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GIUSEPPE CENTONZE

La Ciucceide di Nicolò Lombardo

(1993)

 

 

La cultura italiana per almeno quattro secoli (dal XV al XVIII) fu fortemente e proficuamente segnata dal fiorire delle Accademie letterarie e scientifiche, soprattutto in periodi intensissimi di elaborazione intellettuale e di rinnovamento quali furono il Rinascimento e l'Illuminismo.

Intorno ad interessi specifici, i piú grandi dotti di allora seppero creare un ambiente ideale che non disperse le loro energie ed anzi favorí risultati evidenti e di alta risonanza. Tant'è che innumerevoli sorsero queste Accademie e molte finirono persino, per un gioco o di letteratura o di vita, ora piú raffinato ora anche un po' volgare, col fare ironia su se stesse, come possono fare facilmente immaginare quelle degli Oziosi o degli Addormentati, quelle degli Infuriati, degli Insensati, dei Rozzi.

La cultura napoletana, nello stesso arco di tempo, non fu da meno ed espresse le sue belle, a volte importantissime Accademie, dalla antichissima Pontaniana alla Ercolanense ed alla Palatina, come si sa, non senza tuttavia le ironiche varianti, non senza i suoi Addormentati ed i suoi Oziosi.

Proprio nell'àmbito di un'Accademia di quest'ultimo tipo, l'Accademia degli Asini, in un clima di svago e di scherzo o di coraggiosa autoironia, quando non di vera e propria trasgressione, nacque, nell'anno 1724, uno strano ma bel poema eroicomico in lingua napoletana, in quattordici canti in ottava rima (arragliate) ciascuno preceduto da un argomiento lungo appena un'ottava: La Ciucceide, o puro La reggia de li Ciucce conzarvata, Poemma arrojeco di Arnoldo Colombi, anagramma di Nicolò Lombardo, come suggeriscono A. e G. Scognamiglio (1), non di Nicolò Lombardi, come generalmente si riteneva.

Le scarse notizie che abbiamo di questo poeta, del quale non si conoscono altre opere oltre la Ciucceide, ci sono riferite dal Galiani nel suo Catalogo degli scrittori del basso dialetto napoletano in prosa ed in rima inserito nel trattato Del dialetto napoletano: "Fu questi un dotto e virtuoso avvocato, che poi, avviatosi nelle magistrature provinciali, morí nel 1749 capo di ruota nell'Udienza di Trani" (2). Le quali vanno corrette, secondo quanto sostiene il Nicolini nella edizione del Dialetto da lui curata (3), con quelle piú precise inviate da Foggia nel 1780 da Francesco Nicola De Dominicis all'Abate, che avrebbe dovuto utilizzarle in una seconda edizione del Dialetto: "Il fu don Nicola Lombardi fu in Marzo 1748 eletto Uditore della Dogana da Capo Ruota della Udienza di Trani, continuò in quella carica fino al principio dell'anno 1754, quando per la sua vecchiaia ed acciacchi di salute fu giubilato... Il sig. Lombardi andò a finire i suoi giorni nella propria casa [sc. a Napoli]". Risulta inoltre che fu membro dell'Accademia del Portico della Stadera fondata nel 1725.

L'autore stesso fornisce, in una Prefazione in versi sdruccioli indirizzata al Lettore (A cchi ha golío de lejere sta chelleta), le sole informazioni che abbiamo su fatti, luoghi e personaggi legati alla nascita dell'Accademia degli Asini. Durante il mese di maggio - egli dice - uno dei galatuomini napoletani che villeggiavano all'Arenella e si ritrovavano dopo le solite passeggiate mattutine presso la casa di un famoso vecchio medico, Gaetano de Alteriis(4), lanciò la felice idea che tutti súbito accolsero:

Ora no juorno, mente se trovavano / tutte 'nziemo a sta casa e ttrascorrevano, / spara uno de la mmorra: "Pe spassarece / veramente, ccà 'ncoppa, non porriamo / fa' nfra de nuie na specie d'Accademmia, / no' a dderitto, ma p'abburlare e rridere? / Ch'accossí potarriamo devertirece / e spassarce sti frate che nce scannano". / "Facimmola", decettero d'accordio / tutte quante. "Facimmola, facimmola - / lo buono viecchio -, ca mme va a lo ggenio". / E ddapo' ciento chelle e cciento chiacchiare / de lo ccomme e lo cquanno, resorvettero / de farla agn'otto juorne; e le mettettero / lo nomme d'Accademmïa de ll'Asene, / co na legge che ttutte componessero / matrecale e canzune 'ncoppa a ll'Asene. (A cchi..., vv. 58-74) (5)

Nell'Arragliata Ottava, nel racconto dell'orco del Vesuvio (strr. 24-42), che commenta agli asini alcune sue profetiche pitture, sono descritti e caratterizzati, con una forte ironia che sa farsi satira, i vari partecipanti alla futura Accademia ed è indicato lo stesso autore della Ciucceide; sono anche ribaditi gli scopi del sodalizio:

E cche ffanno ccà chisse aonitamente? / Stanno a llauda' a bbuje aute anemalune. / Se so' tutte scopierte pe ppariente / de li Ciucce, e ppe cchesto a bbuonnecchiune / se so' 'mpegnate a llaudare sta razza, / e fanno cose che nce vò la mazza. (Arr. VIII, str. 29) (6)

Il Lombardo vi partecipò su invito, senza molta convinzione, e cominciò a comporre questo suo poema sulle glorie degli asini, che piacque molto a chi poté ascoltarlo, nonostante l'autore stesso lo definisse una schefienzia (v. 91), tanto che non mancarono insistenti esortazioni a portarlo presto a termine, anche col fine della pubblicazione (7).

L'opera fu terminata in soli tre mesi ed il suo autore avvertí la necessità di appellarsi alla benevolenza del lettore per quei difetti causati dalla limitatezza del tempo di composizione, oltre che dall'aridità dell'insolito tema e dalla particolarità dell'occasione:

Si non te va a lo ggenio / quarche ccosa che ttruove 'int'a sta chelleta, / masseme a lo pprencipïo, te suppreco / co ddiece ventrecella a ccompatireme; / primmo pecché fu ffatta nfra lo termene / de tre mmise, e sse sa pe ttutta Napole; / agghiugne: la materia è ttroppo stéteca, / vasta di' ca se parla sempe d'Asene; / pe ttierzo: no' mm'è pparzo de 'mpizzarece / carche 'nnammoramiento, ch'è chell'àncora / addo' se fanno forte tutte ll'uommene / che bonno tira' a lluongo carche fabbola; / e pp'utemo: fuie fatta pe spassarece / nfra nuie e nnuie, ca no' nce jeva propio / pe lo penziero e mmaie ce smacenavamo / ch'avesse avuta a ccompare' pe Nnapole. (A cchi..., vv. 126-141) (8)

Ma le pur evidenti qualità dell'opera non potevano sfuggire alle nuove esigenze ed al gusto della borghesia napoletana.

Anche Ferdinando Galiani ne parlò in termini positivi. L'abate già nel primo capitolo del suo trattato Del dialetto napoletano, apparso nel 1779, discorrendo degli errori di lingua in cui generalmente incappavano gli scrittori napoletani, fece eccezione per due soli autori: "Siccome il nostro volgo parla nella goffa semplicità assai correttamente il suo natío dialetto, cosí tutt'i nostri scrittori, eccetto i due, il Lombardo e il Capasso, hanno, chi piú chi meno, commesso molti e intollerabili errori di lingua e barbarismi" (9). Nel secondo capitolo, poi, trattando dell'origine e varia fortuna del dialetto napoletano, egli asserí che all'inizio del XVIII secolo ci fu nel regno una generale rinascita degli studi, cui corrispose uno strano e non naturale interesse verso il puro toscano, al punto che ci si vergognò d'aver parlato e si rinnegò il dialetto napoletano, senza nemmeno approfittare del nuovo clima per correggerlo e purgarlo; ma che, tuttavia, ci furono due avvenimenti in qualche misura eccezionali: "Solo avvenne, per effetto generale del migliorato gusto, che comparissero in esso, nel 1724, il poemetto della Ciucceide di Nicolò Lombardo, lavoro cosí grazioso e finito in ogni sua parte che, tolti i difetti generali del dialetto di sopra accennati, può riguardarsi come la piú bella produzione tralle nostre e compararsi alle piú lepide di qualunque nazione; e le Poesie napoletane del Capasso, scritte tra 'l 1720 e il 1734 con quanta maggior vivacità d'ingegno, sale acutissimo e lepidezza vera si possa in somiglianti opere desiderare" (10).

Ci si può meravigliare, invece, del fatto che l'opera non sempre abbia avuto, in séguito, quel riconoscimento che le sarebbe spettato e che sia stata molte volte tanto ingiustamente dimenticata, persino nell'attuale, positivo momento di riscoperta della produzione dialettale. Anche il volume sulla Campania di R. Giglio (11), uscito nella collana "Letteratura delle regioni d'Italia. Storia e testi" dell'Editrice La Scuola, che pur fa conoscere ai nostri studenti tante voci piú o meno autorevoli della letteratura napoletana, non ne fa cenno.

 

* * *

 

I caratteri della Ciucceide si colgono già nella proposizione. Questa ci fornisce l'argomento nelle sue linee essenziali e, nella chiusura, forse permette di cogliere un piú ampio significato dell'opera; ma rivela anche, nel gioco letterario dell'apertura densa di reminiscenze (soprattutto del Tasso, già riscoperto dagli Arcadi) a contrasto con la piccolezza del luogo e la bestialità dei protagonisti, tutto l'intento ironico e scherzoso dell'autore:

Canto chillo gran Rre ch'into Gragnano / la Reggia de li Ciucce conzarvaje, / e ccomme fuie che, senz'ave' le mmano, / le mmura e no castiello nce chiantaje; / stese po' li confine, e cchiano chiano / tutto quanto lo munno nce 'nzerraje, / tanto ch'addo' lo Sole cammenava / auto bene che Ciucce non trovava. (Arr. I, str. 1) (12)

Anche l'invocazione ad una strana Musa, all'Asino alato cui spetta il primo posto per ragliare nel Parnaso, nonché all'Arciasino fiore e capotruppa dell'asinità, è un debito scherzoso verso la tradizione letteraria, pagato tuttavia con immagini anche scurrili, che risuonano fin troppo dissacranti:

Aseno co l'ascelle... / portame no voccone da lo vaso / che ba Febo a ttrova' quanno se cocca: / ... / fàmmece n'arragliata co ddoie pédeta. (Arr. I, str. 2) (13)

Ma addentriamoci nella narrazione.

Sotto il Monte Faito, dalla parte che guarda Napoli, si trova Gragnano, un bellissimo sito cui hanno mirato da sempre gli asini come al loro luogo ideale, come al luogo dell'età dell'oro, e lí hanno voluto ritirarsi quando il mondo è stato diviso dalla Discordia, eleggendo come loro "Caporale" Don Paccone perché li governi e faccia del paese la Reggia degli Asini. Don Paccone muore ed intanto prendono il sopravvento due figli della Discordia, Mio e Tuo: tutti al mondo pensano di mettersi al sicuro, non esclusi gli asini, il cui re, Barbabianca, accarezza l'idea di un castello con un muro tutt'intorno al regno e con le opportune difese. Sorgendo il problema di trovare mani che possano costruire tutto ciò, egli chiama a consulta gli asini piú sapienti (Arragliata Primma).

Gli asini sapienti che prendono la parola, sia Recchiardone sia Vrennarulo sia Scossato sia Pagliariello, in uno stile oratorio vuoto e goffo non dicono alcunché che non sia sciocco e sconclusionato ed anzi litigano tra loro e Recchiardone si mostra perfino irriguardoso nei confronti del re, che pertanto li fa prendere a calci dai soldati (Arragliata Seconna).

Sileno stesso viene in aiuto di Barbabianca, consigliandogli in sogno di recarsi a consultare l'oracolo presso il suo tempio a Lettere. Il re vi si reca, tra la guardia del corpo e preceduto da un gruppo di musici e suonatori che fanno un fracasso enorme (Arragliata Terza).

In una stalla si trova la goffa statua di Sileno e un asino, che fa da oracolo rispondendo con peti puzzolenti a chi accosta il naso al suo sedere, queste parole fa risuonare in un oscurissimo tosco: "Se bramate d'aver ciò che vi manca, / andatene a chi manca ciò ch'avete" (14) (Arragliata Quarta).

Il re non sa decifrare il messaggio e se ne torna mesto nella sua tana, ossessionato dall'oscurità di quelle parole. Intanto gli asini sono preoccupati, fanno circoli e commentano variamente l'insolito atteggiamento (Arragliata Quinta).

Di nuovo gli appare in sogno Sileno, che, dopo una litigata, gli spiega l'oracolo: il castello, le mura e le torri avrebbero potuto fabbricarli le scimmie: "Hanno le mmano che bbuie non avite / e le manca la coda che ttenite" (15). Sileno gli dice pure che il mondo è pieno di scimmie, ma che quelle che servono per l'opera le avrebbe trovate in Barberia: bisogna trovare due asini in grado di fare un discorso, farli andare a Somma e precipitare nel Vesuvio, da dove un orco li avrebbe trasportati in quella lontana terra. Ciò detto, Sileno fugge via lasciando il re contento da una parte, ma dall'altra già in difficoltà: chi mandare? (Arragliata Sesta).

Si fa per questo un concorso, tanti asini partecipano, ma fanno bruttissima figura, finché non si presenta, mandato dallo stesso Sileno, un asinello che promette di sbrogliare la faccenda (Arragliata Settema).

L'asinello parte con i compagni per Somma raccontando loro la storia sconosciuta dell'orco. Quindi tutti si gettano nel monte e sono ricevuti benevolmente dall'orco che fa loro vedere certi suoi artistici disegni preannuncianti tra l'altro una storia a gloria degli asini, relativa all'Accademia dell'Arenella, e, alla fine del discorso, fa salire gli asini su un cassone che fa volare fino al paese delle scimmie (Arragliata Ottava).

All'arrivo sono bene accolti dalle scimmie e dalla loro regina Chiarchiolla che, già preparata da Sileno, si dichiara disposta ad aiutarli. Vedono la finta e mirabile loro città, la casa della regina e le sue gallerie (Arragliata Nona).

Ricevuti in udienza, possono assistere ad una funzione davvero insolita e spettacolare, che crea qualche equivoco, ma che tuttavia ha buon esito. L'asinello, pertanto, fatta l'ambasciata, si cerca tutte le scimmie esperte in costruzioni ed è pronto a partire (Arragliata Decema).

Ecco quanto avviene nell'Arragliata Unnecema, secondo l'Argomiento:

Tutte li Ciucce co le Scigne 'ncuollo, / e cco zappe, co ccuofane e ccocchiare / so' ppe ll'aria portate a rrompecuollo / dinto a na nuvolella, che ccompare. / Vanno a Gragnano, e pposano a lo mmuollo, / 'nnanze a lo Rre, che nn'appe a speretare. / 'Ncignano a ffravecare, e no lavore / fanno 'n facce a na porta, de stopore. (Arr. XI, Arg.) (16)

Intanto un asino avverte il re che i Greci di Sicione, per vendicarsi degli asini che involontariamente hanno causato la vittoria degli Ambracioti su di loro, vogliono distruggere il loro Stato. Barbabianca si rivolge al suo protettore Sileno, che, a sua volta si rivolge a Giove. Dopo un consulto tra gli Dei, in obbligo nei confronti della vecchia Dea Asinità, che mise in testa agli uomini di adorarli, grazie a un consiglio di Mercurio si decide di ricorrere all'intervento di una strega che sappia trasformare gli stessi Sicioni in asini piuttosto che ammazzarli: in tal modo tutti saranno riconoscenti, anzi i nuovi asini si ameranno come fratelli con gli asini salvati (Arragliata Decemaseconna).

Mercurio si reca in Tessaglia, dove si trovano streghe capaci di trasformare gli uomini in animali - la magia sarebbe durata tutta la vita, ma, se la strega fosse morta prima di loro, essi sarebbero ritornati uomini pur non nascondendo del tutto la loro passata animalità - e si rivolge a Panfila, la stessa strega dell'Asino d'oro di Apuleio, perché prepari un intruglio da versare sulle mura di Gragnano, tale da trasformare in asino chiunque le scavalchi. I Sicioni, intanto, sicuri di vincere, si recano a Gragnano e sotto le sue mura attendono il mattino (Arragliata Decematerza).

Panfila a mezzanotte fa la stregoneria. I Greci vanno all'assalto infiammati dalle parole del loro capo, ma dopo aver scavalcato le mura si ritrovano trasformati in asini, legati dalle scimmie, condotti davanti a Barbabianca e da questo destinati a lavorare per fabbricare le mura e il castello: lavoro che dura per lunghissimo tempo. Finalmente, dopo sei anni Sileno avverte in sogno Barbabianca che la strega sta per morire e che quindi i Greci ritorneranno uomini, ma lo rassicura che essi non perderanno i loro costumi bestiali e che ameranno sempre gli asini; tuttavia, per evitare dicerie, sarebbe stato meglio farli fuggire. Cosí avviene: gli asini cacciati vagano piangendo per il dolore finché si addormentano a mezzogiorno in un boschetto, qui si risvegliano uomini, essendo morta Panfila. Da uomini si daranno da fare, arricchiranno, ma manterranno e trasmetteranno ai figli ed ai figli dei figli la loro asinità (Arragliata Decemaquarta).

La proposizione e gli Argomienti, tuttavia, o la sintesi della narrazione, se pure già rivelano evidenti novità dell'opera, niente o quasi possono dire degli aspetti particolari o caratterizzanti, delle descrizioni, dei dialoghi, delle battute, della teatralità, della popolarità, delle immagini, dello stile e di quanto altro ne costituisce ancor di piú l'originalità o il pregio.

Cominciamo dalle descrizioni dei luoghi che fanno da sfondo ad azioni tanto singolari.

Il luogo principale della vicenda è Gragnano, che il Lombardo ci presenta immediatamente, súbito dopo l'invocazione :

Sott'a na gran montagna de la costa, / da la banna de Napole, è no monte / che ppoco da Sorriento se descosta, / e la Torre co Buosco le sta 'nfronte: / bello, che ppare propio fatto apposta / pe Mmarchise, pe Pprincepe e ppe Ccuonte, / ditto da la grammegna Grammegnano, / po' se corroppe, e se chiammaie Gragnano. (Arr. I, str. 4) (17)

 

 

 

A questo luogo, fin dalle origini del mondo, mirarono gli asini, poiché...

abbistaieno ch'a cchella montagnella / maie nce mancava ll'erva tennerella. (Arr. I, str. 6) (18)

Qui essi si riunirono in amicizia nella mitica età dell'oro. Qui vollero ritirarsi, pensando di stare dinto a la vammace (Arr. I, str. 11) (19), quando la Discordia cominciò a rovinare il mondo e tutti gli esseri si trincerarono in difesa evitando la compagnia degli altri. E quando Mio e Tuo litigarono per dividersi il mondo, alla vittoria di Mio tutti cercarono di difendersi ed il re degli asini meditò di fare grandi costruzioni a difesa del bel posto:

E rresorvette de volerce fare / comm'a na chiazza d'arme a sto pajese; / e ffarce no castiello pe nce stare / a lo ssecuro da tutte l'affese, / co no muro ch'avesse a 'ntornejare / tutto lo Regno; e ffarce le ddefese, / azzò, si maie le fosse fatta guerra, / se potesse defennere la terra. (Arr. I, str. 17) (20)

E per mettere in pratica la sua idea di innalzare il castello e le mura chiamò a consulta gli asini piú sapienti, adducendo come motivazione la straordinaria bellezza del luogo:

Figlie mieie, si avite uocchie ggià bbedite / la grassa de sti luoche ch'abbetate: / erva no' nc'è a lo munno che bbolite, / che ccà senza cerca' no' la trovate: / lo ffrisco de ste ffrasche saporite / no' nce fa mmaie canoscere la 'state: / si volit'acqua, nn'esce da ste pprete / tanta ch'abbasta a nce annega' la sete. // No' ve parlo mo ccà de la grannezza / de st'uorte, de ste ssirve e de ste cchiazze: / ste ccase noste songo na bbellezza, / auto che ghire a ffraveca' palazze! / Chiste la razza nosta no' l'apprezza, / ma ll'ha lassate 'mmano a ccierti pazze, / che stimmano co Giove de sta' a ttuzzo, / e sso' ddigne de sta' dint'a no puzzo. // Che bboglio di' co cchesto? Aggio appaura / che cquarcuno no' ns'aggia a 'nnammorare / de ste bellizze a ll'uocchie de fortura. (Arr. I, strr. 29-31) (21)

A Lettere c'era l'oracolo di Sileno, che il re doveva consultare.

All'inizio dell'Arragliata Quarta il paesino è appena abbozzato; ma il quadretto, una semplice immagine quotidiana ingentilita dai frequenti diminutivi, un esempio graziosissimo della eleganza settecentesca partenopea che si vivifica nella popolarità, è delizioso per quanto è breve:

Lettere è no paese acconciolillo, / che ppoco se descosta da Gragnano; / tanto che ssi nce va no peccerillo / magnanno la marenna chiano chiano, / n'ha sciso ancora ll'utemo morzillo / che ll'è 'ncuollo e lo tocca co la mano: / schitto nce sta no po' de montagnella, / ch'a ssagli' te fa fa' na sodatella. (Arr. IV, str. 1) (22)

 

 

Sulla sua sommità, tuttavia, in un orrido e buio dirupo boscoso, vi era una stalla non facilmente raggiungibile:

'Ncopp'a la cimma, dinto a no scarrupo, / nce sta comm'a na stalla de campagna / ch'è 'nchiusa da no vosco cupo cupo, / che no' ll'asce si n'haje chi t'accompagna. / Ccà no' nce siente maie strille de lupo, / ma sulo carch'auciello s'appapagna; / carch'auciello de chille desperate / che bbanno pe ffui' le scoppettate. (Arr. IV, str. 2) (23)

In essa c'era una statua di Sileno, che la rendeva sacra e molto visitata; ma l'interno non era certo piacevole:

Era chesta na grotta scura scura, / na cosa longa longa e nnera nera, / ch'uno no' nce starria pe la paura / si mbè fosse fojuto da galera; / úmmeto, che cchiovevano le mmura; / friddo, che t'agghiacciava na vritera: / parea la casa de li scarrafune, / la vera grotta de li sportegliune. // Ccà trovave na chelleta de paglia, / llà 'mpontave de fieno a no mmattuoglio; / ive cchiú 'nnanze e ppegliave na quaglia, / ma molla molla e lliqueta comm'uoglio, / tornave arreto e 'n facce a na moraglia / nn'asciave ammontonato n'auto 'mbruoglio. / 'Nzomma, vota da ccà, ggira da llà, / o paglia o stronza avive da trova'. (Arr. IV, str. 8-9) (24)

Altri luoghi sono o richiamati nel racconto o toccati durante il viaggio degli asini, come ad esempio il Vesuvio, da cui essi saranno trasportati nel paese delle scimmie, e, certamente, lo stesso paese delle scimmie.

Nel caso del Vesuvio e della sua "sorella" Solfatara, personificati nella storia scanosciuta fatta dall'asinello che guidò gli asini sulla salita di Somma fino alla bocca del vulcano, paesaggio e favola, mistero della natura e fantasia popolare si fondono:

Sacciate addonca, ch'into a sta montagna, / addo' nuie trasarrimmo, nce sta n'Uorco. / ... / Magna prete, schefienzie. Comm'è spuorco! / Magna oro, magna chiummo, magn'argiento. / E lo ppò padeja'? Nne fa n'agniento. // Se chiamma lo Vesuvio e ha na sore, / ch'è ppur'Orca e sse chiamma Zorfatara, / che sta poco descuosto, e ascíjeno fore / tutte duje a no ventre; è cosa rara / comme so' ttutte de no stisso ammore. / Si chella stace allegra, se reschiara / la facce de chist'auto; ma si chisso / se 'nzorfa, chella 'ncigna a ffa' l'aggrisso. // Si chisto mo peppeja, e chella fumma; / si chella ha ffamme, e cchisto have l'abbramma. / ... // Na cosa schitto ha chisto che n'ha chella: / e pprevene ca chisto è ccorporente, / e cchella accanto a cchisto è n'alecella. / Chisto fa cierte ccose cchiú ffetiente, / pecché ssòle pate' de cacarella, / e cquarche bota vòmmeca pe nniente; / e cquanno lo bbò fa', pe nzi' a la vocca / saglie de sta montagna e tte l'abbocca. // E mperzò a ppadeja' quanno n'arriva / co ppeglia' lo ttabbacco e ffommecare, / vommeca na montagna viva viva / e ffa cose de fuoco e dda crepare. / Ma chella, pecch'è stéteca, se civa / co mmanco rrobba, e ppe la padejare, / quanno chisto va 'ncoppa a ddevaca', / chella s'ajuta co lo ppeppeja'. (Arr. VIII, strr. 7-11) (25)

Con maggiore concretezza il 'pragmatista' Sileno descrisse al re, a contrasto con l'amenità di Gragnano, l'esotico regno della Barca in Barberia, dove si trovavano le vere scimmie:

Llà stanno propio, pocca llà so' nnate / le bbere Scigne, e stanno tutte aonite / 'mmiezo a ccerte ccampagne abbannonate, / che luceno l'arene comm'a bbrite / pe lo sole che ll'ha ccarcarejate; / no' nce songo nocelle pe ffa' antrite, / no' nce so' ffrunne, no' nc'è mmanco sale, / no' nc'è mmanco erva pe sservezïale. (Arr. VI, str. 31) (26)

Stupefacente apparve agli occhi degli asini la tutta finta città delle scimmie, da queste cosí voluta non perché non avessero le mani per costruirla, ma per la loro stessa natura de ire sempe appriesso a l'apparenzia (Arr. IX, str. 25):

Oh, che ccosa de spanto! Traspariente, / pareano de cristallo nzi' a le strate; / le ccase e li palazze, straluciente, / pareano tutte d'oro 'ntonacate. / Ma va' nce trase! Tutto era llà ffinto, / e no' nc'er'auto che no muro tinto. // Fente erano le llogge e li bbarcune, / fente le bbetrejate e le pportelle, / finte li titte co li torrïune, / finte li potecuozze e le ccastelle, / li soppigne, li trave, li portune, / li mierole, le ttènne, le ccancelle. / Tutto quanto era finto e, 'mmeretate, / parea na scigna de na gran cetate. (Arr. IX, strr. 23-24) (27)

 

 

Alle scimmie, invece, il re degli asini riservò in Gragnano un orticello ben piú ameno e genuino:

Poco descuosto nce sta n'orteciello, / che pe mme ssulo mme ll'aggio sarvato; / tanto che no' nce va manco n'auciello, / co ttutto ca de mura n'è 'nzerrato. / E` cchino d'erva, co no sciummetiello, / che lo va addefrescanno p'ogne llato: / llà ddinto sgoleja' ve potarrite / de vevere e mmagna' quanto vorrite. (Arr. XI, str. 31) (28)

 

 

È Gragnano, come è ormai chiaro, il luogo eccellente, il paradiso terrestre, l'Arcadia per questi asini continuamente preoccupati di poter perdere la loro irrinunciabile pace insieme con la sua erba, la sua acqua, il suo fresco.

Ma, in fondo, a veder bene, il paese è tratteggiato attraverso caratteristiche sue e tuttavia attribuibili a tanti altri luoghi ameni, non attraverso riferimenti precisi e inequivocabili. Il fatto è che i luoghi della Ciucceide, riconoscibili in qualche misura o indefinibili che siano, non sono al centro dell'attenzione dell'autore, che è interessato piú a narrare le azioni ed a caratterizzare i personaggi che a descrivere. I luoghi, quindi, devono far da sfondo o da scena per le azioni dei protagonisti; anzi, si potrebbe dire che tutti i luoghi sono la stessa amplissima piazza nella quale esplodono la teatralità, la napoletanità, nonché la bestialità dei protagonisti.

I protagonisti, asini e scimmie, sono bestie che agiscono e parlano come uomini ma che non possono nascondere la loro bestialità. L'alternarsi dell'humanitas con la feritas come elementi riferibili a bestie e non ad uomini crea una situazione equivoca e paradossale che corre per tutta l'opera con un gioco umoristico che rasenta il surreale quanto piú affonda nel popolare e nella napoletanità dei caratteri.

È vero che compaiono anche divinità e uomini nell'opera, ma la confusione non diminuisce per questo. Per quanto attiene agli uomini, ad esempio, compaiono i Sicioni, che vogliono distruggere Gragnano, e si fa riferimento a personaggi delle strade e degli ambienti napoletani; ebbene, i primi sono mutati in asini ed anche quando ridiventano uomini non perdono del tutto la loro acquisita asinità, i secondi sono caratterizzati dal badare solo alle apparenze o dall'imitare chi sta piú in alto, cioè dal fa' la scigna. Ha ragione Enrico Malato: "Asini e Scimmie, protagonisti di questo mondo fiabesco - ma non troppo - creato dal Lombardo, si muovono, agiscono, pensano come uomini, talvolta anzi il lettore si distrae e crede proprio che si tratti di uomini, ma basta acuire appena un po' l'attenzione per veder subito affiorare la loro natura asinina o scimmiesca, la loro logica prettamente bestiale, nei pensieri e nelle azioni: la quale però, e qui è il merito principale del poemetto, non distrugge la primitiva impressione, sí che presto vien fatto di chiedersi se abbiamo davanti asini e scimmie che agiscono e pensano come uomini, o non piuttosto uomini che agiscono e pensano da bestie. E il dubbio dura fino alla fine, talvolta solleticato scopertamente dallo stesso A. [...], quando ci si convince che esso non ha ragione di essere in quanto, siano asini e scimmie gli uomini o viceversa, resta il fatto che non c'è differenza tra gli uni e gli altri, e termine di paragone resta sempre, e soltanto, il ciuccio" (29).

Di tutti i personaggi, è Barbabianca, il re degli asini, il vero e proprio attore principale in questa storia da farsa napoletana, soprattutto nella prima parte di essa.

Ecco come teatralmente si prepara a riferire agli asini sul suo proposito di costruire le mura e il castello a Gragnano:

Apierte ch'ebbe ll'uocchie, co le 'rrecchie / fice primmo na gra' scotolejata, / che, pp'esse accossí llonghe e accossí bbecchie, / nce voze n'anno a ffa' sta recercata. / 'Rapíje po' la gran vocca e le ppetecchie / fice afferra' a la turba annegrecata; / tossaie, rascaie, sputaie, s'adderezzaie / e ppo', accossí arraglianno, spaporaje. (Arr. I, str. 28) (30)

Ed ecco con quali animose e nobili argomentazioni, proprie di un capo, egli incoraggia i suoi sudditi:

Stammo tutte a no ríseco. Li chiante / sarriano tutte quante aonite e ghiunte. / L'annore mio si no' ve move a nniente, / mova agnuno lo suio, de li pariente. (Arr. I, str. 32) (31)

Ma poi, improvvisamente e meno dignitosamente, strilla per un forte malessere:

Cchiú bbolea di', ma accommenzaie a strella': / "Aiemmé lo ventre, e cche ddolore è cchisto? / Ajuto, figlie mieie, corrite ccà! / Uh bbene mio, comme mme senco tristo! / Chesto ched è? Mme sento ggià crepa'. / Uh maro me! Faciteme no pisto, / manteniteme 'n caudo, ca mo moro, / si priesto no' mme passa st'antecoro". (Arr. I, str. 33) (32)

Altri anche occupano un ruolo variamente rilevante, da Sileno allo stesso Giove, da Mercurio all'orco del Vesuvio, dalla regina delle scimmie, Chiarchiolla, fino a quest'asino dottore in medicina, che esprime in un "toscanese" tutto particolare e buffo, prefigurazione delle mal riuscite mode dei tempi del Lombardo, il suo parere sul malessere del re dopo averne esaminato le feci:

Non è mica: / nn'aggio sorbito cchiú dde no voccone, / e mme so' abbisto ch'è stata una spica, / non so se dirmi d'uorgio o pur d'avena, / che se ll'era intralciata int'a na vena. // Questa ll'ha fatto, col suo titillare, / un certo che comme fosse prodito, / e tosto ha accommenzato a stuzzicare / quel doloretto ch'adesa è ffornito. / Lassammolo un pochetto arreposare, / che dimattina s'auzarrà spedito; / e 'n caso poi che 'l mal no' la fornesca, / li darem l'aria, o ll'uoglio, o ll'acqua fresca. (Arr. I, strr. 35-36) (33)

Quanto, poi, a Chiarchiolla, cosí 'regalmente' appare ai semplici asini, rimasti di stucco perché non avvezzi a tali apparati scenografici:

Stea sott'a no bardacchino / lavorato de penne de pavone, / e n'aquela stea sotto a no pontone. // Jea co na veste janca e ttutta stelle, / no varvone apposticcio e na quaquiglia / co na corona fatt'a ppezzetielle, / che, comm'a na cepolla quanno sguiglia, / d'oro brattino avea li raggetielle. / Teneva 'mmano po' na carrettiglia / co no truono 'mpizzato e dda duie mazze / de tricchetracche e dde frúole pazze. (Arr. X, strr. 32-33) (34)

Altrove è protagonista il gruppo e risalta ancor piú l'aspetto farsesco dell'opera, oltre che il divertimento dell'autore.

Si assista al fuggi fuggi degli asini impauriti nel sentire un fortissimo rumore simile ad uno sparo, interpretato come il segno di un improvviso assalto:

'Nzenti' strilla': "Sparato è lo cannone!", / va' te la ppesca addo' se so' 'mpizzate: / se mesero a ffui' p'ogni pontone. / A lo ffui' scontraieno li sordate; / chiste crescíjeno la confosïone, / pocca credeano d'esse secotate; / chille credeano ca le ssecotavano. / Ma che bbuo' secota'? Tutte scappavano! // 'Nzallanute, da ccà, dda llà fujevano / pe le bbie, pe li campe e ppo' tornavano, / trasevano a le ttane e ppo' nn'ascevano, / strellavano, chiagnevano, arragliavano, / venevano, correvano, 'mmestavano / tutte chill'aute Ciucce che scontravano, / sempe decenno: "Fuite, 'nzerrateve, / sbrigateve, sarvateve, 'ntanateve!" (Arr. V, strr. 26-27) (35)

Nonché alla loro appassionata partecipazione al concorso bandito dal re per inviare l'ambasceria alla regina delle scimmie:

Chi jeva sulo e cchi se jea 'nzajanno / co no compagno che pportava a llato; / cierte se nne veneano jastemmanno / chiano chianillo, e le decea lo core / ca sto concurzo no' le facea 'nore. // Chille che non poteano cammenare / mannavano li figlie o li nepute: / "Jate, figlie, sacciateve portare; / mo è ttiempo de mostare la vertute. / Site figlie a no patre ch'appassare / maie non s'ha ffatto da li cchiú ssapute. / Manteniteme 'n facce lo decoro, / faciteme allegra' 'nnanze che mmoro!" // "Oh che ttenesse mo dece anne manco, / o si no, mm'ajutasse sto guarrone! / Ve vorria fa' a bbede' comme lo sanco / mme sento frecceca' a st'accasïone. / Che nce vuo' fa'! Dengraziane sto granco / che mme tene 'nchiovato a sto pontone!" / E ddecenno accossí, se l'abbracciava / e cco lo musso te le bbavejava. // Na Ciuccia co lo figlio stea a ddescorrere: / "Figlio, tu non sí nnato pe la vàteca, / ca ggià liegge scorrenno e ssaie trascorrere, / e stodejata haje tutta la grammateca. / Curre, puca mia d'oro, e bba' a cconcorrere, / miettete tutte quante sotta nateca. / N'ave' appaura manco de l'ancroja, / ca te vene a ssentire mamma toja". (Arr. VII, strr. 10-13) (36)

Si assista ancóra alla gra' llecenzejata, al gran commiato degli asini al momento della partenza:

"Schiavo". "Schiavo". "Bonní". "Arrevederece". / "Commanname". "Obbrecato". "Trasetenne". / "No' lo farraggio maie!". "Non trattenerece". / "Non nte scorda' la strata". "Vavattenne". / "Fegliule, state attiento". "No' 'mpederece". / "Covèrnate", "Screvimmonce". "E bbattenne". (Arr. VIII, str. 4) (37)

Ed alla scena da farsa del momento di gettarsi nel vulcano, dopo aver ascoltato il racconto sull'orco:

Veddero ca da certe ssengolelle / ascea no po' de fummo: "Mamma mia! / - strellaieno tutte -. Già ll'Uorco peppeja! / Si fa na vommecata nce stroppeja". // "Che bbommeca'? Venite appriesso a mme", / disse lo Ciuccio e, zúffete, se jetta / dint'a la vocca, e stea de llà a bbede' / quanno ll'aute zompavano. Ma aspetta / ca mo veneno! Chisto: "Tocca a tte". / Decea chill'auto: "No' mmoglio, a chi aspetta / leva' lo luoco?" "Eh Uscia mme perdona, / nol farrò mmaie; sta cosa non va bbona". (Arr. VIII, strr. 13-14) (38)

E certo si potrebbero riportare molti esempi di questa coralità asinina e popolare, ed affiancare agli asini della 'strada', perché no, le cerimonie reali, anche gli ambienti esclusivi degli Dei, nei quali si svolge, ad esempio, una esilarante partita a carte, naturalmente al gioco dell'asino.

Ma proseguiamo nel nostro discorso.

La Ciucceide trova la sua humus nel gusto del comico che il Settecento riscopre. Fioriscono, tra l'altro, in questo secolo i poemi eroicomici e burleschi, a voler continuare quel clima di opposizione, che già il Seicento ha conosciuto, al precedente abuso del poema epico-cavalleresco.

Il genere esige le stesse regole, ma in chiave parodistica, del poema eroico e ciò avviene anche in questo poema, dove non mancano i riferimenti mitologici puramente letterari e quant'altro esigono appunto le regole e che sarebbe risuonato ripetitivo, statico, brutto se non fosse rinnovato dalla parodia, appunto, e dall'uso del dialetto.

Ma nell'opera non mancano certo gli aspetti originali. Intanto in questo poemma arrojeco non ci sono eroi ed eroismi: la guerra e le battaglie son paventate continuamente senza che avvengano mai e, in fondo, questi asini per natura pacifisti non c'è nulla che sappiano fare da soli e devono ricorrere sempre all'aiuto di altri, dèi o scimmie che siano. Inoltre, lo stile è davvero straordinario, nel senso che gli elementi tradizionali del genere, sia pure in chiave parodistica, e l'eleganza e la grazia settecentesche si accoppiano agli elementi autoctoni, soprattutto ad un fortissimo senso del popolare e del reale.

Ne risulta un'opera, per questo, senza dubbio singolare, di gran pregio.

Si vedano, ad esempio, le immagini di cui l'autore si serve per indicare i vari momenti della giornata.

Cosí l'aurora è descritta nell'Arragliata Sesta, dove essa ci appare come la serva del sole intenta alle prime faccende mattutine, tra i primi rumori della giornata:

Già s'era la vajassa de lo Sole / sosuta pe ghi' a spanne la colata, / e 'n facce, pe ppaura de le mmole, / s'avea na pezza rossa arravogliata; / na barbuglia de papare e dde cole / 'n conzierto le facea na matenata; / e già Frettella se sentea strilla': / "Doie, tre ccavalli, caldi caldi, ccà!". (Arr. VI, str. 1) (39)

Ed eccola poi rappresentata, pur tra reminiscenze letterarie, tutta arrossuta 'ncoppa a no barcone:

L'Aurora, 'ntanto, che s'era addonata / ca li cavalle co lo carrettone / d'Apollo già s'avevano pigliata / la mano p'asci' fore a lo portone, / non sapenno che ffa', s'era affacciata / tutta arrossuta 'ncoppa a no barcone, / e stea da llà 'nfettanno miezo munno: / aparate, aparate sto zeffunno! (Arr. XIII, str. 27) (40)

Singolare anche l'immagine della luna meza cacciata da fora e mmeza no:

Già la Luna a ffa' spuonole era 'sciuta, / e pecché co lo frate stea 'nzorfata, / pe non se fa' abbede' stea annasconnuta / dereto a no pontone de la strata; / e cco n'uocchio da llà s'era mettuta / a ffa' la spia, e stea meza cacciata / da fora e mmeza no, pe se magnare / lo tiempo justo de se la scocciare. (Arr. XI, str. 16) (41)

E l'immagine della notte, che fa un dispetto al sole:

La Notte, che 'mpararse de pettura / maie a la scola non avea potuto, / vedenno ca nce avea na gran fortura / lo Sole, e cch'a ppetta' nc'era resciuto, / pe ffarle no despietto era a la scura / juta 'n facce a no quatro, addo' scomputo / nce aveva chillo de pitta' lo munno, / e scacanno lo jea da capo a ffunno. (Arr. XIV, str. 1) (42)

Molto interessanti anche le similitudini.

Cosí è rappresentata la manifestazione di gioia del re, dopo che da Sileno fu spiegato l'irrisolvibile oracolo: Barbabianca é fuori di sé dalla gioia e fa un salto, proprio come un ragazzo tolto da un difficilissimo imbarazzo. Il paragone è graziosissimo:

Comm'a no guaglionciello, ch'a la scola / s'è 'mbrogliato pe ffare no latino, / ca no' nne 'ntenne manco na parola; / te lo vide vota' lo Calapino, / se raspa, se storzella e cco na mola / se roseca mez'ogna; si vecino / a isso uno nce sta che nce lo 'mmezza, / lo vasa e ffa no zumpo p'allerezza. (Arr. VI, str. 19) (43)

Mentre gallinelle che riescono a lanciarsi da un'asticella sembrano gli asini quando finalmente, incoraggiati dal lancio di uno di loro, si gettano nel vulcano:

Fecero comme fanno co lo gallo / le ggallenelle 'ncopp'a n'asteciello; / vola isso abbascio, c'ha fatto lo callo / cchiú de na vota a ffa' sso volariello. / Vanno lloro pe mmetterse a ss'abballo, / ma le 'ncigna a ttremma' lo stommaciello; / tornano a scelleja', ma, 'nche se lassa / la primma, la paura a ttutte passa. (Arr. VIII, str. 16) (44)

Non si perda, infine, il gusto dei giochi di parole: Cicciune (Ciccioni) son chiamati da un asino i Sicioni, i Siciune (Arr. XII, str. 4); Ll'Asene de Gragnano sanno Lettere (Arr. IV, str. 6), afferma l'autore, a proposito degli asini gragnanesi che si recano spessissimo al tempio di Sileno a Lettere, equivocando sul doppio significato Lettere/lettere; cchillo poveriello rommaníje... comm'a n'anemale (Arr. VII, str. 20), dice un asino a proposito di un altro asino, ma dottore, da lui convinto sulla validità di sue tesi; Agne Cciuccio restaie comm'a ssommiero (Arr. X, str. 22) è detto degli asini che rimasero come 'somari' quando si trovarono di fronte, stupiti, all'apparato nella reggia delle scimmie.

Mentre, altrove, gli asini escono allo scoperto, in fondo evidenziando l'equivoco di tutto il poema circa questi protagonisti bestie-uomini: Scusateme, ca songo n'anemale / e dde ste ccose maie nn'aggio saputo (Arr. XII, str. 6).

Talvolta anche lo stesso autore sembra uscire allo scoperto e si lascia sfuggire qualche giudizio, come quando commenta la leggenda della stalla di Sileno portata a Lettere da un uccello:

Chesto sulo vastava azzò che cchille, / ch'erano, comm'a ll'aute, anemalune, / 'mpriezzo se la tenessero: e bba' dille / ch'erano belle chiacchiare e ccanzune, / ca 'n facce te scioncavano; li strille / jevano abbista pe li torrejune, / e 'ncignavano a ffare na revota. / Quanto fa la 'gnoranzia quarche bbota! (Arr. IV, str. 4) (45)

Ma il piú delle volte egli rivela una sua ideologia o lancia un suo messaggio morale attraverso i suoi personaggi.

Nelle parole di questi due vecchi asini (uno era ciunco e n'auto stroppejato (46)) lodatori dei tempi passati già possono intravedersi, sia pure ironicamente, anche delle interpretazioni della società contemporanea, anche delle ideologie politiche. Cominciamo dal primo:

Vecchiaja cana! Ahú, ttiempo passato! / Ví si la perdarria st'accasïone! / - decea lo primmo -. Va' ca mo ha trovato / lo Re chi nne pò 'sci', co cquarch'annore. / La vertú s'è sperduta e cco nnuie more! // No' nc'è cchiú chi sa fare na parlata, / non bid'auto a lo munno che 'mposture; / birbi, ca le farria na cauciata / quanno te vonno fare li dotture. / Non so' bbuone ch'a ffare na cacata / per ttutte ssi pontune e a ffa' remmure. / Addo' so' ghiute chilli Ciucce antiche / che pparlavano meglio de le ppiche! (Arr. VII, strr. 14-15) (47)

Il secondo asino non è da meno:

Tanno se potea dire - responnette / ll'auto - ch'era lo tiempo de li Ciucce! / Va' te le ttrova mo! Quanto le ghiette / tutte sti milordielle scuccemucce? / Non bid'auto che ccacapozoniette / che se so' ppuoste 'n casecavallucce; / non fann'auto che bbevere e mmagnare / e nno' nse parla cchiú de stodejare. (Arr. VII, str. 18) (48)

I riferimenti che si ricavano nei brani seguenti, a proposito delle scimmie, sono ancor piú evidenti.

Quando Barbabianca vuol sapere dove trovare le scimmie che dovranno aiutarlo nella costruzione, Sileno gli dà una lunga risposta con questa premessa:

Si vaie trovanno Scigne, addo' te vuote / nn'asce a mmegliara pe ttutto lo munno, / ch'auto bene no' nc'è, si lo revuote / da la capo a lo pede, nzi' a lo funno. (Arr. VI, str. 23) (49)

Un'infinità di scimmie stanno ad esempio a Napoli, secondo Sileno:

Vaie, p'assempio, pe Nnapole e a le bbote / nne scuntre tanta che sso' no zeffunno; / vanno a ppede, 'n galessa, nzi' 'n carrozza, / che te fanno abbotta' tanta na vozza. (Arr. VI, str. 23) (50)

Poi Sileno si addentra in esempi particolari di 'scimmie' napoletane. Ci sono quelli che scimmiottano in vario modo le persone di rango piú elevato:

La scigna vonno fa' a lo Caaliero / chille che songo de cchiú bbascia mano; / tutte co lo volante e lo staffiero / vanno facenno 'ncrine e bbasamano: / "Aggio pegliato un bravo repostiero, / che mm'è bbenuto apposta da Milano; / fa sorbette d'incanto e sceroccate, / peti-zucchere e ccicere 'nnasprate". // Una che stenta tutta na semmana / a ffa' dî rana a bbotta de spotazza, / la festa po' te pare na vammana. / "Senza carrozza chi pò i' pe cchiazza? / Sciú sciú, è bbriogna co na scarpa chiana / sott'a lo sacristano! Che si pazza? / Sore mia, comme vaie tu sí stemata; / che 'mporta, po', ca lave la colata!" // Ciert'aute zerbinotte corejuse / te vonno fa' la scigna a li Milorde; / fèteno de catramma a bbanno 'nfuse / d'acqua de maro e mmazzecanno corde; / tutto lo juorno fanno cuse e scuse / co le sciammerghe, e le danno le ccorde; / te scanosceno puro li denare, / po' lo pesone non ponno pagare. (Arr. VI, strr. 24-26) (51)

Non manca chi scimmiotta perfino Dante o Boccaccio:

Nc'è chi fa lo poeta e bbò i' a pparo / co Ccasa, e ffa' la scigna pe nzi' a Ddante; / non fa no vierzo che non parla sparo, / non bò parola che non sia sonante; / no' nce truove no sienso che ssia chiaro, / uneco ammico de le cconzonante. / Quanno le ccanta, po', non saie se è uorco, / gatto maimone o spireto de puorco. // N'ato vò fa' la scigna a lo Boccaccio, / ma non sape dir'auto ch'"Io vorrebbe / unquanco dar de' calci a quel furbaccio / di rovaio, e ad ogni otta io lo farebbe; / jer l'altro otta catotta un buon migliaccio / mi mangiò, e a le guagnel, che non m'increbbe; / io lo mangiò ad un desco, ov'era a scranna / il gran Don Cherche e la Contessa Orlanna". (Arr. VI, strr. 27-28) (52)

Altri si atteggiano a studenti, al punto che hanno perso la vista per lo studio intenso:

Nce so' ccierte che bbonno fa' a bbedere / ch'hanno perza la vista a stodejare. / Si le bbide, te fanno stravedere, / so' ppeccerille e pportano l'acchiare; / toccale po', ca le siente cadere / da vocca cierte ccose da crepare. / A lo rreto, ched è? Pe ffa' ssa vista / restano ciucce e pperdeno la vista. (Arr. VI, str. 29) (53)

Come le scimmie napoletane, tuttavia, ve ne sono numerosissime in tutto il mondo:

Comme so' ddinto Napole, accossíne / so' ppe tutto lo munno, de sse Scigne, / ca 'nn ogne pparte nn'asce nzina fine. (Arr. VI, str. 30) (54)

Scimmie, queste, che chiaramente non sono piú tanto le bestie dei tempi lontani della storia narrata, quanto gli uomini contemporanei dell'autore, ai quali egli si riferisce con un intento satirico di tutta evidenza. Ma vale la pena ricordare che anche di ciò questi aveva avvertito il lettore:

si vide dint'a st'opera / nnommenare le ccose che no' nc'erano / a lo tiempo che ll'Asene parlavano, / ma paricchie anne appriesso se vedettero / o nce so' mmo a lo munno, no' nte mettere / a ddi' ca è stato arrore e a ttenagliareme; / ca ll'aggio fatto apposta pe correjere / li vizie de sti juorne comme fossero / de chillo tiempo; ca, si no, da ll'Asene / no' le ppotea fa' di', ca mo non parlano / e non fann'auto ch'arraglia' e ffa' pedeta. (A cchi..., vv. 142-152) (55)

Forse con quest'ottica va letto il messaggio che Sileno lascia in sogno al preoccupato re Barbabianca, alter Aeneas destinato a porre le basi di un eterno regno degli asini:

Ora sacce ca 'n cielo è ddecretato / che sta razzimma toja aggia a rregnare / sempe a lo munno. Accossí bbò lo Fato. (Arr. XII, str. 12) (56)

Solo apparentemente è piú equivoco il ruolo che occupano nell'opera i Greci di Sicione, vale a dire degli uomini che vogliono combattere con delle bestie, sono mutati essi stessi in bestie, sono ritrasformati in uomini senza perdere del tutto la loro bestialità.

Lo lascia intravedere ancóra una volta Sileno che va in sogno a Barbabianca, anticipandogli la trasformazione dei Sicioni di nuovo in uomini:

Pe cchesto no' nte mettere appaura / che t'aggiano da fa' tanto de male; / ca si mbè tornarranno a la fegura / de primmo, li costumme bestejale / non ponno maie lassare; e gran fortura / credarranno la lloro, si pe ttale / saranno canosciute; e v'amarranno, / comme v'ammano mo che co buje stanno. (Arr. XIV, str. 31) (57)

 

 

Ed infatti i Sicioni ritrasformati, ma con le tracce della loro asinità, si spandono per il tutto il mondo, fino a riempirlo attraverso tutti i loro discendenti:

Po', a la nnuda comme se trovavano, / ascíjeno da lo vosco e sse nne jettero / chi a na banna e cchi a n'auta; e addo' arrevavano / cchiú de no compremiento recevettero: / addo' aveano vestite, addo' abbuscavano / denare e rrobbe; e ttanta nne facettero, / che nfra poch'anne (accossí bba lo munno) / se trovattero ricche, e rricche 'n funno. // Arrevate a sso stato, 'nnitto 'n fatto, / se vedettero auza' na nnommenata / ch'agnuno er'ommo de da' schiacco matto / a cchi puro la legge avea stampata. / De poleteca, po', no' nc'era fatto / che no' lo decedeano a na pedata. / Quanto fa sta zellosa de Fortura, / pe ffa' mette no ciuccio 'mposetura! // Ma, fa' che bbuo', chillo mmarditto addore, / chillo sciauro ciuccigno, che ttant'anne / 'ncuollo aveano portato e nzi' a lo core / ll'era trasuto, da sott'a li panne / sempe ll'ascea, comm'a no tradetore; / e dda chi comm'a lloro ricchieppanne / non erano a lo munno, erano a bbista / canosciute pe ciucce, e ppuoste a llista. // Chiste fecero figlie, e ppo' li figlie / fecero ll'aute, e ll'aute ll'aute appriesso; / e pecché da la chianta int'a li sguiglie / passa lo stiss'ammore, n'è ssocciesso / che pe tutto lo munno, si te piglie / gusto de revotarlo, muore ciesso / primmo de trova' n'ommo: e cquase tutte / de chella chianta llà, puoje di', so' ffrutte. (Arr. XIV, strr. 42-45) (58)

L'evento è cosí al culmine. Dopo un excursus su tutto ciò che nella storia può ricordare quella passata asinità (ad esempio, le feste 'asinarie' in Grecia, i nomi 'Asinio' in Roma), la conclusione della Ciucceide estende, mordace, su tutto il mondo la salvata reggia degli asini di Gragnano:

E ppe cchesto, no' ntanto pe le mmura / che le Scigne facettero a Gragnano, / manco pe lo castiello, che non dura, / ma pe sta razza, che da mano a mmano / s'è spasa da pe tutto e la Fortura / ll'ha aizata nzi' a le stelle chiano chiano, / sarrà sempe a lo munno, comm'è stata, / la Reggia de li Ciucce conzarvata. (Arr. XIV, str. 58) (59)

Chiusura che fa pensoso il lettore, che, partito dal gioco e dal riso, si ritrova a giudicare mondo ed uomini e non sa piú, non solo quanto gli asini siano gli uomini e viceversa, ma anche come si esca da Gragnano e si entri nel mondo, quanto realtà e finzione, sossestenzia ed apparenzia, si possano distinguere in questo totale, eterno gioco delle parti.

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

1) N. Lombardo, La Ciucceide, o puro La reggia de li Ciucce conzarvata. A cura di Ada e Gioacchino Scognamiglio, Roma 1974, p. XV.

2) F. Galiani, Del dialetto napoletano. In appendice: F. Oliva, Grammatica della lingua napolitana, a cura di E. Malato, Roma, Bulzoni, 1970, p. 193.

3) F. Galiani, Del dialetto napoletano, a cura di F. Nicolini, Napoli 1923, p. 303.

4) Presso la casa di questo stesso medico si adunava un'altra Accademia, l'Accademia Alterisiana, fondata con intenti piú nobili dal figlio Ciro, sacerdote, e frequentata anche dal Lombardo. Di qui l'equivoco di qualche studioso, che a quest'ultima accademia riporta la Ciucceide, come suppongono A. e G. Scognamiglio, in N. Lombardo, Op. cit., pp. XIV-XV.

5) "Ora un giorno, mentre si trovavano tutti insieme in questa casa e discorrevano, spara uno del gruppo: "Per spassarci veramente, quassú, non potremmo fare fra di noi una specie di Accademia, non sul serio, ma per burlare e ridere? Che cosí potremmo divertirci e farci passare queste malinconie che ci scannano". "Facciamola", dissero d'accordo tutti quanti. "Facciamola, facciamola - [disse] il buon vecchio - che mi va a genio". E dopo cento cose e cento chiacchiere del come e del quando, risolsero di farla ogni otto giorni; e le misero il nome di Accademia degli Asini, con una legge che tutti componessero madrigali e canzoni sugli Asini". La traduzione di questo e di tutti i passi successivi è quella di Ada e Gioacchino Scognamiglio, che appare nella edizione dagli stessi curata de La Ciucceide (N. Lombardo, Op. cit.).

6) "E che fanno qua questi tutti insieme? Stanno a lodare voi altri animaloni. Si sono scoperti tutti amici degli Asini, e perciò a piú non posso si sono impegnati a lodare questa razza, e fanno cose per le quali ci vuole la mazza".

7) La pubblicazione della Ciucceide avverrà effettivamente nel 1726 presso la stamperia napoletana del Muzio. Il nome anagrammato dell'autore appare come firma nella dedica al Principe Francesco Maria Carafa, datata 20 ottobre 1725. Una seconda edizione, col nome di Nicolò Lombardi, ci sarà nel 1783 presso l'editore Porcelli di Napoli come tomo V della nota "Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana". La terza edizione sarà quella presso Bulzoni di Roma, del 1974, già citata, che è quella da noi seguíta.

8) "Se non ti va a genio qualche cosa che trovi in questo lavoro, massimamente al principio, ti supplico con dieci ventricoli di compatirmi: primo perché fu fatta nel termine di tre mesi, e [lo] si sa per tutta Napoli; aggiungi: la materia è troppo stitica, basti dire che si parla sempre di Asini; terzo: non mi è parso [opportuno] di ficcarci qualche innamoramento, che è quell'àncora dove si fanno forti tutti gli uomini che vogliono tirare in lungo qualche favola; e in ultimo: fu fatta per divertirci fra noi e noi, ché non ci andava proprio per la mente e mai immaginavamo che sarebbe dovuta comparire per Napoli".

9) F. Galiani, Op. cit., Roma 1970, p. 36. Semmai delle riserve per il Lombardo, imitatore del Fasano, furono fatte dal Galiani a proposito dell'ortografia: "Tutto il contrario [rispetto all'italiano] è avvenuto nel nostro dialetto. I primi scrittori di esso, il Basile ed il Cortese, lo cominciarono a scrivere con una ortografia barbara e mostruosa [...]. Il male cominciato da costoro, invece di diminuirsi, andò crescendo ne' susseguenti scrittori fino al Fasano, il quale lo portò all'eccesso. [...] Ne risultò un cosí spaventevole accozzamento di consonanti raddoppiate, di apostrofe, di accenti circonflessi e di lettere sovrabbondanti, che quasi non restò parola che paresse italiana. [...] Negli autori che sono comparsi dopo, taluno, come il Lombardo, ha seguita l'ortografia del Fasano" (Ibid., p. 41-42). Un esempio di quanto detto: "A quasi tutte le parole il Fasano, imitato dal Lombardo, raddoppia la prima consonante. Il Lombardo per esempio scrive: "Ccà bbedive na ciuccia, ecc.", "Llà ttrovave no ciuccio, cche cchiammanno, ecc.". Che capriccio strano sia stato questo, non si comprende" (Ibid., p. 43). C'è da notare come diverso apparve il problema, a questo proposito, ad altri osservatori. Francesco Oliva, ad es., nella sua Grammatica della lingua napolitana annotò: "Nel secolo decimo settimo, verso gli anni venti, appostatamente in prosa ed in verso scrissero in questa lingua due valent'uomini, Giulio Cesare Cortese e Gio. Battista Basile, contemporanei ed amici: sicché essi possiamo riconoscere per padri e promotori di questa lingua, non perché ne siano stati l'inventori, o che pienamente l'avessero usata, o che regole date ne avessero, ma perché furono i primi che con tanta grazia ne scrissero. D'indi in poi si diedero molti a seguirli [...]. E per non far menzione di tutti, l'anno scorso 1727 si vide un poema satiricomico non ignobile, intitolato La Ciucceide, dove sta meglio intesa l'ortografia di questa lingua" (Ibid., p. 223).

10) Ibid., p. 151.

11) Brescia 1988.

12) "Canto quel gran Re che dentro Gragnano la Reggia degli Asini conservò, e come fu che, senz'avere le mani, vi piantò le mura e un castello; delimitò poi i confini, e piano piano tutto quanto il mondo vi rinchiuse, tanto che dove il Sole camminava altro bene che Asini non trovava".

13) "Asino con le ali [...] portami un boccone dal vaso che va Febo a trovare quando si corica: [...] fammici una ragliata con due scorregge".

14) Arr. IV, str. 27.

15) Arr. VI, str. 18.

16) "Tutti gli Asini con le Scimmie in groppa, e con zappe, con cofani e cazzuole sono portati per l'aria a rompicollo in una nuvoletta, che compare. Vanno a Gragnano, e si posano a terra, innanzi al Re, che ne ebbe a morire di paura. Cominciarono a fabbricare [le mura], e fanno su una porta un lavoro da stupire".

17) "Sotto una gran montagna della costa, dalla parte di Napoli, [c']è un monte che si discosta poco da Sorrento, e la Torre con Bosco gli sta di fronte: bello, che pare proprio fatto apposta per Marchesi, per Principi e per Conti, detto dalla gramigna Gramignano, poi si corruppe, e si chiamò Gragnano".

18) "Scoprirono che su quella montagnella non mancava mai l'erba tenerella".

19) "Dentro la bambagia".

20) "E risolse di volerci fare una specie di piazza d'armi in questo paese; e farci un castello per starci al sicuro da tutte le offese, con un muro che dovesse circondare tutto il Regno; e farci le difese acciò, se mai gli fosse fatta guerra, si potesse difendere la terra".

21) "Figli miei, se avete occhi già vedete l'abbondanza di questi luoghi che abitate: erba non c'è al mondo che vogliate, che non la troviate qui senza cercar[la]: la frescura di queste fronde saporite non ci fa mai conoscere l'estate: se volete acqua, ne esce da queste pietre tanta che basta ad annegarci la sete. / Non vi parlo ora qui della grandezza di questi orti, di queste selve e di queste piazze: queste case nostre sono una bellezza, altro che andare a fabbricare palazzi! Questi la razza nostra non li apprezza, ma li ha lasciati in mano a certi pazzi, che ritengono di gareggiare con Giove, e son degni di stare in un pozzo. / Che voglio dire con questo? Ho paura che qualcuno non abbia a innamorarsi di queste bellezze che appaiono come una fortuna".

22) "Lettere è un paese graziosetto, che poco si discosta da Gragnano; tanto che se ci va un ragazzetto mangiando la merenda piano piano, non ha ancora ingoiato l'ultimo bocconcino, che gli è addosso e lo tocca con la mano: solo c'è un po' di montagnella, che a salire ti fa fare una sudatina".

23) "Sopra la cima, dentro un dirupo, c'è come una stalla di campagna che è chiusa da un bosco molto oscuro, che non lo trovi, se non hai chi t'accompagna. Qua non ci senti mai urli di lupo, ma solo qualche uccello [ci] si appisola: qualche uccello di quei disperati che [ci] vanno per fuggire le schioppettate".

24) "Era questa una grotta scura scura, una cosa lunga lunga e nera nera, che uno non ci starebbe per la paura, anche se fosse fuggito dalla galera; umido, che piovevano le mura; freddo, che ti ghiacciava una vetrata: pareva la casa degli scarafaggi, la vera grotta dei pipistrelli. / Qua trovavi qualcosa di paglia; là impuntavi in un groviglio di fieno; andavi piú innanzi e prendevi una quaglia, ma molle molle e liquida come olio; tornavi indietro e contro un muro ne trovavi ammucchiato un altro imbroglio. Insomma, gira di qua, gira di là, o paglia o sterchi avevi da trovare".

25) "Sappiate dunque, che dentro questa montagna, dove noi entreremo, c'è un Orco. [...] Mangia pietre, porcherie. Com'è sporco! Mangia oro, mangia piombo, mangia argento. E lo può digerire? Ne fa unguento. / Si chiama il Vesuvio e ha una sorella, che è pure Orca e si chiama Solfatara, che sta poco distante, e uscirono tutt'e due da un ventre; è cosa rara come sono tutt'e due di uno stesso umore. Se quella sta allegra, si rischiara la faccia di quest'altro; ma se questo si adira, quella comincia a far un tumulto. / Se questo ora pipa, anche quella fuma, se quella ha fame, anche questo ha bramosia. [...] / Una cosa sola ha questo che non ha quella: e ne consegue che questo è corpulento, e quella al confronto di questo è una piccola alice. Questo fa certe cose piú cattive, perché suole soffrire di cacarella, e qualche volta vomita per nulla; e quando lo vuole fare, fino alla bocca di questa montagna sale e te lo versa. / E perciò quando non riesce a digerire prendendo tabacco e fumando, vomita una montagna viva viva e fa cose di fuoco e da crepare. Ma quella, perché è stitica, si ciba con meno roba, e per digerirla, quando questo va su a svuotarsi, quella si aiuta col pipare".

26) "Là stanno proprio, perché là sono nate le vere Scimmie, e stanno tutte unite in mezzo a certe campagne abbandonate dove luccica la sabbia come vetro per il sole che la ha calcificata: non ci sono nocciole per farle tostate, non vi sono foglie, non c'è nemmeno sale, non c'è erba per il serviziale".

27) "Oh, che meraviglia! Persino le strade, trasparenti, parevano di cristallo; le case e i palazzi ultralucenti, parevano tutti intonacati di oro. Ma prova a entrarci! Tutto là era finto, e non c'era altro che un muro tinto. / Finte erano le terrazze e i balconi, finte le vetrate e le porticine, finti i tetti con i torrioni, finte le bottegucce e i castelli, le soffitte, i travi, i portoni, i merli, le tende, i cancelli. Tutto quanto era finto e, in verità, pareva una scimmiottatura di una città".

28) "Poco discosto ci sta un orticello, che ho riservato per me solo; tanto che non ci va nemmeno un uccello, nonostante che non sia rinserrato da mura. E` pieno di erba, con un fiumicello che lo va rinfrescando da ogni lato. Là dentro potrete togliervi la voglia di bere e mangiare quanto vorrete".

29) E. Malato, La poesia dialettale napoletana. Testi e note, Napoli 1960, vol. I, p. 607.

30) "Aperti che ebbe gli occhi, fece prima una grande scrollata di orecchie, che, per essere cosí lunghe e cosí vecchie, ci volle un anno a fare questa finezza. Aprí poi la gran bocca e atterrí la turba infelice; tossí, scaracchiò, sputò, si drizzò eppoi cosí ragliando, parlò".

31) "Siamo tutti a un rischio. I pianti sarebbero tutti quanti uniti e congiunti. Se l'onore mio non vi muove affatto, muova ognuno il suo, [o quello] dei parenti".

32) "Piú voleva dire, ma cominciò a strillare: "Ahimé il ventre, e che dolore è questo? Aiuto, figli miei, correte qua! Uh bene mio, come mi sento male! Che cos'è questo? Mi sento già crepare. Uh nisero me! Fatemi un intruglio, mantenetemi caldo, che ora muoio, se non mi passa presto quest'accidente"".

33) "Non è mica: ne ho sorbito piú di un boccone, e mi sono accorto che è stata una spiga non so se dirmi d'orzo oppure di avena, che gli si era intralciata in una vena. / Questa gli ha fatto, col suo titillare, un certo che come fosse prurito, e tosto ha incominciato a stuzzicare quel doloretto che adesso è finito. Lasciamolo un pochino riposare, che domattina si alzerà spedito; e in caso poi che il male non la finisca, gli daremo l'aria o l'olio o l'acqua fresca".

34) "Stava sotto il baldacchino lavorato di penne di pavone, e un'aquila stava sotto a un cantone. / Andava con una veste bianca, e tutta stelle, un barbone posticcio e una conchiglia, con una corona fatta a pizzettini, che, come una cipolla, quando germoglia, aveva i piccoli raggi laminati di oro. In mano aveva poi una carrettiglia con un razzo infilato, e due mazzi di tracchi e razzi pazzi". Carrettiglia era un fuoco d'artificio.

35) "Nel sentir gridare: "Ha sparato il cannone!", vattelapesca dove si sono cacciati: si misero a fuggire per ogni cantone. Nel fuggire si scontrarono coi soldati: questi crebbero la confusione, poiché [questi] credevano di essere inseguiti; quelli credevano che [questi] li inseguivano; ma che vuoi inseguire? Tutti scappavano. / Rimbambiti fuggivano di qua e di là per le vie, per i campi e poi tornavano, entravano nelle tane e poi ne uscivano, strillavano, piangevano, ragliavano, venivano, correvano, investivano tutti quegli altri Asini che scontravano, sempre dicendo: "Fuggite, chiudetevi, sbrigatevi, salvatevi, rintanatevi"".

36) "Chi andava da solo e chi andava eccitandosi con un compagno che portava allato; certi se ne venivano bestemmiando pian pianino, e gli diceva il cuore che questo concorso non gli faceva onore. / Quelli che non potevano camminare mandavano i figli o i nipoti: "Andate, figli, sappiatevi comportare; ora è tempo di mostrare la virtú. Siete figli a un padre che non si è fatto mai superare dai piú dotti. Conservatemi in volto il decoro, fatemi rallegrare prima che muoia. / Oh se avessi ora dieci anni di meno, oppure mi aiutasse questa coscia! Vorrei farvi vedere come il sangue mi ribolle in questa occasione. Cosa vuoi farci, ringrazia questo crampo, che mi tiene inchiodato a questo angolo!" E cosí dicendo, se li abbracciava, e col muso te li sbavava. / Un'Asina stava discorrendo con il figlio: "Figlio, tu non sei nato per la salmeria, ché già leggi scorrevolmente e sai discorrere, e hai studiata tutta la grammatica, corri, angioletto mio bello, e va a concorrere, mettiti tutti quanti sotto le natiche non avere paura neppure degli spettri, che ti viene a sentire mamma tua"".

37) ""Schiavo". "Schiavo". "Buondí". "Arrivederci". "Comandami". "Obbligato". "Ritirati". "Non lo farò mai". "Non trattenerci". "Non ti scordare la strada". "Vattene". "Figliuoli, state attenti". "Non impedirci". "Governati". "Scriviamoci". "E vattene"".

38) "Videro che da certe piccole fessure usciva un po' di fumo: "Mamma mia! - strillarono tutti -. Già l'Orco pipa! Se fa una vomitata ci storpia". / "Che vomitare? Venite appresso a me", disse l'Asino, e zuffete, si getta nella bocca [del vulcano], e stava di là a guardare quando gli altri saltavano. Ma aspetta che ora vengono! Questo [diceva]: "Tocca a te". Diceva quell'altro: "Non voglio, a chi tocca lasciare il posto?" "Eh Vossignoria mi perdoni, non lo farò mai; questa cosa non va bene"".

39) "Già s'era levata la serva del Sole per andare a stendere il bucato, e intorno alle guance, per paura [del freddo ai] molari, s'era avvolta una pezza rossa, un frastuono di papere e di gazze, in concerto gli faceva una mattinata; e già si sentiva strillare Frettella: "Due tre cavalli caldi caldi qui"". Frettella era il nomignolo di un venditore ambulante di roba da mangiare calda, che egli dava a due pezzi per tre cavalli; i cavalli erano monete di rame.

40) "L'Aurora, intanto, che s'era accorta che i cavalli col carro d'Apollo già s'erano presa la mano per uscir fuori del portone, non sapendo cosa fare, s'era affacciata tutta arrossata sopra un balcone, e stava di là inondando mezzo mondo: parate, parate quest'abisso [di luce]".

41) "Già la luna era uscita a cercare spondili e poiché era adirata col fratello per non farsi vedere stava nascosta dietro un angolo della strada; e, con un occhio di là s'era messa a far la spia, e [se ne] stava per metà fuori e per metà no, per guadagnarsi il tempo giusto per filarsela". Il fratello della luna è, naturalmente, il sole.

42) "La Notte che mai aveva potuto imparare a scuola la pittura, vedendo che il Sole aveva una gran fortuna e che era riuscito a pittare, per fargli un dispetto era andata di soppiatto davanti a un quadro dove quello aveva finito di dipingere il mondo, e imbrattando lo andava da cima a fondo".

43) "Come un ragazzino, che a scuola si è confuso nel fare un [compito di] latino, che non ne comprende neppure una parola: te lo vedi sfogliare il Calepino, si gratta, si rigira e con un molare si rosicchia mezza unghia; se vicino a lui ci sta uno che glielo suggerisce, lo bacia e fa un salto per l'allegrezza". Erano detti calepini i dizionari di latino dal piú antico di essi, molto usato dal Cinquecento fino al Settecento e famoso fino ad indicare il dizionario latino per eccellenza.

44) "Fecero come fanno con il gallo le gallinelle su un'asticciuola: vola lui abbasso, ché ha fatto il callo facendo questo piccolo volo una volta piú d'un'altra. Vanno loro per cimentarsi in questo ballo, gli comincia a tremare lo stomacino; tornano ad agitare le ali, ma, non appena si lascia [andare] la prima, a tutte passa la paura".

45) "Bastava solo questo perché quelli, ch'erano, come gli altri, animaloni, se la tenessero in pregio: e vagli a dire ch'erano belle chiacchiere e storie, che ti si avventavano in faccia; immediatamente gli urli andavano per i torrioni, e [quelli] cominciavano a fare una rivolta. Quanto fa l'ignoranza qualche volta!".

46) "Uno era paralitico e l'altro storpio".

47) "Vecchiaia cane! Ahi tempo passato! Ve', se la perderei questa occasione! - diceva il primo - Va', che ora il Re ha trovato chi ne può uscire con qualche onore. La virtú s'è perduta e con noi muore! / Non c'è piú chi sa fare un discorso, non vedi altro al mondo che impostori; birbi, che li prenderei a calci, quando ti vogliono fare i dottori. Non sono buoni ad altro che a farti una cacata per tutti questi cantoni, e a far rumori. Dove sono andati quegli Asini antichi, che parlavano meglio delle Piche!".

48) "Allora si poteva dire - rispose l'altro - che era il tempo degli Asini! Va' a trovarli ora! Quando li butti via tutti questi milordini mingherlini? Non vedi altro che bellimbusti che si sono messi a fare i signori; non fanno altro che bere e mangiare, e non si parla piú di studiare".

49) "Se vai cercando Scimmie, dove ti volgi ne trovi a migliaia per tutto il mondo, che altro bene non c'è se lo rigiri da capo a piedi sino a fondo".

50) "Va', per esempio, per Napoli e a volte ne incontri tante che sono un'infinità: vanno a piedi, in calesse, perfino in carrozza, che ti fanno gonfiare tanto un gozzo".

51) "Quelli che sono di piú bassa mano vogliono scimmiottare il Cavaliere; tutti con il valletto e lo staffiere vanno facendo inchini e baciamano: "Ho assunto un bravo credenziere che mi è venuto apposta da Milano; fa sorbetti d'incanto e frutta candite, zuccherini e ceci col naspro". / Una, che stenta tutta una settimana a guadagnare due grani a forza di sputi, la festa poi ti pare una levatrice. "Senza carrozza chi può andare in piazza? Via, via, è vergogna con la scarpa bassa sotto il guardinfante! Che sei matta? Sorella mia, come vai [vestita] cosí sei stimata: che importa poi che lavi il bucato!" / Certi altri zerbinotti curiosi vogliono scimmiottare i Milords; puzzano di catrame e vanno bagnati di acqua di mare masticando corde; tutto il giorno fanno cuci e scuci con le marsine [indosso] e gli danno le corde; disconoscono pure i denari, poi non possono pagare la pigione".

52) "C'è chi fa il poeta e vuole stare alla pari con Casa, e scimmiottare persino Dante; non fa un verso che non sia sconnesso, non vuole parola che non sia [alti]sonante; non ci trovi un senso che sia chiaro, unicamente amico delle consonanze. Quando le recita, poi, non sai se è orco, gattomammone o spirito di porco. / Un altro vuole scimmiottare il Boccaccio; ma non sa dire altro che: "Io vorrebbe unquanco dar de' calci a quel furbaccio di rovaio, e ad ogni otta io lo farebbe; ier l'altro otta catotta un buon migliaccio mi mangiò e a le guagnel, che non m'increbbe; io lo mangiò ad un desco, ov'era a scranna il gran Don Cherche e la contessa Orlanna"". I due ultimi sono "probabilmente nomi altisonanti e immaginari a chiusura del discorso sconclusionato e reboante dello sprovveduto imitatore del Boccaccio" (N. Lombardo, Op. cit., p. 85, nota).

53) "Ci sono certi che vogliono far vedere che hanno persa la vista per studiare. Se li vedi ti fanno stravedere, son ragazzi e portano gli occhiali; toccali poi che gli senti cadere di bocca certe cose da crepare [dal ridere]. E infine, cosa accade? Per fare questa finta, restano somari e perdono la vista".

54) "Come sono dentro Napoli, cosí sono per tutto il mondo di queste Scimmie, che in ogni parte ne trovi senza fine".

55) "Se vedi nominare in quest'opera le cose che non c'erano al tempo in cui gli Asini parlavano, ma si videro parecchi anni dopo o ci sono ora al mondo, non ti mettere a dire che è stato errore e a tormentarmi; perché l'ho fatto apposta per correggere i vizi di questi giorni come se fossero di quel tempo; altrimenti non potevo farli dire dagli Asini, perché ora non parlano e non fanno altro che ragliare e fare scorregge".

56) "Ora sappi che in cielo è decretato che questa tua razza debba regnare sempre al mondo. Cosí vuole il Fato".

57) "Per questo [che ti dico] non avere paura, che t'abbiano da fare tanto di male: che sebbene torneranno al sembiante di prima, non potranno mai lasciare i costumi bestiali; e crederanno [che sia] gran fortuna la loro, se tali saranno conosciuti; e vi ameranno come vi amano adesso che sono con voi".

58) "Poi ignudi come si trovavano, uscirono dal bosco e se ne andarono, chi da una parte e chi da un'altra; e dove arrivavano ricevettero piú di un complimento: dove avevano vestiti, dove si buscavano danari e robe; e tanta [roba] raccolsero, che in pochi anni [cosí va il mondo] si trovarono ricchi, e ricchi in fondo. / Arrivati a questo stato, detto fatto, si videro attribuire la nomea che ognuno era uomo da dare scacco matto anche a chi aveva stampata una legge. Non c'era poi questione di politica che non la decidessero in un baleno. Quanto fa questa tignosa di fortuna per far mettere un asino in arroganza! / Ma fa quel che vuoi, quel maledetto odore, quell'alito asinesco, che tanti anni avevano portato addosso e gli era entrato fino al cuore, sempre gli usciva di sotto i panni come un traditore; e da quelli che al mondo non erano come loro orecchie pendenti, erano a vista conosciuti per asini e messi in lista. / Questi fecero figli e poi i figli fecero gli altri, e gli altri appresso; e perché dalla pianta passa nei germogli lo stesso umore, n'è accaduto che per tutto il mondo, se ti prendi gusto di rivoltarlo, muori di botto prima di trovare un uomo: e quasi tutti puoi dire che sono frutti di quella pianta là".

59) "E per questo, non tanto per le mura che le Scimmie fecero a Gragnano, nemmeno per il castello, che non dura, ma per questa razza che di mano in mano si è sparsa dappertutto, e la Fortuna l'ha innalzata piano piano fino alle stelle, sarà sempre a questo mondo, come è stata, la Reggia degli Asini conservata".

(Da "CULTURA E TERRITORIO", X - 1993, pp. 25-60).

(Fine)

 Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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