannello di persone:

 

I nostri viaggiatori non ascoltarono il resto: avevano varcata la porta dello stabilimento.

La folla non era meno grande dentro che fuori. Si udiva dire da ogni punto:

— Buon giorno, compare. Hai bevuto?

— Quindici bicchieri, e tu?

— Ah! madama, diceva il vescovo di Policastro a Lena, che si era avvicinata ad una vasca; bisogna convenirne, la natura è prodigiosa. Metter tanti gusti differenti in una sola spaccatura... d’acque!

Infatti, dall’istessa fessura della roccia, appiedi della montagna, sgorgano cinque sorta differenti di acque minerali [16].

— Dio è grande, monsignore, rispose Lena.

— Principalmente nella varietà delle acque e nell’immensa quantità delle bestie! soggiunse don Gabriele.

— Ho sempre abbisognato di lassativi, io, signora, confidava il sindaco di Aratusa a Lena, mischiandosi alla conversazione ed al capannello che si formava intorno a Lena ed al vescovo. Mia moglie perdeva la pazienza, le mie figlie brontolavano, ed ecco che quest’acqua...

— Siete cattolica, milady? chiese il vescovo.

— Credo, almeno...

— To’! avrei giurato che foste romana, milady, osservò il sindaco. Quella statura... e poi parlate il napoletano a perfezione... Fareste arrossire mio nipote, che studia da sette anni il latino e l’italiano al seminario. E’ dice che io sono un imbecille: e gli altri lo ripetono. E bisogna che ci sia qualcosa di così, poiché son tutti del medesimo parere. Malgrado ciò, senza matematiche e senza lingua italiana, ho raggruzzolato una fortuna di 30,000 ducati. Ora, ella mi capisce, monsignore?

— Parola per parola.

— Anche l’intendente mi capisce, quantunque non faccia mai quello che io gli dico, e che io sia obbligato a fare ciò che egli ordina. Ma chi comanda è sempre a tre quarti sordo; la è vecchia. Non è vero, monsignore?

— Voi avete delle opinioni democratiche, signor sindaco, fate attenzione.

— Ah! ah! non sente nessun moto nel suo ventre, monsignore? Col permesso delle loro signorie... se posso esser utile in qualche cosa... Don Michele Cupola, sindaco d’Aratusa. Vengano ad Aratusa... Col loro permesso (pp. 200-201).

 

 

 

I nostri personaggi si spostano, cercano di raggiungere il giardinetto, ma poi siedono sulla terrazza vicino ad un arciprete. Anche questi attacca discorso nel mentre cerca di recitare le sue ore, parla del suo concorso per diventare arciprete, di un suo nipote che lo impensierisce molto, finché non è costretto anch’egli a scappare per l’effetto delle acque. L’episodio, pur nella sua brevità, ci rivela tutta l’abilità narrativa del Petruccelli, che non disprezza come si vede le tecniche del teatro comico:

 

Lena e don Gabriele andarono a passeggiare nel giardino; ma vi erano a percorrere tante giravolte, montando e discendendo, che Lena s’appigliò al partito di sedere sulla terrazza, vicino ad un arciprete che recitava le sue ore.

Ad te, Domine, clamavi... Che caldo, signora! Non ho mai sudato tanto in vita mia, neppure quando concorsi per essere arciprete. Un concorso famoso, signora... Monsignore ne restò stupito... Ad te, Domine, clamavi... Come vi chiamate, signora? Di che paese siete? Vorrei solamente sapere se nel vostro paese incontraste mai mio nipote. Ad te, Domine, clamavi... Non lo credereste, signora? egli è andato a Londra per pagare una ghinea un piatto di maccheroni, e vedere come i cani strozzano i topi, e come si beccano fra loro i galli, per la conquista d’una gallina. Noi vediamo ogni giorno tutto ciò nelle nostre strade. Ad te, Domine, clamavi...

— L’è un uomo prodigioso, vostro nipote, signor arciprete, osservò don Gabriele, che studiava i tipi ed i caratteri pel suo teatro.

Ad te, Domine, clamavi... prodigioso! A chi lo dite? s’imbacucca il tabarro l’estate, ho veduto ciò a Saragozza — e porta calzoni di tela l’inverno. Ha la rabbia di comprar roba vecchia. Corre dietro a tutto ciò che è archeologico, perfino le donne! Ad te, Domine, clamavi... Non parla che di Parigi. Credo che quel paese ha inventate la luna e le anime del purgatorio... Vorrebbe fare un Parigi del nostro borgo. Ad te, Domine, clamavi... Clamavi... Clamavi... L’è arrivato. Col vostro permesso, signora, sono obbligato di assentarmi... Gloria in excelsis (pp. 201-202).

 

In questa figura di arciprete il nostro irriverente e scherzoso Petruccelli fonde — se ci è consentito — l’escatologia con la scatologia, il fine della vita dell’uomo o della storia con il fine di una passata d’acque stabiesi. Il Petruccelli, va da sé, inventa, ma vorrei far rilevare che l’invenzione non si allontana dalla realtà in quanto situazioni di questo tipo (nel caso, preti che recitavano le ore in attesa dell’effetto delle acque) dovevano essere normali. Anche la presenza di prelati e notabili era normale nello stabilimento di Castellammare. Una testimonianza relativa proprio ai tempi dell’azione del romanzo, degna di fede e precisa al punto da indicare o fare qualche nome delle personalità religiose e civili presenti nella cittadina termale, fu quella di Luca De Samuele Cagnazzi: «Dopo la lunga malattia sofferta mi fu precettato da’ medici di portarmi in Castellammare (anno 1840) a prendere l’acqua medica. Mi ci portai al primo di luglio, e ritornai il 31 di questo. Molto mi divagò quella dimora, ove moltissime accoglienze trovai non solo da cittadini che da forestieri ivi dimoranti per lo stesso oggetto di far uso di quelle acque. Vidi ivi l’Arcivescovo di Salerno, uomo di ottima condotta negli affari. Vidi l’Intendente di Salerno il quale parla bene, ma mi dicevano che non era poi conseguente nell’agire. Molto trattai l’Arcivescovo di Cosenza mio antico amico. Trattai anche Monsignor Lanzetta, Vescovo di Lacedonia, uomo di santissimi costumi. Moltissimi preti ed altri forestieri delle vicine provincie ebbero premura conoscermi e trattarmi, ed io fui compiaciuto della loro prevenzione per me» [17].

Ma torniamo al Sorbetto della regina. Fattasi finalmente l’ora di andare dal marchese, i due si recano a Quisisana, naturalmente sugli asini. Il luogo è pittoresco, il paesaggio è stupendo, i giochi di luce e l’atmosfera sono da sogno. Non si può restare insensibili:

 

L’ora di andar a trovare il marchese essendo giunta, i nostri viaggiatori uscirono dallo stabilimento, e ripresero gli asini per ascendere ad uno dei poggi della montagna, ove il casino del principe di Caserta era situato.

Questa montagna è molto pittoresca, coperta di una bella vegetazione, e presenta una superba varietà di paesaggi, a misura che la strada tagliata su’ suoi spaldi, guarda la campagna –ove si rizza il Vesuvio, e si vedono le città di Nocera, di Lettere, di Gragnano– e il mare con i suoi flutti indago, ove si cullano in mezzo ai vapori violetti Capri, Nisida, Ischia, la punta di Sorrento e di Massa e il fondo di Napoli che appare come una candida striscia. Tutto ciò sembra un sogno a traverso quel velo leggero di molecole dorate che nuotano nell’aria, prodotte dal calore, attratte dalla luce. Lena ed il suo compagno, malgrado la loro ansietà al momento di raggiungere il loro destino, non poterono restar insensibili ad uno spettacolo così vago (pp. 202-203).

 

 

 

Giungono infine alla casa dov’è rifugiato il marchese, da identificare attraverso la descrizione con il casino reale, ma prima di entrare nel viale di accesso, si accorgono della presenza della carrozza di Bruto e poi, più su, di un’altra carrozza:

 

Un lungo e tortuoso viale a diversi piani, chiuso da un cancello sulla strada, precedeva la casa. Una vettura attendeva alla porta.

— Giuro a Dio! disse don Gabriele, mi pare di conoscere quel cocchiere. Sarebbe curiosa... Aspettatemi qui...

Scese dall’asino, fece fermare Lena a un tiro di fucile dal castello, e si avanzò verso il cocchiere. Dopo pochi minuti di conversazione, don Gabriele ritornò, fece scendere Lena, pagò e rimandò gli asinai. Poi si avanzarono verso la vettura, varcarono la porta, e principiarono a montare su pel viale.

In una piazzuola che precedeva la casa, un’altra vettura, ma non da nolo questa, aspettava dietro un boschetto di acacie. Rimpetto alla casa si alzava un kiosque di caprifogli, bossi e mirti. La porta della casa era aperta, ed una vecchia spezzava qualche granello di sabbia che gli stivali dei visitatori avevano lasciati sul lastrico.

— Fermiamoci all’ombre di questi alberi, disse don Gabriele. Quando uscirà, voi salirete dal marchese, io vi aspetterò qui. Egli ci aspetterà nella vettura, secondo le istruzioni che ho date al cocchiere, e tutti insieme partiremo per Napoli allegramente (p. 203).

 

Non riusciranno a far visita al marchese. All’improvviso sentono due spari, vedono Bruto fuggire e con lui fuggono anche loro, dalla casa e da Castellammare.

Era successo che Bruto, arrivato prima di loro presso il marchese, accortosi della presenza anche di Cecilia, ormai sua moglie, si era scagliato contro di lui che, a sua volta, lo aveva colpito e ferito alla testa con due colpi di pistola.

Ma vediamo il séguito. Bruto, scampato alla morte, racconta la sua storia ad una bella dama sui quarant’anni la quale si reca spesso e di nascosto in un appartamentino collegato con la casa del conte Ruitz ed è morbosamente interessata al giovane medico che l’ha frequentata spinto da Ruitz: la principessa di Kerson, così è conosciuta, conduce una vita misteriosa ed ha una straordinaria, «meravigliosa» [18] somiglianza con la regina madre; il marchese se ne va a Parigi; Cecilia sparisce con lui, ma poi sarà uccisa presso Sorrento dal conte di Altavilla, secondo il racconto che quest’altro avventuroso personaggio inserito nell’intreccio farà più tardi; Lena va a cantare anch’essa a Parigi; l’ex-colonnello è ancora in prigione, ma il suo caso si trasforma in un vero e proprio casus belli, motivo di forte tensione fra le nazioni: contro di lui il re di Napoli appoggiato da Russia e Austria, a suo favore la Francia che ne formalizza lo status e invoca le leggi internazionali.

Questi risvolti inducono Lena a tornare a Napoli in aiuto del padre, ma qui inaspettatamente riceve l’invito della regina madre a recarsi a corte per cantare. Ella prima è incerta; poi accetta, va, canta, narra anche la sua storia, svela anche che il colonnello è suo padre, parla del suo fortissimo amore per Bruto. La regina a questo punto è turbata, si fa rossa, chiede al conte Ruitz di portare dei sorbetti, quelli che i Napoletani chiamavano ‘acqua di amarena’, offre con le sue stesse mani anche a Lena il sorbetto, dopo però aver fatto qualche strana operazione con il bicchiere. Lena beve e improvvisamente si sente di morire, viene chiamato il dottor Bruto, gli muore fra le braccia.

Bruto non potrà che rassegnarsi, qualche mese più tardi il colonnello Colini sarà graziato («Era così clemente, re Bomba!» [19]), ma da allora in poi i Napoletani chiameranno quella bibita di amarene «il sorbetto della regina».

è questa la storia che a fatica si riesce a dipanare da un intrico fittissimo di vicende e situazioni che toccano un po’ tutti gli strati della società e che offrono un quadro spietato della Napoli di metà Ottocento: tra i vizi e i delitti dei Borbone e la miseria degli umili, nel mondo narrato dal Petruccelli, c’è spazio solo per la prepotenza, la corruzione, la degradazione, e la vita finisce per essere un viaggio oscuro e impossibile tra cattiverie, inganni,  tradimenti, umiliazioni, soprusi.

Per tale motivo il passaggio per Castellammare, sia pure disturbato dalle piccole molestie o furberie di asinai e venditori e da calche o intrusioni, costituisce una delle poche parentesi di serenità, di humour e di divertimento che la vita e il narratore concedono ai nostri personaggi e ai lettori, in una cornice naturale di incanto.

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

[1] Nato a Moliterno, in Basilicata, nel 1815, studiò medicina a Napoli, ove si addottorò nel 1836, ma esercitò per poco tempo la professione, perché sentì prepotente il richiamo verso il giornalismo, la politica e la letteratura.

Già nel 1840 apparvero sul «Raccoglitore fiorentino» e sul napoletano «Salvator Rosa» delle sue coloritissime corrispondenze dalle città visitate durante un viaggio fuori del Regno. E già nel 1843 vide la luce a Napoli Malina di Taranto e quattro anni dopo a Milano Ildebrando, particolarissimi romanzi ‘storici’ non senza il sapore del romanzo ‘nero’ inglese; e nello stesso 1847 partecipò con il racconto Antonio a quella felicissima Napoli in miniatura ovvero il popolo di Napoli ed i suoi costumi, «opera di patrii autori» pubblicata a cura di Mariano Lombardi.

 Attratto dalla politica e dagli ideali liberali, fu cospiratore. Nel 1848 a Napoli, dopo l’elargizione della costituzione, fu deputato al parlamento e vivacissimo e battagliero direttore del giornale «Mondo vecchio e mondo nuovo», quindi esule dopo il 15 maggio. Rieletto nel 1849, preferì per sicurezza rifugiarsi a Parigi; ma anche qui fu coi repubblicani contro Luigi Bonaparte nel 1851, per cui dovette riparare a Londra, dove frequentò Giuseppe Mazzini. Chiamato nel 1860 a Napoli da Garibaldi, partecipò come deputato alla vita parlamentare italiana dal 1861 al 1865 e dal 1874 al 1882, vivendo tuttavia spesso a Parigi, da cui ancora si fece espellere dal 1872 al 1875 per aver preso le parti dei comunardi e dove morì nel 1890.

[2] Citiamo: La rivoluzione di Napoli del 1848 (1850); I moribondi di Palazzo Carignano (1862), che segnò subito l’insofferenza nei confronti della nuova classe politica italiana; Gli incendiari della Comune (1872); Memorie del colpo di stato del 1851 a Parigi (1880); I fattori e i malfattori della politica europea contemporanea (1881-84); Storia d’Italia dal 1866 al 1880 (1881); Storia dell’idea italiana (1882); Memorie di un ex deputato (1884). Inoltre, sulla chiesa di Roma e sul papato: Storie arcane del pontificato di Leone XII, Gregorio XVI e Pio IX, con documenti diplomatici (1861); Histoire diplomatique des conclaves (1864-66); Pie IX, sa vie, son règne, l’homme, le prince, le pape (1866); II concilio (1869).

[3] S. Di Giacomo, Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, Roma 1995, p. 150.

[4] L. Russo, I narratori, Palermo 1987, p. 51.

[5] «Corriere della sera», 6 marzo 1999.

[6] Oltre ai due citati romanzi storici, si ricordano: II Re dei Re (1864), rifacimento dell’Ildebrando; Le memorie di Giuda (1870), romanzo storico redatto prima in francese e poi in italiano e considerato la sua migliore prova narrativa; Le notti degli emigrati a Londra (1872); II re prega (1874); II sorbetto della regina (1875); I suicidi di Parigi (1876); Le larve di Parigi (1878); Giorgione (1879), romanzo storico; Imperia (1880), romanzo storico; I pinzoccheri (1892), romanzo costruito come «scene della rivoluzione francese».

[7] L. Russo, Op. cit., p. 52.

[8] B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Vol V, Roma-Bari 1974, p. 300. è da considerare che il giudizio del Croce si inserisce in una considerazione di principio, chiara e coerente con il suo pensiero sull’arte, fatta a proposito dei giornalisti-autori della “nuova Italia”: «Si vuole, invece, semplicemente discorrere di alcuni scrittori, fondamentalmente giornalisti, che si provarono a comporre cose d’arte; e in ciò accadrà forse di riconfermare il convincimento, che è nell’opinione comune, di una sorta di contrarietà tra la disposizione al giornalismo e quella all’arte e alla scienza. / Cosa naturale, perché il giornalista s’indirizza e si addestra a cogliere la fortuna del momento, a vincere il punto, a far effetto sul suo pubblico, e questa, se non è già in lui natura, gli diventa una seconda natura, una disposizione spontanea: laddove l’artista, ed analogamente l’uomo di scienza e di critica, cerca unicamente di veder chiaro in sé stesso e di soddisfare sé stesso nell’immagine o nel pensiero che forma; e questa soddisfazione e gioia interiore è quel che si comunicherà, se si comunicherà e quando si comunicherà, agli altri che vorranno parteciparvi. / Quale delusione nello sfogliare i volumi di giornalisti che ebbero un tempo gran numero di lettori ammiranti e che parvero fontane zampillanti di vivacissimi spiriti; quale contrasto tra la pomposa risonanza del loro nome e l’effettiva povertà delle loro parole stampate!» (Ibid., pp. 299-300).

[9] F. Petruccelli della Gattina, Il sorbetto della regina. Terza edizione, Milano 1881, p. 188.

[10] Ibidem, p. 194.

[11] Ibidem, p. 187.

[12] Avanziamo l’ipotesi di questa incerta data, ricostruita sulle imprecise indicazioni fornite dall’autore: ad esempio, tra l’altro,  si sa che la Linda fu rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1842, che la strada ferrata Napoli-Portici è del 1839 e che il tratto fino a Castellammare è del 1842; eppure egli dice categoricamente che i due personaggi vanno a Castellammare dopo la rappresentazione dell’opera a Napoli e quando nel Regno non c’erano ancora le strade ferrate! Intanto devono essere passati alcuni anni dall’arrivo di Bruto a Napoli (nel 1834, vent’anni dopo che il Colini aveva lasciato la sua amata), durante i quali aveva studiato, si era laureato sia pure con qualche aiuto, aveva esercitato per qualche tempo, aveva chiamato Colini a Napoli che vi aveva passato un anno fino al duello. E tuttavia, se non l’anno, gli anni son quelli, il che non fa una grande differenza a meno di non superare il 1842 che, per la costruzione della strada ferrata Napoli-Castellammare e della carrozzabile Castellammare-Sorrento, segnò un svolta notevolissima per il turismo  e l’economia, e di Castellammare e di Sorrento.

[13] Si legga, a questo proposito, una parte della bellissima pagina in cui egli descrisse la notte del 14 dicembre 1847, una notte che spinse a meditare anche sui destini dell’uomo e a ritrovare, nella commozione e nell’entusiasmo, la «fierezza dell’individualità umana messa faccia a faccia con l’immensità della natura»: «quando un vulcano è là a due passi per rischiarare di una luce fantastica la variopinta città che stende, come Ero, le sue braccia per istringersi al seno le onde innamorate le quali le portano i profumi degli aranceti di Sorrento ed i misteri della luce della grotta azzurra di Capri; quando infine si contempla tutta quella scena sotto il prestigio dei colori della notte, l’anima si apre alle commozioni, il pensiero diventa un’ardente poesia, l’entusiasmo l’inebria» (F. Petruccelli, La rivoluzione di Napoli nel 1848. Nuova edizione a cura di F. Torraca, Milano-Roma-Napoli 1912, pp. 45-46).

[14] Cfr. G. Centonze, Ciucci e ciucciari nella Castellammare dell’Ottocento, in «Cultura e territorio», nn. 12-13-14, pp. 67-93.

[15] Forse il grosso pubblico non sapeva che Robert-Joseph Pothier fosse stato autore di trattati giuridici e non di romanzi, che Paul de Kock fosse autore non certo di opere teologiche, che George Sand fosse scrittrice e non scrittore né professore di etica, anche se indossava abiti maschili, così come non fossero certo adatte a terminare le devozioni le licenziose Novelle dell’abate Casti; inoltre, che le altre opere citate non fossero certo recenti, se pure si trattase di un Almanacco... dell’anno prima. Ma il libraio stabiese, questo Frassica di centocinquant’anni fa, non sapeva per niente quel che vendeva o, purché vendesse, ci provava, così come ci provavano coi loro espedienti tutti gli altri venditori?

[16] Si confronti questo passo con quanto scrisse nel 1842 Catello Parisi: «Le Acque minerali dello stabilimento nel largo del Cantiere con bella proprietà conservate in fondo di una graziosa villetta cui annesso vedesi un doppio ordine di eleganti bagni. Di varie specie esse sono — La Media che ha due distinte sorgenti nello stesso luogo — la Solfureo-Ferrata che nello stesso canale confondesi appena uscita dalla propria sorgente — la Ferrata del Pozzillo che in distinta vaschetta sorge ed attingesi — e la Ferrata-Nuova che ha pure la sua particolare vaschetta. I rispettivi nomi nel marmo impressi te ne danno la indicazione; e però molte altre specie di acque minerali, che pur nello stesso stabilimento si trovano, restano tuttora anonime — Ammirevole è invero il vedere in così ristretto spazio tante diverse acque nascere di diverso sapore — di diversa composizione — di diversa facoltà medicinale. La mente dell’idiota non meno che del Filosofo naturalista con ammirazione il medita — ne stupisce ed i sublimi venerandi arcani della natura con rispetto ne attesta» (C. Parisi, Cenno storico-descrittivo della città di Castellammare di Stabia, Firenze [ma: Napoli] 1842, pp. 38-39).

[17] L. De Samuele Cagnazzi. La mia vita. Memorie inedite a cura di A. Cutolo, Milano 1944, p. 256.

[18] F. Petruccelli della Gattina, Il sorbetto della regina, op. cit., p. 205.

[19] Ibidem, p. 275.

 

(Da "Cultura e Territorio", XV-XVI-XVII - 1998-1999-2000 [2001], pp. 103-124)

(Fine)

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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